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Buongiorno campeggiatori, camperisti e campanari!
Mettetevi la calzamaglia ché oggi è tempo di una recensione del filone Hollywood A.C., dedicata ai film Hollywood Avanti Cinecomic, ovvero tutti quei film scritti, diretti, prodotti, interpretati e denigrati quando ancora Hollywood trattava il filone con schifo malcelato.
Lo scopo di questo filone è trattare i film presi in esame, nella buona e nella cattiva sorte, consigliandoli e sconsigliandoli, analizzandoli o semplicemente amandoli oppure odiandoli per sensazioni viscerali, andando a scoprire cosa ne era del genere prima che il trono fosse reclamato dai Marvel Studios.
Chi segue il mio segno - manco fossi Zorro - avrà imparato a capire come spesso le mie divagazioni cinefile viaggino su un treno i cui scomparti si alternano tra la più fredda analisi critica del mezzo e l'evoluzione che questo ha nel corso delle produzioni e l'anarchia delle sensazioni.
[Dorothy Malone e Humphrey Bogart ne Il Grande Sonno, di Howard Hawks, 1946]
Sono un adepto della scuola istituita, per osmosi e non per voglia di diventare stendardi di un pensiero da diffondere uniformemente, da autori quali David Lynch e Stanley Kubrick.
Due cineasti fermamente convinti che il cinema non si debba spiegare, che l'autore debba esistere solo dietro la macchina da presa con la sua (super)visione e non di certo rimbalzando qui e là per l'etere e giornali spiegando le proprie opere, svelando significati, accentuando ispirazioni, fornendo letture e interpretazioni.
A volte, come quel cadavere a punto di domanda ne Il Grande Sonno, dare una spiegazione a un mistero, una soluzione, è a beneficio unico di chi non riesce ad accettare l'incertezza, il dubbio, il buio di un buco nero o l'oblio di cose che l'uomo non è ancora autorizzato a toccare.
La sensazione è qualcosa che prediligo fortemente, anche quando il film non vuole essere di pancia, di gusto e di fumi, nutrendosi perció di una storia ben inquadrata, personaggi, strutture narrative e archetipi riconoscibili.
I film hanno il potere di comunicare con lo spettatore attraverso diversi livelli e la pellicola in questione parla alla mia pancia attraverso la scoperta, la frontiera straniera, la cultura di un oriente caotico, pieno di sapori delicati e salati, languide atmosfere e sensi in fuga.
[Josh Hartnett e Lucy Liu in Slevin - Patto Criminale, di Paul McGuigan, 2006]
Push, cinecomic del 2009 diretto da Paul McGuigan, regista conosciuto ai più per il cult Slevin - Patto Criminale, appartiene a una tradizione di cinecomic senza il comic, descrivendo alla perfezione quel filone di pellicole prive di licenze importanti e che hanno cercato di cavalcare e anticipare un'ondata ancora in crescita.
Il film di McGuigan fu accolto freddamente dai critici, che nel 2009 erano ancora più sperduti di quanto non lo siano ora, cogliendo le ispirazioni pop e sparando alla cieca.
Nel pentolone ci buttarono X-Files, Alias e Fringe, che non avevano nulla a che spartire con un cinecomic chiaramente ispirato agli X-Men, all'idea di usare la metafora del diverso come base di partenza per imboccare una strada alternativa.
[Immagine dalla locandina di Scanners, di David Cronenberg, 1981]
Push sembra affondare le mani in quell'Heroes di Tim Kring che nel corso della sua prima stagione stregò il mondo, salvo poi essere ucciso dallo sciopero degli sceneggiatori e altre amenità hollywoodiane, riecheggiando, per i più irrinunciabili, gli echi di un film più crudele e grafico, come lo Scanner di David Cronenberg.
