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Io sono ancora qui - Recensione: foto di famiglia in dittatura

Presentato in anteprima alla 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e vincitore del Leone d’argento per la Migliore Sceneggiatura, Io sono ancora qui porta sullo schermo il memoir di Eunice Facciolla Paiva, che ha lottato per anni per la verità negata dal regime militare brasiliano

Io sono ancora qui è il nuovo lungometraggio di Walter Salles, uno dei registi brasiliani più famosi a livello internazionale che porta sullo schermo un ritratto di famiglia, una storia personale e pubblica che si innesta perfettamente nel filone del Cinema politico a cui ci ha abituato. 

 

Io sono ancora qui è la storia di Eunice Facciolla Paiva, diventata avvocata a 48 anni e una delle poche esperte di Diritto dei popoli indigeni ad aver collaborato con varie organizzazioni internazionali. Una donna che ha preso in mano la propria tragedia per farne una lotta non individuale, ma collettiva.

Una madre di cinque figli che di fronte alla scomparsa del marito, l’ex deputato laburista Rubens Paiva, non si è fermata e ha richiesto a gran voce e per tutta la vita che venisse fatta giustizia sui crimini della dittatura brasiliana.

 

Io sono ancora qui è volto, voce e sguardo di Fernanda Torres, perfetta incarnazione del corpo e della mente di Eunice, della sua forza e del suo amore per la famiglia, per la giustizia e per il suo Paese martoriato; un’interpretazione delicata ma profonda, sottile ma tagliente, mai roboante ma anche mai domita.

 

Il ruolo di Eunice è valso a Fernanda Torres il Golden Globe 2025 come Migliore Attrice in un Film Drammatico e la sua prima nomination agli Oscar 2025 nella stessa categoria. 

 

[Il trailer ufficiale di Io sono ancora qui]

 

 

Io sono ancora qui è stato accolto magnificamente in patria, nonostante il tentato boicottaggio da parte delle destre - il che sottolinea dunque quanto film come questo siano ancora fondamentali - e continua il suo viaggio alla conquista del pubblico internazionale anche grazie ad altre due candidature di peso ai prossimi Premi Oscar, ovvero Miglior Film Internazionale e Miglior Film, un risultato importante per una pellicola non statunitense: Parasite di Bong Joon-ho nel 2020 vinse in entrambe le categorie, segnando un precedente storico. 

 

Come accadde già per Ernesto "Che" Guevara De La Serna ne I diari della motocicletta, anche in Io sono ancora qui Walter Salles ci racconta un personaggio reale partendo dalla sua quotidianità, da ciò che lo rende umano prima che pubblico e, in quanto umano, politico e sociale per definizione.

Perché una cosa è quanto mai sempre più certa: la politica è cosa umana, è il meccanismo che ci connette con la società per permetterci di farne parte.

 

Ogni cosa è politica e se fatta bene "la politica è bella", come afferma in punto di morte Cicco Torrenuova in Baarìa di Giuseppe Tornatore, anche quando, e forse soprattutto, nasce da una tragedia disumana come una dittatura militare.  

 

Io sono ancora qui è un’affermazione chiara, prima che un dato di fatto, è una dichiarazione di intenti, è un atto politico: di questi tempi, più che mai necessario. 

 

 

[La ricostruzione in Io sono ancora qui dell'ultima fotografia prima della scomparsa di Rubens Paiva]

 

 

Governabilità

 

Se è vero che la democrazia cambia da paese a paese, la dittatura militare è uguale in ogni parte del mondo.

 

Uguali i metodi, le torture, il terrore incusso, le intimidazioni, le sparizioni, ma la dittatura militare non nasce dall’oggi al domani e non sempre è tangibile nella vita di tutti i giorni. Non è coprifuoco e cavalli di Frisia per le strade, non è sparatorie continue e bavagli vistosi sul volto.

Lo è forse all’inizio, ma come tutte le cose umane, a lungo andare, viene “normalizzata”. 

È in un clima di serenità che Io sono ancora qui inizia la sua narrazione.

 

Dicembre 1970, Rio de Janeiro: l’inverno estivo dell’emisfero australe, un Natale in spiaggia, una famiglia felice.

