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Cure è un film del 1997 diretto da Kiyoshi Kurosawa con protagonista Kōji Yakusho.
Così come nella vita anche nel Cinema esiste sempre un prima e un dopo.
Pochi sono tuttavia quegli autori, e ancor meno quelle opere, che possono fregiarsi del titolo di pietre miliari e spartiacque: passaggi obbligati capaci di creare un meraviglioso e necessario precedente.
Se dunque appare assai riduttivo parlare solamente di un prima e di un dopo Kiyoshi Kurosawa, più corretto sarebbe forse discutere di ciò che è stato prima e dopo un capolavoro come Cure.
[Il trailer di Cure di Kiyoshi Kurosawa, dal 3 aprile nei cinema grazie a Double Line]
Tale padre, tale figlio: debiti e lasciti di un capolavoro
Impossibile accostarsi a un titolo come Cure senza riconoscerne fin da subito la portata di opera apicale, seminale e più che mai fondamentale.
Non solo all’interno della filmografia dell’unico vero padre putativo di quell’orrore dagli occhi a mandorla capace di valicare gli esotici confini del Sol Levante per approdare, a cavallo del secondo turbolento millennio, fin nelle viscere nel vecchio e nuovo continente, quanto piuttosto imprescindibile pietra di paragone di un nuovo Cinema per il quale la sola idea di genere, più che semplice e riduttiva etichetta, è divenuta col tempo autentico filtro autoriale attraverso il quale parlarci di ben altre (e alte) questioni.
Prima del J-Horror, come il J-Horror e, soprattutto, meglio del J-Horror.
Questa potrebbe certamente essere la perfetta tagline con la quale sintetizzare il nero e pulsante cuore di Cure; dimostrando quanto Maestri dei caldi brividi d'Oriente quali Takashi Shimizu, Kōji Suzuki e l'immancabile Takashi Miike debbano ancora oggi accendere parecchi ceri votivi alla tutt'altro che trapassata filmica anima di un Maestro come Kiyoshi Kurosawa.
Così come quel suo stesso autore – al contempo padre dei brividi postmoderni ma anche inevitabilmente figlio della classicheggiante e pionieristica tradizione dei kaidan eiga inaugurata da quel troppo dimenticato Nakagawa Nobuo – è dunque inevitabile che anche un’opera fluida e multiforme come Cure abbia rivelato col tempo la propria duplice natura.
Erede e progenitrice.
[Cure: Kōji Yakusho pronto letteralmente a perdere il lume della ragione]
Fin dalla sua uscita in terra nipponica, in quel lontano 1997, il 17° lungometraggio di un autore al tempo già ben noto in patria ma per lo più sconosciuto al di là delle calde acque del Pacifico dimostrava un chiarissimo debito nei confronti del marcio e torbidissimo mood (neo)noir di (neo)thriller quali Il silenzio degli innocenti, il conturbante Jade del Maestro William Friedkin e, ça va sans dire, l’inevitabile fincheriano Seven.
Va detto e ripetuto però che fu proprio Cure stesso a cementare la successiva fortuna di titoli che, proprio attraverso questo (neo)genere, avrebbero traghettato il boccheggiante Cinema di fine anni '90 verso gli ancora inesplorati lidi del nuovo secolo.
Come avrebbe mai potuto esistere, infatti, la (para)psicologica detection imbastita da Elias Merhige a colpi di criptici indizi incisi letteralmente a sangue sulla carne delle tutt’altro che innocenti vittime di quel piccolo bistrattato gioiellino che è Suspect Zero senza la (para)psicologica lezione di Cure?
Rievocare inoltre le malsane vibes emanate da uno Zodiac o, prima ancora, dall’oscuro Resurrection di Russell Mulcahy così come dal nevoso Insomnia di Erik Skjoldbjærg senza riconoscerne i forti legami di parentela con il decadente immaginario post-industriale codificato da Kiyoshi-san sarebbe fare un cattivo servizio pubblico e, peggio ancora, un sintomo di vera e propria disonestà intellettuale.
Che un tizio schivo e decisamente introspettivo come Kurosawa fosse pienamente consapevole di tutto ciò non è cosa che probabilmente saremo mai in grado di appurare con certezza e, detto fra noi, forse è meglio così.
Conoscere i segreti del mestiere, a maggior ragione quando si ha a che fare con un autentico prestigiatore della Settima Arte, non è mai cosa buona e giusta.
Tutto si può dire di un’opera come Cure, tranne che non si sia originata da un’autentica e viscerale magia.
