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No Other Land - Recensione: la Palestina, le immagini, l'Occidente

Tra 2019 e 2023, sguardi dentro una ferita ancora aperta 

No Other Land è un documentario diretto da un collettivo di attivisti palestinesi e israeliani formato da Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor.

 

Il film non sta da una parte e il reale dall'altra; questo non (può) accade(re) né nel documentario né nella fiction, dicotomia che – su tali basi – si sgretola in termini ontologici. 

In qualche modo, tuttavia, il film non è reale quanto (o come) il cosiddetto reale: in un senso, quello apparentemente più ovvio, è meno reale; ma in un altro, da chiarire, è più reale, o – addirittura – lo è esclusivamente. 

 

In questa sede, ovvero in Occidente e nelle parole di chi scrive, questi strumenti vanno messi a punto per poter affrontare con rigore critico un caso come quello di No Other Land.

 

Non si tratta di strumenti neutri (meglio: non esistono strumenti neutri, né rigori critici neutri), e ciò deve essere problematizzato in rapporto alla situazione di cui i registi riferiscono dall'interno

 

 

[Il trailer italiano di No Other Land]

 

 

Introduzione, o messa a punto teorica

 

Che il film sia meno reale del reale significa che esso, come altre forme di espressione, non esaurisce il reale e, offrendone un'interpretazione, pare sempre tradirlo (e/o tradurlo).

 

Bisogna però intendersi quando si parla di realtà: non abbiamo in mente uno stato di cose a cui il documentario debba adattarsi. È forse questo il destino del nostro tempo, la caduta (o almeno la ri-calibratura) di alcune dicotomie e – soprattutto – la risposta alla caduta, la sua presa in consegna. 

Da decenni ormai, in area critico-teorica, si elucubra sul nucleo finzionale del documentario, ma se il dibattito può talora sembrare circoscritto alla torre eburnea dell'arte (presupponendo una determinata concettualizzazione della pratica artistica), non va dimenticato che lo stesso nucleo finzionale interessa parimenti, ben al di là di ogni settorialismo, il documento (oppure la prova). 

 

Il passaggio è enorme; si potrebbe persino dire, tenendo conto dei mille volti del documento e rivolgendosi anche alle pratiche scientifica e storiografica, alla loro spinta oggettiva(nte), oltre che – per esempio – all'ambito legale, che il passaggio è epocale.

Nondimeno, non è stato indolore: se il riconoscimento della finzione documentaria ha sovente implicato uno sfrangiamento delle dicotomie cinematografiche proprio nel segno della finzione, il fenomeno si è verificato con più incertezze nel campo documentale, ossia – diciamo noi – in relazione ai fondamenti della nostra abituale concezione del reale.

 

Tolta questa legittimità alla scienza e alla storiografia, ai metodi tesi all'ottenimento di (o alla gestione dei) documenti e alla formulazione di enunciati oggettivi, ma anche – in parallelo – al potere mimetico dell'audiovisivo, che cosa rimane?

Detto altrimenti, al limite del paradosso (logico): che cosa resta appena il reale si eclissa? Di sicuro, non delle cose, non degli stati di cose. Chi può trascendere la finzione per dire il vero sul reale? Se nessuno ne è capace, e non perché il vero e il reale sarebbero troppo per il singolo individuo, ma in quanto nessun metodo e nessuno strumento possono ormai garantire un accesso univoco, non permangono che le finzioni. 

Meglio: si spalanca una prospettiva in cui la dicotomia, privata di un termine, si sgretola in termini ontologici.

A rigor di logica, mancando un pietra di paragone, non si può più parlare di finzione.

 

Siamo dunque nel dominio del non-senso? Se impieghiamo le medesime categorie del passato dopo aver avvertito una qualche frattura, sì, siamo nel teatro dell'assurdo, dove nulla vale e correlativamente – ecco il nodo – tutto vale allo stesso modo.

Nondimeno, sempre a rigor di logica, quella che forse scricchiola, il relativismo (soggettivistico) che sa che tutto vale allo stesso modo, da dove trae il suo sapere se non dalla fantasia di aver finalmente afferrato un senso (che sarebbe poi la mancanza di senso)?

 

La prima messa a punto degli strumenti tenta quindi di lasciarsi effettivamente alle spalle la dicotomia, non per questo concludendo nel vuoto.

Dire che il film è meno reale del reale significa raccogliere una differente concezione del reale.

