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Nel 100° anniversario della morte di Eleonora Duse, mito e leggenda del teatro italiano tra il XIX e il XX secolo, Sonia Bergamasco celebra la grande attrice con Duse, the greatest, un film-documentario dedicato al ricordo fantasmatico eppure ancora palpitante che Duse ha saputo imprimere nel pubblico e nelle successive generazioni di attori e attrici.
Quella di Eleonora Duse è un’immagine sfocata, ribelle e suggestiva, una gigantografia che troneggia incorniciata nei corridoi del Teatro Piccolo di Milano - da dove la regista l’ammirava affascinata negli anni della sua formazione artistica - che sfuma seducente nella memoria delle sue discepole riunite da Bergamasco per intraprendere questo viaggio alla scoperta della donna dietro il mito, che si intreccia con una riflessione aperta sul ruolo dell’attrice attraverso la voce, i gesti e le parole.
In un dialogo postumo e dolcissimo la voce di Sonia Bergamasco, qui per la prima volta in veste di regista, si sovrappone alle parole scritte da Duse nelle sue lunghe corrispondenze epistolari, alla sua pur frammentaria immagine pubblica conosciuta attraverso le cronache e ai ricordi teneri e preziosissimi di chi ha testimoniato più o meno direttamente il talento dell’attrice.
[Il trailer di Duse, the greatest]
Definita dal direttore dell’Actors Studio Lee Strasberg "La migliore di tutti i tempi" e da Charlie Chaplin "La più grande artista che abbia mai visto", Eleonora Duse nonostante la fama internazionale e le frequenti tournée si è sempre sottratta alle luci dei riflettori, riservando la propria esposizione pubblica alle quinte del palcoscenico.
È così che la presenza dell’attrice si fa mistero, ombra, enigma e dopo la sua scomparsa assume la consistenza di un’ispirazione silenziosa e potentissima, capace di suscitare interesse e curiosità anche a più di cento anni di distanza.
Di lei non rimangono che poche immagini, fotografie autentiche e meno autentiche (gelosamente custodite dai suoi fan, tra cui l’attore Fabrizio Gifuni), e un unico film muto girato nel 1916 per il Cinema, Cenere di Febo Mari, nel quale Duse sfugge persino allo sguardo insistente della macchina da presa, timorosa di imprimere in maniera così irreversibile la propria presenza scenica.
Con il collettivo di cinque attrici formato da Elena Bucci, Federica Fracassi, Giuditta Vasile, Caterina Sanvi e Mariapaola Pierini, Bergamasco legge fra le righe di una vita intensa dedita al teatro e ricompone i frammenti di un’artista completamente mimetizzata nella sua arte, già all’epoca amatissima dal pubblico, in particolare quello femminile e che nel tempo non ha smesso di esercitare la sua influenza.
Ne studia i gesti, le pose, le scelte artistiche e personali, nella ricerca ossessiva di una traccia indelebile della personalità della divina, che possa essere colta e custodita una volta per tutte.
[La regista Sonia Bergamasco insieme a Elena Bucci e Caterina Sanvi in una scena di Duse, the greatest]
Duse resta tuttavia una creatura sfuggente e il viaggio nei luoghi fisici e metafisici della sia vita - Vigevano, Asolo, Cenere, Parigi - ricalca il processo di bramosa immedesimazione dell’attore nel personaggio, che culmina nell’adorazione e nella frustrazione di non arrivare mai a conoscere fino in fondo l’amato oggetto del proprio studio.
La presenza del mito risuona nella dimensione intima del collettivo e in quella così familiare dei ricordi di Gifuni e Bergamasco, delle attrici Helen Mirren e Valeria Bruni Tedeschi, che impersonerà Duse nel film omonimo di Pietro Marcello, mescolandosi al frammento di vita che il ricordo della grande attrice suscita in ciascuna di loro.
Bergamasco unisce con semplicità in un insieme armonico la ricostruzione filologica del personaggio, non privo di contraddizioni, a quella intima e personale della donna, immaginandola sempre più vicina e reale, restituendole presenza e concretezza oltre la superficie del mito.
La vicinanza si esprime anche attraverso il rapporto disinvolto e confidenziale con la macchina da presa, che segue i moti dell’indagine fuori dai rigidi canoni di distanza, riproducendo al contrario un’intimità quasi domestica, inconsueta per un documentario.
[articolo a cura di Vittoria Sertori]
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