Un grande gioco di prestigio filmico che, proprio per il mistero che ancora oggi ne avvolge gli anfratti più bui e profondi, così come accade per le grandi opere di autori ancora più grandi ci porta a domandarci ben più di ciò che, di fatto, saremo in grado di ottenere in risposta, raschiando al sotto della sua densa e sfuggevole scorza.
[Cure: misteriosi e sanguinari segni accompagnano l'indagine]
Non c'è trucco, ma c'è inganno: nel cuore di un'opera ipnotica
Dar credito a un desolante dramma (dis)umano mascherato da psycho thriller come Cure significa, in fin dei conti, esercitare fin da subito una chiara e specifica professione di fede.
Non tanto nei confronti di un autore che, col tempo, un po’ tutti noi figli del miscredente Occidente abbiamo imparato a conoscere e apprezzare, a partire proprio da questo suo camaleontico capolavoro, quanto piuttosto verso la labirintica natura di un racconto che, di fatto, proprio di una certa forma di "magia" pare volerci parlare tra le righe e i fotogrammi.
Una magia a lungo considerata tale ma che, con l’avvento del sopravvalutato Illuminismo, ha finito per essere ricondotta all’interno del paludoso e intrigante limbo di quella (pseudo)scienza da tutti conosciuta come ipnosi.
Che Cure sia infatti un’opera ipnotica, tanto nella sua onirica forma quanto nel suo sfuggente contenuto, parrebbe quasi un’ovvietà.
Meno ovvia, forse, è la constatazione di come sia per l’appunto l’ipnosi stessa il vero tema portante di un thriller investigativo dal perturbante retrogusto sovrannaturale; nel quale tematiche assai eterogenee quali il senso di colpa, il fatalismo, l’ossessione per l’altrui controllo e, ultimo ma non ultimo, una malsana ed esoterica predestinazione avrebbero da qui in poi avvolto come un soffocante sudario l’intera corposa filmografia del buon Kiyoshi Kurosawa dentro e sopratutto al di fuori dal "genere”.
Basterebbe, dunque, prestare attenzione a quell’enigmatica e parecchio sibillina sequenza iniziale per rendersi conto di come lo sfuggente movimento di un libro poggiato sul tavolinetto di una clinica psichiatrica - nientemeno che il Barbablù di Charles Perrault, opera antesignana di rapporti di coppia, per così dire, parecchio malsani - ci ponga immediatamente nella condizione di operare una scelta sulla base della pura e semplice fede.
Terremoto o telecinesi? Naturale o sovra-naturale?
Scienza o dogma?
Questo è il dilemma, direbbe qualcuno di nostra shakespeariana conoscenza. Oppure, come parrebbe dirci lo stesso Kiyoshi Kurosawa, questa è la chiave di lettura di un film come Cure.
Non l’unica, ci mancherebbe, ma di certo una delle più sottili e utili per decriptare un rebus da 115 minuti nel quale nemmeno una nota - a eccezione della musica che accompagnerà i rapidissimi titoli di coda - andrà a intaccare il lento incedere dell’ombroso detective Takabe (il kurosawaiano feticcio per eccellenza Kōji Yakusho, evidentemente già abituato a ficcare le mani nel sudicio ben prima che fra i candidi sanitari del poetico Perfect Days di Wim Wenders) all’interno di un incubo a occhi aperti dal quale svegliarsi non sarà certo un gioco da ragazzi.
Men che meno da disillusi piedipiatti quarantunenni in avanzato stato depressivo.
[Cure: Kōji Yakusho e Masato Hagiwara in un teso e inesorabile gioco psicologico]
Il rosso segno della follia
È una Tokyo parecchio incubotica e decisamente piovosa quella che fa da sfondo ai temibili (mis)fatti alla base di Cure.
Una metropoli inquietantemente - e non certo casualmente - simile al tentacolare mostro urbano nel quale misteriosi omicidi di giovani donne fra gli affollati vagoni della metropolitana e sordide storielle di condizionamento mentale davano già filmica sostanza all’altrettanto fosco Angel Dust di Ishii Gakuryū.
Una decadente City on Fire intrinsecamente malata nella quale passato, presente e futuro coesistono caoticamente attraverso un disturbante mashup di tecnologia e antiche tradizioni, come in un bizzarro cortocircuito spaziotemporale.
Un agglomerato urbano che pare in verità un’affollata succursale della Twin Peaks di lynchana memoria, nella quale sordidi segreti sepolti sotto l’asfalto fanno a gara con le manifestazioni di una pazzia più o meno subliminale, oltre che evidentemente dilagante.
