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Noi - Recensione: passo a due con doppelgänger

Le neo-star Lupita Nyong'o e Winston Duke fronteggiano i propri doppelgängers

Jordan Peele è l'uomo nuovo di Hollywood, capostipite di una generazione di autori che sta firmando una nuova era, riportando la città delle stelle a un ground zero già visto in passato, innescando una ripartenza autoriale dal basso utile a riformare un ambiente in crisi di idee. 

 

Una new wave a confermare quella che potrebbe quasi divenire una regola dogmatica della Settima Arte: il genere salverà il Cinema. 

 

 



Se Get Out - Scappa per alcuni è sembrato un caso, un evento unico e irripetibile, Noi diventa invece conferma della presenza di un nuovo autore riconoscibile attraverso il proprio segno, nello stile di scrittura, nella capacità di mettere in scena una storia di genere memorabile, genuina nella ricerca di un tema che non incontri le fisime del pubblico, le analisi di mercato e che si nutra unicamente dell'estro e della poetica di chi la crea.

 

Hollywood, a un certo punto della sua storia, è stata letteralmente salvata dagli autori di genere, stufi del cinema alla Frank Capra e desiderosi di sperimentare nuove forme di racconto. 


John Carpenter creava un fenomeno globale con il suo Halloween, Tobe Hooper raccontava l'america rurale e assassina con Non Aprite Quella Porta, Steven Spielberg dirigeva il Duel scritto da Matheson, George Romero inventava lo zombie come lo conosciamo oggi con La Notte dei Morti Viventi. 

 

E ancora Ridley Scott girava l'Alien sceneggiato da Dan O'Bannon, David Cronenberg gettava le basi di quello che poi avrebbero chiamato body-horror con Il Demone Sotto la Pelle e Rabid - Sete di Sangue e David Lynch diventava un fenomeno del cinema di mezzanotte con il travagliato e magnifico Eraserhead.

 

 

 


I titoli e i registi sono molti e le pellicole si sprecano, a dimostrazione che i tagli autoriali più interessanti, quelli che hanno fatto dell'horror uno degli esponenti del cinema di genere più famigerato del medium, sono partiti da idee e visioni mai viste prime al cinema.

 

Nomi e identità che, nel corso della loro carriera, avrebbero poi definito una via per le major - Spielberg ne è esempio principe - oppure entrando nel cinema ad alto budget per creare opere indimenticabili e donare a Hollywood nuova linfa.

 

A margine sarebbe opportuno ricordare come anche in Italia avevamo i nostri genietti e se guardate il cinema horror di Mario Bava, Dario Argento o Lucio Fulci troverete alcuni pilastri del genere, opere che poi hanno ispirato altri - chiedete a Quentin Tarantino se ne volete conferma.

 

Il cinema horror è stato definito da questi autori e nel recente passato, con lo spostarsi delle produzioni e il cambiare dei tempi e degli stilemi, il genere è stato cannibalizzato, lasciando alle generazioni più giovani un corollario di pov, spettri pazzerelli, jump scare e ctrl+c ctrl+v di canovacci talmente visti e rivisti da aver causato una svalutazione inesorabile del filone.

 

Un po' come accadde similarmente negli anni '50 quando i mostri classici Universal erano stati ridotti a macchiette, pellicole versus e incessanti more of the same privi di mordente, generando folli e incapaci visionari come Ed Wood - che quantomeno era dotato di una spiccata fantasia.

 

 

 


Il pubblico, ora invaso dal Conjuring Universe - altro carrozzone di possessioni e facce truci a gridare in camera - dovrebbe vedere in Jordan Peele, come forse dimostrano gli incassi, un miraggio, un autore dalla funzione salvifica, che con Noi dimostra ancora una volta di saper costruire un film di horror sfruttando l'estro di un filone dove la fantasia, l'abbandono dei cliché e delle sovrastrutture, che è necessario quando si vuole avere un impatto sul pubblico. 

 

Noi è la storia di una famiglia media afro-americana, in vacanza nella soleggiata Santa Cruz, costretta a fronteggiare i propri, sanguinari, doppelgängers.

 

Il plot di per sé, pur partendo dall'archetipo del doppelgänger e affondando nella logica del doppio amata da Lynch e sfruttata da Alfred Hitchcock in Vertigo, riesce a trovare una nuova connotazione, dando a questa figura una genesi tanto umana quanto spirituale, stabilendo connessioni da Metà Oscura - romanzo di Stephen King trasposto in cinema da Romero - fondendo legami terreni da gemello alle elucubrazioni del corpo e dell'anima. 

 

 



La figura del doppelgänger si stratifica, discostandosi dal mero ritratto di un riflesso proiettato su di uno specchio in frantumi. 

 

Con un gioco di riscrittura ordito in un labirinto di specchi, il regista sottrae l'idea archetipica di confronto tra il vero io di luce e il gemello di tenebra, l'essere umano empatico e il male puro in quanto entità umana priva di tale meccanismo, prima lasciando al pubblico questa lettura per poi via via spostarla verso un discorso più legato a dei corpi, creati dall'uomo o da Dio, e sull'idea di cosa conferisca a loro un'anima. 