Decodificare Push, però, diventa sbagliato nel momento in cui i preamboli dello spunto narrativo si esauriscono e il film comincia a prendere forma, assomigliando più a un opera autoriale dotata di un proprio tono, riconoscibile nella poetica di un regista che sembra, con molta ambizione, voler creare un franchise originale dal sapore indie-pop, un cinecomic da Sundance Festival - divenuto anche comic vero e proprio su carta.
Peccato che la spesa di produzione di 38 milioni di dollari sia stata ripagata con un misero incasso di circa 49 milioni, non certo abbastanza per iniziare un franchise.
In questo preciso istante, trovandomi a parlare di Push, mi scopro nella difficile posizione di dover giustificare, come se dovessi davvero farlo, il mio amore quasi incondizionato per un film che, tutto sommato, non è certo un capolavoro esente da difetti.
Anzi, sarebbe meglio dire IL SUO difetto: ovvero quello di non essere mainstream.
Push sa di Dark Horse, di Vertigo, di Coconino, di etichetta indipendente che cerca di dare credito a un autore voglioso di raccontare gli archetipi del fumetto classico, derivativo da un'opera seminale come quella degli X-Men di Stan Lee e Jack Kirby, attraverso una visione pop elettronica, dove il mondo oltre diventa palcoscenico di protagonisti in fuga, reietti e outsider incastrati su di un palcoscenico maledettamente concreto.
Gli eroi di Push sono grigi, non hanno il lusso di avere il destino del mondo tra le mani, combattendo una battaglia ideologica dalla morale frankensteiniana, dove improvvisamente si trovano a essere evoluzione e mostro, protettori e minaccia, outsider e nuova frontiera.
Sono protagonisti ordinari, difettosi, che non vivono in castelli ultratecnologici e quando combattono lo fanno all'interno di un sistema molto più crudo e crudele di quello ammorbidito e vagamente infantile del fumetto Marvel di riferimento.
Al tempo stesso, McGuigan alleggerisce i toni dell'incedere del racconto che, seppur ben ritmati, sono quelli di The Magic Whip, album dei Blur del 2015 che giova delle ispirazioni orientali del setting cinese e della città di Hong Kong.
Il regista sceglie infatti di dimenticarsi dell'America e dei suoi confini e sistemi, per spostarsi in Cina e rendere il film languido, carico di una malincolicità caotica, dove la musica, i colori e una fotografia fluo alla Michael Mann prendono il sopravvento, consegnando allo spettatore un cinecomic mai enfatico, più criminale, più Slevin.
[Chris Evans in una scena di Push]
E così Nick Grant, un convincente Chris Evans, entra in scena cercando di truccare una partita a dadi con i suoi poteri, prendendo un calcio in faccia, scappando a perdifiato per i tetti e le viuzze piene di fumi di wok di una città tecno-decadente, al ritmo dei Working for a Nuclear Free City e della loro Rocket.
Una scena che ha aria, struttura narrativa, cinema di borgata orientale, alla ricerca di un racconto hardboiled psicocinetico e che vuole essere noir quando Nick diventa pretesto e avatar dello spettatore, calato in una storia che non sa cosa e dove abbia avuto inizio.
[Dakota Fanning in una scena di Push]
Cassie Holmes, impersonata da un'inedita Dakota Fanning, è il catalizzatore della storia, la miccia, una teen dark-lady in cerca di se stessa e di una risposta al suo potere, a quella capacità che è un po' la sua maledizione, votata a negarle la beata ignoranza di chi non sa quale possa essere la conseguenza di una scelta o il giorno della propria morte, costretta a giocare con i dadi di Dio e delle scelte altrui, deus ex machina involontario e indolente.
La Fanning ricopre uno dei ruoli femminili che, per ragioni di pancia, amo di più, nel cinecomic.
È irriverente, è complessa, è tormentata, è forte, punk nel suo modo di sfruttare un dono che, seguendo il principio della sua filosofia, imparerà a conoscere e sfruttare con la pratica, esprimendo questo concetto attraverso il taccuino nero che riempie attraverso l'arte grafica, grezza, espressa dai suoi disegni a colori pop.
