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Hokage è il nuovo film di Shin'ya Tsukamoto con protagonisti Shuri, Oga Tsukao e Hiroki Kono.
Difficile restituire il dramma di una guerra dall'interno di quattro soffocanti mura: un'impresa sulla carta a dir poco impossibile che, tuttavia, quel genio di Shin'ya Tsukamoto pare aver egregiamente affrontanto e orogliosamente vinto con il suo dolente e impietoso film.
È infatti un dramma crudelemente post-bellico e angosciosamente post-traumatico quello che l'ormai attempato, ma sempre filmicamente frizzante papà di Tetsuo ci apparecchia dinnanzi agli occhi con Hokage.
[Il trailer di Hokage - Ombra di fuoco]
Lo fa attraverso un budget ancora una volta ridotto letteralmente all'osso, ma più che sufficiente a dar vita a un'infernale epopea di 90 pregnantissimi minuti nella quale tutte le nevrosi, gli orrori e i cinematografici feticismi del suo ribaldo e maramaldo Cinema si (con)fondono in una durissima e tagliente scorza dal colore e Sapore di ruggine e ossa.
Un oscuro, dolente e assai disturbante viaggio interiore fra le ferite ancora aperte e le schegge di follia di un manipolo di sopravvissuti che, tanto nel corpo quanto e soprattutto nello spirito, così come il coraggioso umano derelitto impegnato nell'Odissea di un tribolato ritorno in guerreggiante terra straniera di Fires on the Plain paiono già con un piede ben piantanto in quel misterioso seppur liberatorio Aldilà.
È dunque un film interiore questo Hokage ma, a ben vedere, anche e sopratutto di interni.
Un film che proprio da un interno sceglie di muovere i suoi primi pertubanti passi.
Dalle incancrenite viscere di un desolato e decadente ex emporio di ramen miracolosamente sopravvissuto, si fa per dire, a quelle punitive fiamme che intere città hanno tragicamente consumato dentro e fuori i confini di un Giappone uscito assai malconcio dal secondo terribile conflitto mondiale.
[Shuri è la donna perduta e violata al centro di Hokage]
Un sozzo e marciscente microcosmo domestico - magistralmente forografato in tutta la sua cronenberghiana e ramata decadenza dallo stesso Tsukamoto - collocato in una cittadella senza nome, tra le cui ceneri e annerite pareti solamente una giovane donna (Shuri), anch'essa innominata, pare dimorare all'Ombra di Fuoco che lo stesso titolo evoca.
Un corpo seminudo, abbandonato di spalle su un consunto futon, pronto ad accogliere le lussuriose voglie e i pochi ma fondamentali denari di coloro che, giunti da ogni dove su invito o semplice consiglio, vanno alla ricerca di un poco di conforto o, molto più spesso, di un rapido e liberatorio amplesso.
È proprio con una brutale e animalesca copula che si apre sibillinamente Hokage.
Un vero e proprio stupro impartito a una donna-oggetto che, tuttavia, per allegorica estensione finisce per violare il già fiaccato spirito di un'intero popolo.
Un atto di sudicio sesso del tutto privo della più microscopica briciola di amore, attraverso il quale sfogare tutta la rabbia, la paura e la vergogna non ancora repressa né tantomeno seppellita al di sotto della sanguinante polvere dei campi di battaglia.
[Il piccolo furfante Oga Tsukao è il vero ma non unico bambino perduto di Hokage]
Quel sesso irruento, sgraziato e innegabilmente prevaricatorio che, così come quel torbido, umido e voyeuristicamente eccitante gioiello di A Snake of June ben ci ha insegnato, nel Cinema di Tsukamoto è spesso e volentieri impiegato quale piede di porco attraverso il quale sradicare perbenismo e apparenze; così da portare alla luce la viva carne ancora grondante e pulsante di una (dis)umanità pronta a divenire altro da sé.
Che sia il proverbiale Diavolo in corpo al remissivo salaryman di Tokyo Fist, la feticistica sete di vendetta a suon di pistolettate nel delirante Bullet Ballet o i fetidi legami di sangue alla base del freudiano Gemini, la colpa latente e sempre pronta a divorare dall'interno come una vera e propria malattia è infatti il grande elefante pronto a barrire nella stanza di proiezione del nostro Shin'ya-san.
Una colpa - verrebbe da dire piuttosto un trauma - che anche la peripatetica Prima e, di fatto, Unica Donna di Hokage pare portarsi appresso come un fardello; dritta da un recentissimo e ancora fumante passato nel quale, forse, una vera famiglia ancora esisteva.