Una città, insomma, dove è facile imbattersi in gente intenta a borbottare sconcissimi insulti a mezza voce al bancone di una lavanderia mentre nelle insidiose viscere di cemento e asfalto un’efferata quanto inesplicabile carneficina pare irreversibilmente in atto nella più comune indifferenza.
Corpi morti che spuntano come funghetti in un rugiadoso prato autunnale: ciascuno indelebilmente marchiato con un profondo ed enigmatico taglio a X in corrispondenza del collo che, almeno sulla carta, farebbe intendere la firma di un novello serial killer pronto a racimolare i propri warholiani 15 minuti e più di infima gloria.
Nel caso di Cure, tuttavia, il condizionale è d'obbligo fin da subito, poiché questo enigmatico modus operandi potrebbe, forse, essere il frutto di diverse mani.
Mani appartenenti a congiunti, amici o soggetti in un qualche modo vicini ai sopracitati cari estinti nonché orribilmente sfigurati.
Isteria di massa?
Oppure un ennesimo virulento morbo di (auto)lesionistica matrice come quello già brevettato da Hisayasu Satō con il suo gustoso Naked Blood?
Forse...
Anche così però non si spiegherebbe l’improvvisa amnesia selettiva che parrebbe aver colpito questi Multiple Maniacs alla stregua di un bizzarro effetto collaterale.
Uno stranissimo blackout mentale capace di oscurare le motivazioni alla base del loro insano gesto così come avverrà per le altrettanto immotivate - e, almeno in quel contesto, forse un tantino inumane - uccisioni alla base del successivo Retribution.
Se dunque anche il complesso - ed egualmente complessato - detective Park Du-man si troverà in seguito ad avere a che fare con inattendibili e per lo più parziali Memories of Murder ora sappiamo per certo a chi il buon Bong Joon-ho dovrebbe elargire i suoi dovuti ringraziamenti.
Qualora non lo abbia già fatto, ovviamente.
Cosa che, conoscendo Bong, sarà certamente già avvenuta.
[Cure: Kōji Yakusho costretto a confrontarsi con la follia dentro e fuori casa]
Fuoco cammina e uccidi con me
Unico indizio? Luna piena, risponderebbe quel simpaticone del Maestro Stephen King.
Il nostro niente affatto intrepido detective Takabe – che, come se non bastasse, già si trova alle prese con il progressivo deterioramento che sembra volersi divorare pezzo per pezzo la mente e l’anima dell’amata moglie Fumie (Anna Nakagawa) – dovrà però accontentarsi di un’unica semplice parolina enigmaticamente biascicata dagli smemorati omicidi: fuoco!
Davvero strano che in un film nel quale sembra diluviare pressoché incessantemente come nell’erotica stagione delle piogge che bagnava il voyeuristico Snake of June di Shin’ya Tsukamoto trovi posto l’ipnotica fiamma di un fuoco, ma se è vero che Cure è un film giocato interamente sugli opposti che finiscono inevitabilmente per attrarsi, il fatto che due elementi così antitetici giungano a coesistere e a rimpallarsi all’interno della medesima Zona d'interesse non dovrebbe stupirci più di tanto, vero?
Quando dopo molti minuti e contanti altri cadaveri, il nostro instancabile – ma fisicamente e mentalmente stanco – tutore della legge finirà per risalire all’arcana scintilla che potrebbe aver accesso questa fantomatica fiamma di morte, ecco che tutti i nodi parrebbero finalmente venire al pettine.
Parrebbero, rammentate il condizionale.
È lecito pensare a Cure come a un’intricata e assai spinosa matassa, dunque il fantomatico bandolo che il nostro brumoso Nightmare Detective - e ora qui c'è qualcun altro certamente debitore di parecchi ringraziamenti! - giungerà ad acchiappare per il rotto della cuffia non potrà che avere un nome e un cognome: quello di tal Kunio Mamiya (Masato Hagiwara).
Di lui si sa ben poco, tranne che sarebbe uno studente di psicologia – quanto para sarà chiaro solo in seguito – venuto (in)direttamente in contatto con ciascuna delle vittima e, per (il)logica estensione, pure con i loro amnesici carnefici.
Un tipetto davvero indecifrabile: feticisticamente dipendente da un piccolo accendino Zippo con il quale, a quanto si dice, si sarebbe dilettato nel testare su randomiche e inermi cavie umane le sordide nozioni di ipnotismo apprese studiando approfonditamente l’avventurosa storia di quel tal Franz Anton Mesmer che, a cavallo fra XVII e XVIII secolo, teorizzò per primo la possibilità di condizionare l'altrui volontà.