[Camilla Belle in una scena di Push]
Kira Hudson è la vera dark lady del film, interpretata da una Camilla Belle in parte e talentuosa, forzando il protagonista a inseguirla e inseguire un fine più grande, entrando in un gioco disegnato, forse, da lei stessa o da qualcuno di più potente.
Kira accende le sinapsi emotive più romantiche e anche quelle più oscure e, come tutte le donne presenti nella pellicola, la stupenda Maggie Siff (Sons of Anarchy) e la petulante Osservatrice impersonata da Xiao Lu Li, legandosi a Nick innesca altri mood, altri umori, divenendo metà di una storia criminale, d'amore e di emarginati, dove la ballata melancolica dei Notwist, Consequence, fa da ambiente a una delle scene più romantiche del genere.
Un film dall'incedere attento, che esplode quando deve e si presenta sempre badando a una certa forma, senza voler troppo stupire con gli effetti ma cercando di stare dietro ai personaggi, ai loro dubbi così umani e comprensibili, creando dei villain e delle situazioni attinenti a un mondo dove il potere è qualcosa da imbrigliare per generare altro potere e che può avere senso solo se controllato da qualcuno.
Push trova il suo difetto maggiore nel non riuscire a inventare abbastanza da diventare oggetto mainstream e forse di essere arrivato nel momento sbagliato, ambientato in una Cina che oggi sentiamo forse più il bisogno di conoscere e che vorremmo come ambiente di storie che non siano quelle che vediamo e abbiamo visto molto spesso al centro dell'immaginario collettivo.
Push, non essendo canonico nella sua struttura cinecomics, lasciando a casa alcuni cliché, dimentica forse volutamente di costruire un cattivo carismatico, di macchiettizzare un'ombra per concentrarsi esclusivamente sui protagonisti e, probabilmente, anche questa scelta si fa sentire sul petto di chi vuole esclusivamente ritrovare quel tipo di narrativa.
La pellicola di McGuigan è una sorta di thriller supereroistico dai toni e dal budget indie, ma che non risente mai della mancanza di mezzi e anche visto oggi risulta fresco, al passo con i tempi, incanalato in un sottogenere inimitato, aderendo a quella "definizione" data poco sopra di Slevin in salsa cinecomic - quali altri thriller supereroistici conoscete?!
Al contempo Push trova i suoi pregi e punti di forza nella narrazione peculiare, nel ritmo atipico per il genere, nella messa in scena e nella caratterizzazione del mood, sfruttando il setting cinese alla perfezione e amalgamandolo con scelte stilistiche fuori dai canoni di un cinema che funziona sempre più attorno a regole e strutture di produzione quadrate, impostate, rinchiuse in un iter così uguale e così ragionieristico, un modulo che funziona, applicato all'infinito.
Push è l'anomalia, il colore, il sentimento scanzonato e fuori posto, quel film che visto sul grande schermo diventerebbe solo ancora più potente, più inquadrato nella voglia di portare il pubblico fuori, in un racconto senza barriere, confini, libero da strutture precostruite e stilemi forzati da icone ben piantate in costrizioni dettate, molto spesso, anche dal pubblico.
Se volete vedere qualcosa di diverso e di buon intrattenimento, ma che non sia solo intrattenimento, Push di Paul McGuigan è il film che dovete assolutamente recuperare.
6 commenti
Alessandro Dioguardi
5 anni fa
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Alessandro Dioguardi
5 anni fa
Mi diverte ed intrattiene sempre.
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Martina Cellanetti
5 anni fa
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Alessio Bottoni
5 anni fa
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Alessandro Dioguardi
5 anni fa
In un colpo solo scopro qualcuno che ha apprezzato Push e The Magic Whip.
Fortuna che esiste il cinema!
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Alessandro Dioguardi
5 anni fa
Sono contento di scoprire che altri hanno visto ed apprezzato questo film.
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