Pranzi con gli amici, partite di pallavolo, musica suonata dai vinili appena usciti, glam rock, cantautorato di protesta, eppure il regime militare autoritario detto dei Gorillas o Quinta Repubblica del Brasile era in atto già dal 1964 e lo sarebbe stato fino al 1985. 

 

La dittatura è per chi riesce a vederla, per chi ne sente la soffocante presenza, per chi cerca di contrastarla, per chi non vi si conforma e viene tacciato di sovversione.

Chi ne è indifferente, piegato allo status quo, non preoccupato dalla costante e quotidiana sottrazione delle libertà perché “tanto non sono queste le cose urgenti per il Paese”, non vede dittatura, ma solo governabilità.

 

Parole già sentite nel regime autoritario che ha dato i natali a molti dei successivi: quello fascista di Benito Mussolini.

M - Il figlio del secolo di Joe Wright, compendio storico in chiave pop di cui avevamo disperatamente bisogno, insiste molto sul far risuonare oggi concetti che sembrano ormai superati ma che sono spaventosamente attuali. 

 

Io sono ancora qui non è da meno, seppure in stile diverso.

 

 

[Selton Mello e Fernanda Torres sono Rubens ed Eunice Paiva in Io sono ancora qui]

 

 

La vita della famiglia Paiva sembra dunque felice.

 

Solo man mano veniamo a conoscenza del fatto che Rubens Paiva (Selton Mello), ingegnere e padre di cinque figli, era stato deputato laburista, estromesso proprio all’instaurazione della dittatura e costretto a un breve esilio all’estero. 

Tornato a casa, niente più politica. Perché la politica è bella, ma non in dittatura.

Quindi ci si reinventa, si cerca di sopravvivere, ma si cerca anche di fare la propria parte come fecero i nostri partigiani negli anni ’40, si agisce nell’ombra, con gesti piccoli ma significativi: dare nascondiglio a un amico, trasportare lettere ai familiari di ricercati, esprimere il proprio supporto.

 

Spesso, per questo, pagarne il prezzo.

 

Rubens Paiva viene prelevato da casa propria nel gennaio 1971 con la scusa di una fantomatica deposizione.

La moglie Eunice, insieme alla figlia Eliana, subiscono lo stesso trattamento qualche giorno più tardi. Prelevate da casa e portate con la forza in una caserma, costrette a confessare amicizie, vicinanza, anche solo conoscenza di sospetti rivoluzionari. Condizioni disumane, torture e intimidazioni che possiamo tranquillamente ritrovare in ogni narrazione incentrata su un regime autoritario. Basta cambiare il nome e il paese e il risultato è il medesimo.

 

Potremmo essere nel Cile di Pinochet o nell’Argentina di Videla, o ancora, nella nostra Italia fascista.

 

Appena rilasciata Eunice non accetterà di stare in silenzio, subendo per questo continui soprusi, ma talmente “gentili” da farci dubitare di essere nel giusto.

Quando un regime ti si presenta a casa per rapire tuo marito e farne uno delle migliaia di desaparecidos, apri la porta, ti comporti da ospite cortese, dai da mangiare alle stesse persone che ti tengono sotto scacco e fai tutto ciò perché un sopruso gentile è il peggiore dei soprusi: non sembra tale, solo un’operazione di routine.

 

È anche grazie a questo meccanismo che i regimi autoritari sono riusciti a sopravvivere in un’epoca post-sessantottina, quando si pensava di aver ormai superato i metodi da squadracce, invece quei metodi sono tornati nel buio nelle caserme, negli arresti di massa negli stadi, nelle sparizioni dei prigionieri lanciati in mare dagli aerei. 

Io sono ancora qui è il testamento che Rubens Paiva non ha mai potuto lasciare.

La sua morte, avvenuta pochi giorni dopo l’arresto, è stata riconosciuta solo nel 1996, quando Eunice ha ricevuto il suo certificato di decesso, accolto con gioia: la prova che Rubens è morto nonostante il corpo non sia stato mai rinvenuto.

Il suo assassinio da parte dello Stato però è stata ammessa solo nel 2014 e nonostante le riconosciute implicazioni, nessuno è stato perseguito per il suo assassinio e quello di tantissimi altri.