 

Oltre la visione ontologico-gnoseologica della dicotomia realtà/finzione, al reale – ostinandosi a impiegare questa parola – si può forse sostituire un'occasione: il reale è occasione.

Il film origina da un'occasione che non può esaurire, e appunto la mette in gioco interpretandola: parla di un'occasione – qualora se ne renda conto (mai del tutto) – sempre da un'occasione a cui non può risalire.

In questo senso, essendo occasionato (e non deterministicamente prodotto), può apparire meno reale, quasi distante di un grado dalla propria origine, ma l'originato non può mai agguantare del tutto la propria origine: questa origine vive solo nelle interpretazioni che ogni volta se ne danno, e che la rinnovano (e ri-comprendono) ogni volta che ve n'è occasione.

 

Ne risulta che il film è occasionato e che esso stesso si manifesta come occasione, come peraltro accade agli strumenti non-neutri che ne permettono la realizzazione e al dispositivo che ne regola il decorso.

 

 

[Un frame da No Other Land]

 

 

In questo intreccio di relazioni, che vanno avanti e indietro, si vede che il film non è un che di sostanziale (sub-stanziale), e non perché gli spettatori lo tingano con le loro opinioni o i loro sentimenti soggettivi. 

 

Nemmeno gli spettatori sono un che di sostanziale, e men che mai lo sono le occasioni, che pure – e in Palestina lo sanno bene – possono colorarsi di spregevole violenza. 

Dire ora che il film sia più reale del reale può allora significare due cose: o che il film sia la traduzione razionale (magari con un input non-razionale: si veda il politologo Carl Schmitt) di un'occasione entro uno stato di cose cinematografico, inteso come discorso compiuto, oppure che possa essere, al contrario, più occasionale – occasionato e occasionante – di un reale che ormai ai nostri occhi è ipostatizzato. 

 

In questa sede la prospettiva è la seconda.

Tuttavia, come ulteriore messa a punto, questa medesima prospettiva non può passare sotto silenzio. 

Senza scivolare nel biografismo, si può anzitutto affermare che, in Occidente, la relazione con gli eventi e l'orizzonte di No Other Land sia quantomeno occasionale, cioè – in questo caso – saltuaria.

L'urgenza che pure potrebbe sorgere non coincide con quella di chi è direttamente coinvolto; dal che non deriva che l'unica prospettiva legittima sarebbe quella di chi è direttamente coinvolto, ma soltanto che, nella rosa dei coinvolgimenti, le differenze di presupposti vanno esposte e interpretate.

 

Il coinvolgimento che può nascere in Occidente, per esempio in coloro che sono stati moralmente scossi dalle vicende (mediate, mediatizzate) israelo-palestinesi, conduce spesso a un approccio teoretico.

Teoresi e teoria derivano etimologicamente dal greco theorein, parola che indicava il vedere contemplante, un vedere il cui senso ultimo si aggira – riproponendo il più occidentale dei dualismi – tra la visione sensibile e quella sovra-sensibile (logica, filosofica, e poi scientifica).

 

Chi contempla ha fatto (o si è trovato) un passo indietro, passo indietro che dischiude una serie di operazioni che non possono che essere meno disponibili a chi sta nel mezzo della mischia.

Bisogna prendere sul serio una simile e ovvia differenza, che non va (né può essere coerentemente) connotata in chiave morale.

 

In questa sede, lo sguardo si vuole teoretico: si può dire lo stesso di un film? Di più: si può dire lo stesso di un film come No Other Land?

 

 

[Un frame da No Other Land]

 

 

Quella che forse è una recensione

 

Prima del 7 ottobre 2023, fuori dalla Striscia di Gaza, senza l'ombra di Hamas. 

 

No Other Land si colloca diegeticamente prima e oltre questi avvenimenti; insieme, appartiene pragmaticamente al dopo, come – del resto – chi ne fruisce. 

Non si può sopprimere questa implicazione, tratto occasionale che certo dona ulteriore risonanza al film e che però, naturalmente, si scontra con le speranze (e perciò con le intenzioni) di chi lo ha realizzato.

 

Il documentario diretto da Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor coglie un segmento della questione israelo-palestinese che sembra alimentare meno polarizzazioni politiche; ne alimenta comunque parecchie, sì, ma in misura minore rispetto agli snodi più recenti.