Un'affiatata e complessa struttura molecolare che fame, bombe e infine radiazioni hanno finito anzitempo per (inter)rompere, riducendola a una residuale e inconsolabile particella elementare.
Un'unità umana, sinora solitaria protagonista di Hokage, che tuttavia finirà per divenire co-protagonista nel momento in cui le visite di un piccolo ladruncolo (Ouga Tsukao) senza nome, dimora né famiglia inizieranno a farsi sempre più insistenti.
Un corpo estraneo incorreggibilmente già votato al richiamo del crimine, pronto come il buon Dio a dare e togliere a proprio piacimento.
[Il timido Hiroki Kono è un soldato pressato dai traumi della battaglia in Hokage]
Un imberbe cattivo in potenza: minacciato ma non ancora corrotto da quel malevolo contagio di malvagità che pare diffondersi a macchina d'olio fra i post-apocalittici abitanti di quelle macerie, sulle quali assai precaricamente ancora si regge l'ormai ex impero del Sol Levante.
Un Piccolo (Grande) Uomo di nome e di fatto: genuinamente convinto dalla vita stessa e dal malsano esempio dei mascoli adulti che lo circondano che "crescere", nel mondo ormai distrutto e dis-umanizzato di Hokage, significhi scambiare un ortaggio rubato con il privilegio di divenire anch'esso precoce "cliente" di un non ancora ben chiaro rito di passaggio.
Un rito, come quello dell'ossessiva ricerca, preparazione e consumazione del cibo, che acquista in Hokage un valore di essenziale preziosità agli occhi ancora innocenti - ma già induriti da lacrime di rabbia e dolore - di un bambino per il quale una ciotola di zuppa di miso finisce per possedere il medesimo inestimabile - e dunque vitale - valore di un rapporto sessuale.
Inoculandosi a forza all'interno della sonnacchiosa esistenza (pseudo)casalinga che fa da sfondo a Hokage, questo ostinato ma a suo modo tenero koji darà dunque vita a una nuova diade nella quale il suo indiretto ruolo di "figlio" surrogato permetterà a un'altrettanto nominale "madre" di iniziare a raccogliere e ricomporre come meglio può i delicati cocci di un disastrato vissuto, risvegliando ricordi e istinti che si pensavano sopiti o addirittura estinti al di sotto di una dura cappa di cinismo.
Una convivenza non certo facile e, anzi, spesso asfissiatamente vissuta sul pericoloso filo di quel parentale delirio già sperimentato - in una distorta ottica da depressione post partum - dall'altrettanto fragile protagonista del bellissimo e dannatissimo Kotoko; pur tuttavia timido e spontaneo germe di quella che si direbbe una vera e propria famiglia.
Se davvero non c'è mai due senza tre o, in altri termini, non può esserci famiglia (tradizionale) senza che vi sia anche un "padre", quest'ultimo giungerà inaspettatamente, un giorno e da lontano, nei panni di un giovane, timido e spaurito soldato di (s)ventura (Hiroki Kono) con tanti chilometri sulle spalle e altrettante ferite incise indelebilmente sul corpo e nella mente.
[Oga Tsukao e il misterioso Mirai Moriyama improbabili compagni viaggio in Hokage]
Un reduce pieno di demoni e di traumi, la cui da poco maggiorenne anima si trova ancora nevroticamente imprigionata fra i cadaveri, le urla e i pianti della trincea; condotto in questa dismessa Casa del Piacere dal dolce richiamo del passaparola ma, in realtà, bisognoso di un affetto che non prevede alcun lussurioso do ut des.
Diffierentemente, infatti, dalla maggioranza dei viscidi e inumani alfieri del cromosoma XY che popolano il desolante mondo senza nome né tempo di Hokage, questo impacciato e profondamente traumatizzato ex braccio armato di Sua ormai dimissionaria Mestà Hirohito, pur perennemente alla ricerca del denaro necessario a pagare gli eventuali servizi della taciturna Signora, pare preferire piuttosto la di lei semplice e disinteressata compagnia.
Riposare piuttosto che consumare, parlare invece di copulare.
O, forse, amare spontaneamente come solo le famiglie allargate e decisamente disfunzionali sanno fare.
È una triade sui generis quella che si viene dunque a creare alla radice di Hokage, il cui tempo di qualità viene sapientemente diviso tra lavoro e piacere, tra vivere e sopravvivere.