 

Noi sembra, sotto alcuni punti di vista, mettere in discussione attraverso un parallelo l'idea che la razza umana possa essere stata creata e poi dimenticata e come, ironicamente, questa genesi si sia poi ripetuta e distorta, dando il via all'armageddon in quanto ribellione di un io costretto a replicare per osmosi le vite, insensate, delle maschere che lo hanno nascosto, privandolo di un universale diritto all'anima. 

 

 

 


La storia si muove seguendo la famiglia tanto quanto il personaggio interpretato da Lupita Nyong'o, mattatrice della pellicola attraverso una prova attoriale complessa dove, come tutti i personaggi, l'idea di vittima e carnefice non è mai davvero definita o dichiarata, riempendo il suo carattere di mistero e di un interrogativo pulsante risolto e irrisolto, dove solo lo sguardo di un bambino, di chi sta consciamente indossando una maschera al fine di proteggersi dall'esterno, può dare risposta.

 

Peele sembra capire, in scrittura tanto quanto nella messa in scena, l'importanza del cinema: lascia raccontare la storia alla macchina da presa, dando priorità al racconto per immagini, dirige gli attori con estrema grazia mettendoli al centro di movimenti ed espressività utili a comprendere i momenti e le situazioni, rendendo così una spiaggia soleggiata uno scenario da incubo, l'ultimo luogo che potremmo mai associare al terrore. 

 

 



I movimenti di macchina e le musiche si esibiscono in un passo a due che è alla base del film e scontro ideologico, e fisico, che diventa esibizione di bravura tecnica registica e attoriale. 

 

Noi vive di simboli, indizi e spiegazioni visive, pretendendo e catturando l'attenzione del pubblico senza mai insultarne l'intelligenza, impiegando la musica sapientemente per dosare i momenti, scandendo quelli leggeri e quelli di pura tensione, donando un senso a ogni suono e dimenticando ogni trucco da tunnel dell'orrore da luna park cinefilo, generando invece un senso di inadeguatezza e pericolo creandolo attraverso il cinema.

 

La Pas de Deux di Michael Abels sale nel petto, gela il sangue nelle vene e trascina nella visione con un senso di disagio inesorabile nella sua costanza. 

 

 

 

 


Quello che stupisce del lavoro di Peele è la capacità di scrittura lucida, dimostrandosi abile nel portare al pubblico di massa una famiglia afro-americana che non sia uno stereotipo, cestinando una certa iconografia caciarona e sopra le righe alla quale siamo abituati, evitando perciò il carattere parodistico che hanno avuto molti film, anche di genere, nello scrivere realtà oltre quella dell'uomo largamente inteso come comune.

 

Difetto che, anche se in scala molto più piccola, abbiamo nel cinema Italiano quando ci descriviamo esclusivamente per stereotipi regionali. 

 

Noi mescola momenti di commedia, orrore e cinema di mistero, dove la risposta al colpo di scena diventa intuibile non perché banale ma poiché il regista porta lo spettatore a comprenderlo attraverso la messa in scena; ricordate che un film dove il colpo di scena ha bisogno di molti dialoghi e spiegazioni per essere compreso è un film che, per quanto ben realizzato, non ha lavorato per darvi gli elementi utili a comprendere la vicenda, trovando una soluzione forzata attraverso un dialogo - aka spiegone - utile più allo spettatore che alla storia stessa. 

 

 



Peele invece, come accadde in Get Out - Scappa, si rivela uno sceneggiatore elegante, brillante nella stesura dei dialoghi messi in bocca ai personaggi, aggraziato nella scrittura invisibile al servizio del cinema, lasciando in un cassetto l'ego dell'autore e mettendo di fronte a tutto la storia che vuole raccontare.

 

Quello che vuole portare sullo schermo è quindi il doppelgänger come partner omicida di una danza macabra omicida dell'io, come forbice speculare, come cartina tornasole utile a comprendere la nostra vera natura a dispetto delle convenzioni, come atto sovversivo verso le etichette, le influenze e il vero volto di un mondo parallelo dove le conseguenze sono crude e inesorabili, dove nessuno sente il bisogno di una maschera bramando, come un coniglio in gabbia, la libertà di correre libero alla ricerca dell'anima.

 

Paragonare Noi Get Out - Scappa non avrebbe molto senso, in quanto opere impegnate a lavorare su argomenti differenti legati all'animo umano.

 

Andate quindi al cinema aspettandovi un film di Jordan Peele, nel quale è già possibile intravedere gli elementi portanti della logica di un autore alla ricerca di stimoli nuovi per se stesso tanto quanto per lo spettatore, facendo della metafora sociale un punto di partenza per una storia di genere accattivante, gravida di messaggi nascosti e momenti memorabili, il cui sguardo oscuro e seducente mesmerizza la mente fino a trascinarla dentro la visione.  

 

Voto: 90%

 

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