Ma… c’è un altro ma, e anche bello grosso.
[In Cure il Diavolo sta tutto nei dettagli]
A parte alcune prove puramente circostanziali, di vere e schiaccianti evidenze a carico del nostro Signore delle illusioni non paiono essercene.
Men che meno indizi su quelle che potrebbero essere le motivazioni alla base del suo sadico e masochistico agire. È forse il diavolo in persona?
D'altronde, se provassimo a interrogare quel geniaccio di Kim-Ji woon lui confermerebbe senz'altro che sì: dopo aver visto più e più volte Cure l'unica cosa veramente sensata da dire a riguardo sarebbe I Saw the Devil.
Per dirla à la Longlegs è piuttosto "Colui Che Abita al Piano di Sotto" ad aver spinto lo spaesato e taciturno seguace del magnetismo animale a compiere ciò che, a dirla tutta, non sembra aver mai compiuto per propria diretta mano?
Senza una chiara e inequivocabile mano colta in impiastricciato flagrante, per quanto sanguinaria possa essere la sola marmellata non è sufficente a far scattare le manette.
Allora non è che forse, zitta zitta cacchia cacchia, c’entra pure in qualche modo la cara vecchia Gente Morta?
Tutto è possibile. Anche se qui, va detto, si sta probabilmente uscendo un pochino dal seminato.
A ben vedere, infatti, la decisa – e decisiva – deriva in terra spettrale sarebbe avvenuta solo di lì a qualche tempo con il glorioso Pulse del 2001, altro viscerale e desolante capodopera – nonché primo titolo kurosawaiano a ottenere ampia e acclamata distribuzione internazionale – capace di prendere di peso quelle fumose e per lo più solo suggerite entità ultramondane presenti in Cure attraverso i pochi sfuggenti frame di una vecchia pellicola per riversarli definitivamente in questo nostro desolante terraqueo piano di (ir)realtà.
[Il potere evocativo del pianosequenza e del campo medio che dà forma a Cure]
Dimmi cosa guardi e ti dirò chi sei
"Chi sei tu?" domanderà più volte un sempre più delirante Takabe alla sua nuova nemesi, sentendosi rimpallare in risposta proprio quel medesimo psicoanalitico quesito.
Un lento, snervante e inesorabile gioco al gatto col topo gestito da Kurosawa attraverso quei lunghi e articolati pianisequenza che sarebbero divenuti il suo cinematografico marchio di fabbrica, sino alla definitiva estetica consacrazione con il poetico ed egualmente perturbante Journey to the Shore.
Una precisa scelta stilistica che pone lo sguardo registico rispettosamente a distanza di sicurezza rispetto dall’agire degli stralunati e insondabili personaggi che abitano il decadente intreccio di Cure; senza mai osare sbirciare più in là di un onnicomprensivo campo medio entro il quale tante – troppe – cose rischiano irrimediabilmente di sfuggirci.
Anche perché "il Diavolo sta nei dettagli", giusto?
Una sorta di timore quasi reverenziale é dunque quello che spinge Kiyoshi Kurosawa a non volersi mai arrischiare troppo a ridosso dei volti e delle geografie che popolano le sue geometriche inquadrature: veri e propri quadri resi umidi e gelidi dalla mirabile fotografia di un Tokushô Kikumura con evidentemente ancora ben stampato nell’iride il tarkóvskijano Stalker.
Quel medesimo filmico pudore che già aveva convinto l'impassibile Jaques Tati a "non andare mai a ficcare l'obiettivo troppo sotto al naso", lasciando che il nostro avido sguardo di sadici voyeur sia libero di scandagliare ogni buio anfratto di una labirintica composizione, piena zeppa di quei piccoli raggelanti dettagli – più o meno subliminali – che al sommo Martin Scorsese e non solo pare abbiano fatto correre parecchi brividi lunga la schiena.
Quelle raggelanti e fondamentali red flags che, per intenderci, proprio attraverso uno scioccante e più che mai letterale taglio di montaggio, posizionato a tradimento in prossimità di uno strategicamente sospeso The End, potranno forse realmente aprirci gli occhi su una verità che sotto le nostre pupille ha covato sorniona per quasi due ore.
Se sono dunque i dettagli ad aver reso titoli come Loft e Creepy dei piccoli concentrati di inquietudine pronti a essere (de)costruiti attorno al non visto e al non detto, a maggior ragione il nottambulo e per lo più interno – oltre che interiore – universo di Cure certosinamente plasmato da Kurosawa non ha molto di differente rispetto a un criptico puzzle i cui ancor più enigmatici pezzi, una volta ricomposti, restituiranno un’immagine d’insieme se possibile ancora più sfocata e indecifrabile.
