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Ready Player One è il prodotto più sfacciatamente citazionista di questo decennio, che su citazioni e riferimenti agli anni ‘80 e ‘90 sta costruendo la propria “identità”.
Abbiamo visto in breve tempo il ritorno di franchise come Jurassic Park, Star Wars, Mad Max, il nuovo film di IT è stato un successone mondiale e la serie Stranger Things ha reso i piccoli protagonisti delle vere e proprie superstar.
L’uscita in sala di RP1 si inserisce quindi perfettamente in questo solco e non poteva che essere Steven Spielberg il demiurgo di tale operazione: un regista che ha spesso fatto della nostalgia un suo punto di forza ed uno dei principali artefici dell’immaginario collettivo mondiale legato al cinema degli anni ‘80 e ‘90.
Il film però non pensa quadrimensionalmente, perché se poni le tue fondamenta sul riferimento a qualcos’altro, senza approfondire i motivi che hanno reso quel qualcos’altro così fondante, rischi di ottenere una bella vetrina di ricordi e di sorrisi nostalgici che però emoziona solo apparentemente, e lo fa soltanto nel momento in cui in ogni spettatore scatta il click della memoria legato a quel personaggio, a quel gioco, a quel film.
Senza però costruire emozioni nuove legate al film stesso.
Ready Player One prende quasi tutta la cultura pop-nerd legata ai film, ai videogiochi e all’immaginario collettivo degli 80s - e anche qualcosina che arriva da più vicino e da più lontano - e la rimescola in un pentolone coloratissimo e vorticoso, un mondo virtuale gigantesco e potenzialmente infinito dove le persone entrano per fuggire dalla propria triste realtà e andare dove sei chi scegli e credi di essere.
La presentazione distopica della società del 2045 resta sullo sfondo senza mai diventare la vera molla che porta i personaggi a vivere altrove.
Lo sappiamo perché ci viene detto, non perché sia lampante grazie al racconto.
Spielberg pare essere più interessato ad esplorare le possibilità che un mondo completamente fittizio può dare al suo lavoro: dove non esistono attori, macchine da presa, scenografie, costumi e luci e dove la sua creatività può spaziare liberamente inventando e mostrando cose che sarebbero altrimenti impossibili da realizzare fisicamente, imponendoci la sua visione dove è evidente che non abbia badato a spese.
È il mondo di OASIS quello preponderante, quello reale.
Il film a un certo punto ribalta il punto di vista facendo credere a un personaggio che quello fittizio sia quello reale, proprio quando in noi spettatori il mondo reale ha perso qualunque tipo di interesse perché completamente rapiti da quello fittizio e siamo avidi di guardare cosa altro potrebbe esserci, quale altro personaggio radicato nella nostra memoria poter scorgere tra i tanti che si susseguono uno dopo l’altro, da quali altre meraviglie farci meravigliare.
Però, se è vero che la realizzazione di OASIS è un autentico spettacolo, il tutto manca di anima, di emozione.
Personalmente il coinvolgimento è rimasto spesso ai minimi termini e l’empatia con i personaggi è stata pressoché inesistente.
Perché sono i personaggi stessi a non essere coinvolgenti, delle figurine piatte e senza tridimensionalità, senza grossi drammi da affrontare - e quando li hanno sembra che anche a loro in fondo interessi poco - e soprattutto senza una vera evoluzione da parte di nessuno di loro.
L’arco narrativo dei protagonisti e degli antagonisti fa al massimo mezzo metro, grazie a Wade che cambia idea sul fatto di essere un “solitario” e preferisce lavorare in gruppo.
Ma né lui, né i suoi amici né gli antagonisti sono in qualche modo interessanti.
Fin dall’inizio è prevedibile come si evolveranno le cose, chi vincerà il gioco, cosa succederà tra Wade e Samantha, e tutto il resto.
Ma il problema è che secondo me non è così tanto interessante assistere allo svolgimento del tutto: oltre alla quantità smodata di riferimenti e di personaggi che escono dalle fottute pareti ci ho trovato davvero poco.