 

Siamo in Cisgiordania tra 2019 e 2023, nel territorio di Masafer Yatta, patria di Basel, il protagonista del documentario: (anche) lì si rivolgono, ormai da decenni, le mire espansionistiche, militariste, razziste e colonialiste del governo israeliano, che mediaticamente trova una sintesi quasi narrativa in Benjamin Netanyahu e nel film si travasa in Ilan, pseudo-villain incaricato (dalla Legge e dalla Politica) della distruzione dei villaggi locali al fine – così dicono – di costruire una zona di addestramento. 

 

Intorno, intanto, spuntano gli insediamenti e i loro abitanti imbevuti d'odio sionista.

 

È questo il reale, visto (e dato) politicamente, da cui e in cui No Other Land opera, cercando di documentare e denunciare.

La prospettiva politica che sottende, tutt'altro che astratta, è di facile decodificazione e anzi è il nucleo del paratesto che accompagna alla visione.

Chi si reca in sala sa cosa andrà a vedere; e sembra ragionevole aspettarsi che, per la maggiore, fatta quella scelta, condivida questa prospettiva (come nel caso di chi scrive) – prospettiva che, pure, instrada verso una sterminata serie di problemi (non solo geopolitici).

 

No Other Land vuole esplicitamente far breccia in Occidente, soprattutto nell'opinione pubblica statunitense. È, e forse non può non essere, un film a tesi.

Non è importante che il giovane Basel dica qualcosa di nuovo: conta la sua urgenza, quella di un villaggio sull'orlo del baratro; conta che un palestinese possa esprimersi e possa essere ascoltato.

 

La tesi che esprime non arriva dall'alto, ma dal coinvolgimento in una tragedia. E questo riguarda la componente indicale del film, il suo esser traccia materiale di una situazione, la prova del suo esser-stato-lì.

Si badi bene però: la componente indicale non esaurisce l'immagine (ossia: non esaurisce il reale).

Essa gioca sempre – sul piano semiotico: elaboriamo da Charles Sanders Peirce – con la sua occasione, la sua provenienza (dalla situazione), e con la sua comprensione.

Talvolta anche i soldati israeliani riprendono gli sfratti e le demolizioni, e certo le loro immagini, pur confrontandosi con la stessa finestra spazio-temporale, né originano dalla stessa occasione e né suscitano la stessa comprensione. 

 

Peraltro, in genere, gli occupanti non hanno alcun timore di essere filmati – anche se, in parallelo, ai palestinesi vessati accade di invocare in propria difesa il cine-occhio di Basel.

 

 

[Un frame da No Other Land]

 

 

L'essere-stato-lì del protagonista rende conto della voce di chi abitualmente non ne ha ed è decisamente importante. 

 

In No Other Land la funzione indicale è assolta in maniera incisiva (nella nostra comprensione) da alcuni segmenti più documentari, quelli in cui Basel è nel mezzo della mischia e mette anche a repentaglio la propria vita.

 

In quei momenti si avanza con pochi fronzoli, quasi in soggettiva e attraverso riprese improvvisate, con uno stile amatoriale (giustificatissimo) che ormai è garanzia di autenticità.

Da questa (impressione di) presenza nascono immagini e sensazioni forti, soprattutto visto il carattere gratuito della violenza inferta ai palestinesi.

Per la maggiore, in queste occasioni, Basel è un cine-occhio che non sta affatto zitto, pronto a commentare vocalmente le angherie e persino, con mezzo passo indietro, lo sparo subito dal concittadino Harun, ma ogni tanto è anche ripreso mentre partecipa alle contestazioni popolari, sguarnito di cinepresa. 

 

Le immagini che cattura sono, comunque, una forma di attivismo e infine di resistenza e la resistenza va organizzata. 

 

In un frangente Basel controlla un video girato in precedenza; e, più avanti, No Other Land propone addirittura un montage che mima una successione di post social, contesto in cui – oltre questa sequenza – Basel pubblica diverse riprese e il cui andamento, in termini di engagement, si premura di monitorare, per misurare la temperatura mediatica.

Far breccia nell'Occidente equivale a far breccia nei media mainstream. L'attivismo di Basel è anche mediattivismo, sul confine, come per l'amico e co-regista Yuval, con il citizen journalism.

È questa una scelta necessaria, oggi? Per Basel e Yuval, sì. 