[Masato Hagiwara impassibile seguace del mesmerismo in Cure]
La tesissima querelle a suon di sottigliezze (para?)psicologiche, le estenuanti prove di forza incentrate sul senso dell’etica, le subdole attribuzioni di colpa e i sordidi tentativi d’infrangere la reciproca corazza d’intimità riecheggiano il celebre rapporto di tossica co-dipendenza tra il cannibalico dottor Hannibal Lecter e la tostissima agente Clarice Sterling: su questo non vi sono dubbi.
Soprattutto tenendo conto del già scandagliato rapporto di filmica parentela che lega Cure alla creatura scaturita dalla penna di Thomas Harris e consegnata al mito dall'obiettivo di Jonathan Demme ne Il silenzio degli innocenti.
Anche se, laddove di dubbio si vuol per forza parlare, esso andrebbe ricercato piuttosto nella distinzione mai così fluida tra i consueti ruoli di lupo cattivo e indifeso agnellino.
Maschere archetipiche che anche in Cure sembrano inevitabilmente voler tornare a far sentire il proprio rutilante ruggito per poi fondersi e confondersi senza apparente soluzione di continuità.
Ruoli sulla carta decisamente topizzati ma messi tuttavia in scena dall'implacabile Kiyoshi-san attraverso una pacatissima seppur tagliente scrittura il cui mood sonnolento pare sempre pronto a scuotersi sotto il peso non tanto dei soliti abusati jumpscare, quanto piuttosto di un ejzenštejniano cine-pugno opportunamente piazzatoci in pieno stomaco e, volendo, pure in pieno volto.
Anche se, a voler essere onesti fino in fondo, il passo dal kino-fist al kino-knife è qui assai (troppo) breve. Senza alcun dubbio è proprio L'elemento del crimine ciò che il nostro tribolato protagonista va cercando fra le itteriche e gocciolanti membra di un nerissimo racconto come Cure.
Un viaggio in profondità fra gli inesplorati meandri della follia che, così come nell'allucinato e allucinante esordio firmato dal nymphomaniaco Lars von Trier in quel fondamentale 1984, spinge a tal punto il tutt'altro che limpido Bene a calarsi nella distorta psicologia di un seriale Male da rendere progressivamente assai arduo comprendere dove finisca l'uno e principi l'altro.
[L'umida e torbida atmosfera che pregna ogni inquadratura di Cure]
A volte ritornano... ancora!
Volendo dunque tornare laddove eravamo partiti, ovvero alla matura presa di coscienza di quanto il prima e il dopo siano quanto mai essenziali per tentare di comprendere anche solo superficialmente la portata di un’opera apicale come Cure, la vera domanda che dovremo ora porci è: che senso ha riportare in vita e in sala un titolo che, in fin dei conti, parrebbe già aver detto tutto?
Se non si fosse ancora capito semplicemente perché un tale capolavoro, proprio per la sua seminale natura, ci ha detto sinora soltanto una piccolissima parte di ciò che è stato, di ciò che tuttora ancora è e che, probabilmente, continuerà a lungo a essere.
Ce l’ha detto per oltre tre decenni nella sua ruvida e agglutinante lingua madre ma, proprio a partire dal 3 aprile grazie alla distribuzione di Double Line riuscirà a (ri)dircelo forte e chiaro, per la prima volta anche nel nostro dolce e romanzo idioma grazie al doppiaggio, senza tuttavia perdere un grammo della sua inquieta e inquietante forza primigenia.
Una forza che, inutile ribadirlo, il nuovo restauro in 4K non potrà che rendere ancor più impattante per coloro che, veterani o cinefili in erba, continuamente si prodigano nel tentare di (ri)pescare autentiche gemme d’autore.
Come amava ricordarci il compianto David Lynch, se è vero che solo addentrandosi delle acque più oscure e profonde si possono scovare i pesci più grossi e polposi, allora l’unico modo realmente efficace per poter gustare nuovamente – o anche solo per la prima volta – un torbido e disturbante capolavoro come Cure è certamente quello di lasciarsi sprofondare nel tenebroso abbraccio di una sala cinematografica.
Proprio quel magico e sottilmente inquietante luogo nel quale un nonno della Settima Arte come Georges Méliès credeva che i sogni, ma soprattutto gli incubi, tornassero ancora e ancora a farci visita, oltre che un tantinello di paura.
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