Certo, mi sono emozionato quando ho visto Gundam, quando ho visto la DeLorean, quando ho riconosciuto la moto di Akira o quando nominano la Rosebud di Quarto Potere, ma il tutto è buttato lì come se fosse un album di figurine, un elenco continuo che fa a gara con tutto ciò che lo ha preceduto per avere al suo interno più citazioni possibili.
Ma le citazioni non costruiscono nulla: appaiono, e basta.
Unica eccezione: la scena ambientata nell’Overlook Hotel di Shining.
Perché in quel caso assistiamo alla riproposizione di un classico, con annessi i medesimi punti macchina di Stanley Kubrick, che assume un vero significato all’interno dell’opera nuova.
L’omaggio non rimane fine a se stesso, ma si propone come identico e poi si veste con un abito creato per l’occasione, indossandolo sopra quello del 1980.
È interessante vedere i protagonisti all’interno della hall, nella sala degli ascensori, dentro il bagno della famigerata camera 237 e guardarli interagire con gli accadimenti che già conosciamo: l’operazione nostalgia in quel momento diventa l’occasione per portare avanti il racconto in maniera originale.
La donna del bagno si trasforma in qualcosa di ancora più orribile rispetto al film originale, la sala da ballo presenta personaggi e situazioni nuove, fondamentali per lo sviluppo della storia di RP1.
E se fino a quel momento il film non mi aveva emozionato senza che riuscissi a capire bene il perché, lì mi è parso lampante: quella scena segna una differenza sostanziale con il resto della pellicola, perché non si tratta più di una collezione di figurine ma di un tassello importante ai fini del plot.
E, va da sé, sottolinea la mancanza della cosa nel resto del film.
Su quelle che secondo me sono ingenuità di sceneggiatura ci sarebbe da aprire un capitolo a parte, cose come il fatto che su centinaia di milioni di giocatori al mondo gli unici così in gamba da trovare ogni cacchio di volta volta l’indizio giusto siano sempre e solo i protagonisti destinati a farlo, o il fatto che nel 2045 in un luogo così ad alta presenza di tecnologia futuristica il super capo della IOI abbia un’importantissima password... scritta su un post-it, etc ma so bene che il film arriva da un libro e, senza aver letto il libro - nel caso smentitemi pure tranquillamente, voi lettori e conoscitori dell’opera di Cline - posso immaginare che tali ingenuità siano da attribuire a quello, più che alla sceneggiatura cinematografica.
Certo è spassoso seguire un film colmo di easter egg che ti racconta la caccia a un easter egg il quale è a tutti gli effetti… un easter egg.
E, ripeto, diventa quasi una sfida cercare di riconoscere più riferimenti possibili nascosti all’interno di una scena di battaglia in massa, su una spilla, su un poster o su una vhs.
Di base però penso che Ready Player One sia un buon prodotto di intrattenimento, sufficientemente eye candy e divertente, ma che manchi di quell’afflato emozionale presente nelle opere di Spielberg, quel tocco che lo ha sempre contraddistinto e differenziato dagli altri registi mainstream e anzi esagerando un po’ potrei anche dire che il film avrebbe potuto essere girato da qualcun altro e probabilmente non me ne sarei accorto.
E forse è proprio perché ho sempre amato Spielberg che, nonostante il film non sia certo da buttare via, ho provato un po’ di delusione e di insoddisfazione finiti i titoli di coda: l’amore ci fa a pezzi, perché gioca con le nostre aspettative e, se disattese, ci distrugge.
È in ballo il sequel - anzi, forse due sequel - sempre basati sui libri di Cline, che deve ancora scrivere.
A questo punto allora spero che il prossimo film possa liberarsi dalla morsa dei riferimenti a tutti i costi e diventare un’opera originale e completa, perché per quanto mi abbia intrattenuto…
Ready Player One non è il film che stavo cercando.
Voto: 65%
[menzione d'onore per chi individua tutte le citazioni sparse nella recensione!]
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