 

Io sono ancora qui è Eunice, ma è anche Rubens, rimasto per sempre all’età di 42 anni nella memoria dei suoi figli, dei suoi amici e della moglie che non ha mai smesso di cercarlo.

 

 

[Eunice (Fernanda Torres) insieme ai figli Eliana, Marcelo, Beatriz, Veroca e Ana Lúcia in Io sono ancora qui]

 

 

Caetano, Gilberto, Chico

 

Paese dalla grande tradizione musicale, il Brasile ha sparso per il mondo i suoi cantautori più famosi e apprezzati, simboli di lotta contro la dittatura.

Come da tutti i regimi, dal Brasile dei militari i primi a fuggire o a essere esiliati furono infatti gli intellettuali: molti si diressero in Europa, altri verso il Cile, che nel 1973 avrebbe però subito la stessa sorte a causa del golpe militare di Augusto Pinochet e dell’omicidio di Salvador Allende. 

 

La musica brasiliana diventa la perfetta colonna sonora di Io sono ancora qui, facendosi diegetico-politica, non solo identitaria.

Oltre ai miti del rock anni ’60, in casa Paiva la musica brasiliana è molto presente perché espressione di un’idea: possedere un vinile di Caetano Veloso, cantautore considerato sovversivo per le proprie posizioni politiche e censurato dal regime, era un chiaro posizionamento. 

Caetano Veloso, come Gilberto Gil, altro cantautore molto noto, furono arrestati nel 1968 per attività antigovernative e trascorsero poi un periodo di esilio a Londra, meta di molti esuli brasiliani che spesso erano più informati su ciò che accadeva nel loro paese di quanti rimasti in patria. 

 

Chico Buarque, altro cantautore arrestato nel 1968, si autoimpose l’esilio in Italia, dove compose alcuni album in italiano per poi tornare in Brasile nel 1970 e combattere difficoltosamente il regime con la propria musica.

Anche per mezzo della musica, dunque, Io sono ancora qui ci regala uno spaccato della società dell’epoca nella sua quotidianità. Forse è anche per questo che il film ha riscosso un grande successo e un tentativo di boicottaggio in Brasile: la verità storica fa sempre male a chi non vuole comprenderla.

Ammettere i crimini del proprio Paese non è mai semplice, ma i conti con la Storia sono necessari.

 

Se non fatti a fondo si rischia un rigurgito reazionario di cui sentiamo, oggigiorno, sempre di più la presenza mefitica.

 

 

[Eunice prima di lasciare la casa di Rio de Janeiro e trasferirsi a São Paulo in Io sono ancora qui]

 

 

Memoria

 

Io sono ancora qui è un racconto di memorie, di una vita, di una morte, di una lotta.

Lotta che non si è interrotta nemmeno quando Eunice ha iniziato a soffrire di Alzheimer, i cui sintomi hanno cominciato a manifestarsi subito dopo la ricezione del certificato di decesso di Rubens.

 

Una donna che ha fatto della propria memoria la fonte inesauribile di protesta, l’ha persa pian piano nei quindici anni in cui ha convissuto con la malattia.

La testimone della vita e dell’uccisione di Rubens Paiva ha perso la propria memoria gradualmente, ma non cancellando la traccia di ciò che ha ottenuto.

 

Ecco che il titolo Io sono ancora qui si carica di un ulteriore significato: esserci ancora nonostante la malattia, continuare a ricordare nonostante l'impossibilità di farlo. 

 

 

[Fernanda Montenegro è Eunice a 89 anni in Io sono ancora qui]

 

 

A interpretare Eunice ottantanovenne in Io sono ancora qui è Fernanda Montenegro, prima attrice brasiliana a essere mai stata candidata al Premio Oscar per Central do Brasil, sempre di Walter Salles, e madre di Fernanda Torres.  

 

Un cameo graditissimo, che non solo ha prestato a Eunice il volto di una delle più grandi attrici del suo Paese, ma che esprime il passaggio di testimone tra madre e figlia nell’arte della narrazione di un Cinema storico-civile di cui abbiamo sempre più bisogno, in questi tempi senza più memoria. 

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