 

In questo quadro, il doppio utilizzo delle (proprie) riprese più immediate, sui social network e al cinema, è una sovrapposizione concettualmente rilevante, soprattutto dal momento in cui No Other Land non la problematizza granché.

 

Realizzare un'opera politicamente impegnata è un'espressione di mediattivismo? O, magari, di artivismo? 

 

L'organizzazione (resistenziale) del discorso muta in maniera non indifferente in base ai media. 

"Il medium è il messaggio", avrebbe detto Marshall McLuhan; il che vuol dire, in questa sede, che il medium – uno strumento qualsiasi, un medio qualsiasi – si manifesta come occasione con cui bisogna continuamente ri-misurarsi e in cui esso sempre si rinnova, si offre, e non in base ai capricci del nostro arbitrio.

 

Sui social, quelle riprese sono impiegate in autonomia entro un racconto non-lineare che include il paratesto – copy e commenti, per esempio – e via via tutto l'ecosistema informativo che ne circonda, almeno in quegli istanti (per non estendere troppo un focus che – in effetti – non avrebbe confini oggettivamente rintracciabili), la fruizione.

Ma se compaiono in un film, le stesse riprese s'inseriscono in un un dispositivo differente, in un differente percorso di senso che integra, tra le altre cose, anche delle specifiche aspettative (culturali).

 

No Other Land ha una consapevolezza obliqua di ciò.

E anche se non sarebbe il suo caso, perlomeno non del tutto, può valer la pena chiedersi se un film possa essere concepito come contenitore (inevitabilmente trasformante) di documenti, per esempio, magari, al fine di renderli meno impermanenti rispetto al flusso online, ma se anche questo esiguo aumento di permanenza si verificasse, chi assicura che lo spettatore non diventi un novello Tony Blair, che sì ha mostrato vicinanza nei confronti di Masafer Yatta e ha concretamente appoggiato l'edificazione di una scuola, e che tuttavia ha passeggiato per il villaggio per sette miseri minuti? 

 

Naturalmente, nessuno può assicurare del contrario.

 

 

[Un frame da No Other Land]

 

 

Jacques Rancière ha sostenuto che se dall'arte ideologicamente impegnata sono scaturite conseguenze nella prassi politica, queste ricadute non sono state dovute a una conversione da imputare alla parola intrinseca all'opera, ma semmai a un allineamento, intenso quanto occasionale, dei presupposti interpretativi. 

 

Nell'intreccio dei presupposti, la forza (indicale) di denuncia che No Other Land sprigiona è, oltre che notevole, preziosa, ma il film non si limita a mettere in fila quelle riprese, quei post social, come se fosse un feed a circuito chiuso. 

Sin dalle primissime inquadrature, infatti, si fa avanti anche un atteggiamento problematizzante che, a suo modo, relativizza l'incedere programmatico del discorso.

 

Un simile piglio si dirige verso l'atto del filmare e, più in generale, verso le strategie di resistenza e lotta politica (e mediatica); e si esprime primariamente nelle reiterate conversazioni che intrattengono Basel e il giornalista Yuval, un palestinese e un israeliano.

Accanto all'impressionante (impressione di) immediatezza che accompagna il footage amatoriale, si danno perciò numerosi esercizi – non dalla stessa occasione dello spettatore o del critico – di approccio teoretico.

 

Al grido di dolore si affiancano (e quantitativamente prevalgono) la riflessione e/o il riposo, con una distanza evidentissima in termini di forma cinematografica.

In questo caso, il gusto è piuttosto estetizzante e sembrano apparire dei reenactment, il che – si faccia attenzione – è, in potenza, del tutto ammissibile, e senza storcere il naso. 

Sempre Rancière ha consacrato pagine illuminanti al Cinema di Pedro Costa, al vigore estetico-politico delle trasfigurazioni apportate allo slum di Fontainhas e ai suoi abitanti; e uno dei concetti-cardine del pensatore transalpino è quello di dissenso, inteso come rottura (e messa in gioco) delle interpretazioni dominanti, consensuali. 

 

In No Other Land questo accade?

 

La risposta non è scontata come potrebbe apparire, e la questione è parecchio delicata, proprio perché ha come occasione la sofferenza di un popolo.

Senza alcun dubbio, a costo di ripetersi, parlare dall'interno in quanto esponente di un popolo che, oltre ad essere sofferente, è drammaticamente sotto-rappresentato, ha una sua carica dissensuale.