"Il giorno è dedicato al lavoro, la notte alla famiglia": questa la sacra legge non detta né scritta ma tacitamente accettata e messa in pratica nell'intimità di un'alcova dietro i cui fragili e scrostati fusama la violenza e la follia rischiano, tuttavia, di esplodere da un momento all'altro; così come quelle fetenti bombe che tante vite e altrettante menti hanno vigliaccamente spezzato.
[Mirai Moriyama assetato di una misteriosa vendetta in Hokage]
Pur infatti non essendo propriamente un film horror, Hokage appare piuttosto un'opera nella quale il vero orrore - quello della mente più che del corpo - viaggia per lo più sottotraccia e, soprattutto, sottopelle.
Un orrore che si concede anche il breve ma intensissimo privilegio di esplodere in tutta la sua tsukamotiana potenza proprio in quella dolentissima manciata di minuti finali, nei quali davvero un'immagine - o,forse, uno sparo - finisce realmente per valere più di mille parole.
Quello di Hokage è un orrore che striscia e si insinua dietro ogni anfratto, tic o sguardo lanciato di sottecchi durante un timido incontro notturno, una lezione di matematica nel mezzo di un afoso pomeriggio o un - apparentemente - dolce sonno condiviso su di uno stesso logoro tatami.
Un tarlo che scava in profondità fino a toccare e raschiare quei nervi scoperti che, se incautamente sollecitati, finiranno per innescare improvvisi quanto pericolosi scatti di violenza.
A questo punto, giusto a metà della sua ultima dolente opera, contro ogni aspettativa quel gran prestigiatore della celluloide di Tsukamoto sceglie di rimescolare energicamente le carte in tavola, trasformando quello che pareva un delicato e al contempo tesissimo kammerspiel - soffocante quanto gli allegorici 50 minuti dello splendido e dimenticato Haze - in un'arieggiante avventura on the road.
Un cammino non certo della speranza quanto piuttosto assetato di vendetta, nel quale, da quell'ormai consolidato Affare di famiglia, si preferisce ripiegare verso un ben più malleabile seppur grottesco duetto.
[Hokage è una storia di coppie ma anche di famiglie più o meno disfunzionali]
Spostando infatti il focus della narrazione sul breve ma intenso viaggio intrapreso dal nostro piccolo ladruncolo di quartiere sotto la guida di un impassibile venditore ambulante (Mirai Moriyama) all'ossessiva ricerca di qualcosa o, forse, qualcuno, il nostro scaltro Shin'ya trasorma il suo Hokage in un racconto realmente plurale e, a tutti gli effetti, nomade.
Hokage è un film che ribalta, contraddice e addirittura amplifica punti di vista sinora erroneamente assodati, consentendo alla narrazione di uscire dalle claustrofobiche planimetrie nelle quali si era scentemente (rin)chiusa per prendere sufficientemente fiato, passando così da una dimensione dichiaratamente intima a una decisamente più universale.
È un viaggio tutt'altro che di sola andata quello delineato da Hokage.
Un viaggio, piuttosto, di andata e ritorno fra le mille incarnazioni di quel Male che solo le guerre sono in grado di generare, un Male le cui metastasi, proprio come un cancro, rimangono a lungo e si espandono incontrollatamente tanto nel corpo sociale quanto in quello spirituale e già fiaccato dei suoi stessi protagonisti.
Operando un sapiente e controllatissimo meccanismo di sottrazione - e conseguente circoscrizione - dell'azione scenica così come anche delle stesse dinamiche narrative, al pari dell'ancor più minimalista - e umanista - Killing un solido e ispiratissimo Tsukamoto confeziona con Hokage quella che forse ad oggi rappresenta la sua opera più profonda, complessa e spasmodicamente Vital(e).
Senza scomodare improprie e stucchevoli similitudini, si potrebbe infatti affermare che Hokage rappresenta per il buon Shin'ya-san quello che per Oliver Stone è stato Platoon o, volendo, ciò che Apocalypse Now ha significato per Francis Ford Coppola.
Un viaggio emotivo, psicologico e intimamente cinematografico nel profondo e temibile Cuore di tenebra di quella già più volte decantanta (dis)umanità, costretta a leccarsi quelle ferite interiori ed esteriori che solo la guerra, unica vera e assurda "igiene dei popoli", è capace così impunemente di imprimere letteralmente a fuoco nella nostra anima disgraziata.
[articolo a cura di Matteo Vergani]
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