Parlare dall’interno e/per – si diceva – essere ascoltato da chi sta all'esterno.

 

Se No Other Land ha trovato una distribuzione italiana e punta anche verso i Premi Oscar, non è soltanto perché le lenti dei media mainstream sono puntate (e per quanto lo saranno ancora?) su Gaza.

Uno dei motivi, forse, è di diversa natura, più cinematografico.

 

Nelle frequenti discussioni, che pure hanno un taglio auto-riflessivo, non si domanda del come filmico. Oltre le succitate immagini emergenziali, non si fa menzione di come imbastire la struttura di un film che presenta invero una sua ricercatezza.

Le evidentissime variazioni formali, che non possono non colpire lo spettatore, pescano da un autorialismo piuttosto consolidato e tentano di donare una bellezza dolente alle saltuarie stasi, con un ritmo (anche estetico) che ha una ragion d'essere chiara e persuasiva.

Ne risultano immagini dissensuali?

 

Non si sta esigendo un obbligatorio approccio meta, e però, in un orizzonte filmico che include l'auto-indagine, suona un poco strano questo parziale adagiarsi, come fosse un'esca per il pubblico festivaliero.

Per di più, non si tratta del solo elemento che sembra andare in questa direzione, quasi domandandosi di che cosa necessitino, per esser coinvolte, le platee occidentali.

 

Tra le case di chi non ha mai avuto voce (meglio: di chi l'ha vista ignorata), in un mare di immagini mancanti, un collettivo israelo-palestinese – quello composto da Basel, Yuval, Hamdan Ballal e Rachel Szor – cerca di dare il proprio contributo alla causa.

Di immagini non-mancanti, comunque, qualcuna ce n'è; e non è la prima volta che uno sforzo collettivo imbocca questa strada.

Da tempo la comunità di Masafer Yatta, piena di attivisti consumati come il padre di Basel, realizza video per creare una sua memoria storica, comprensiva degli abusi subiti.

Il passare degli anni non scandisce una progressione narrativa, non coglie un qualche miglioramento: più che definire un peggioramento, rende ogni palestinese un Sisifo che, sempre da capo, deve ricostruire la propria casa.

 

Né questo infausto ricorrere degli eventi né lo spirito del villaggio che si inscrive anche in immagini guadagnano una posizione davvero di primo piano in No Other Land

 

Il patrimonio di immagini comunitarie, per esempio, funge più da riserva di flashback entro l'arco propriamente narrativo di un protagonista indiscusso, Basel, che peraltro commenta in voice-over.

Che Basel sia al centro è forse un riflesso della tendenza individualizzante insita nel mediattivismo (e, soprattutto, nelle attività mediatiche); in ogni caso, la speranza, concretizzatasi anche nei frammenti di telegiornali inglobati nel film, è che le sue azioni possano essere un mezzo, un medio, per rendere visibile Masafer Yatta.

Basel, inoltre, non è l'unico a possedere il nostro occhio; spesso non sappiamo chi stia filmando, e talvolta sbucano dei sorprendenti raccordi che alimentano bizzarramente la sutura (ossia – potremmo sintetizzare – la chiusura di senso dell'universo diegetico).

 

In parallelo, il lavoro del collettivo pare condensarsi (nel film) giusto nella relazione di amicizia che si sviluppa man mano, narrativamente e non senza accenni retorici, tra Basel e Yuval.

 

 

[Un frame da No Other Land] 

 

 

Nel regno della mancanza di rappresentazione e dell'impasse perenne, per quale motivo tutto ciò si verifica? 

 

Per andare incontro al target prescelto, quei media mainstream che fanno foto con disinvoltura al riluttante Harun? O magari perché quel tipo di immaginario si è dimostrato così pervasivo?

Non sono domande banali.

 

Nel primo caso sarebbe bene interrogarsi sulla differenza tra mezzo e fine, ossia sulla possibile concezione strumentale dei mezzi (per di più artistici).

Nel secondo ecco un'ingerenza – smaccatamente politica – del consenso, secondo una dinamica che, come dovrebbe essere lampante, non informa ogni opera di produzione palestinese.

 

No Other Land non è la Palestina, né il Cinema palestinese: è la traccia di un'occasione nefasta e la mette in gioco a suo modo, con dei problemi che non fanno dimenticare la ferita e che però non sono marginali.

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