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All We Imagine as Light mi ha ricordato Italo Calvino e il suo Le città invisibili: fotografie oniriche, archetipi del simbolismo, inespugnabili a livello deduttivo.
Nel film di Payal Kapadiya vincitore del Gran Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2024 l’onirico diventa invece analitico, cioè necessario, come strumento interpretativo e rappresentativo.
Con gli stessi strumenti del suo documentario A Night Knowing Nothing, credo che la regista confezioni una delle pellicole più affascinanti dell’anno, tra mito e favola.
[Il trailer di All We Imagine as Light]
La storia di All We Imagine as Light è quella della letteratura più raffinata - penso ad esempio a Raymond Carver - non accade nulla: Prahba (Kani Kusruti) e Anu (Divya Prabha) sono due infermiere malayali che vivono un amore difficile, citando sempre Calvino.
Prahba non vede il marito da tempo; Anu si innamora per la prima volta.
Sin dalle prime scene è evidente quanto la regista, con occhio documentaristico, affidi il ritmo di All We Imagine as Light alla frenesia urbanistica di Mumbai, un organismo da oltre 22 milioni di abitanti. La sensazione, infatti, è che le geometrie spaziali ridotte e ripiegate su sé stesse, claustrofobiche, impongano una geografia dei rapporti di forza, quelli di una società in cui le disuguaglianze sono radicate.
Kapadiya traccia una mappa a matrioska della città in crescendo, che riflette e alimenta ma al contempo strozza l’evoluzione emotiva della due protagoniste.
L’epilogo in cui Prahba e Anu sembrano finalmente libere di vivere e soffrire per i loro amori non a caso avviene sul mare, dove l’orizzonte non è più soffocato dall’iper-urbanizazzione di Mumbai.
Kapadia, quasi fosse in dialogo con Paolo Sorrentino, sembra ribaltare la sentenza di Parthenope, "Il futuro è più grande sia di me sia di te", dice la protagonista: Prahba e Anu, al contrario, davanti all’orizzonte, collocano sé stesse nel tempo, nel futuro, forse per la prima volta.
Questo orizzonte mobile che alla fine determina un’esplosione incontrollata dello spazio è altresì il confine, la misura del rapporto tra pubblico e privato che informa la storia di All We Imagine as Light.
Tra il lavoro da infermiera e il rapporto domestico, nei dialoghi imbarazzati tra le due coinquiline, che, lentamente, imparano a rapportarsi allo stato d’animo altrui, avvolte da un tappeto musicale onnipresente.
È come se la regista indiana avesse dato vita a un’urbanizzazione sentimentale, lenta ma progressiva; la scomparsa dello spazio circostante (quella di cui parla il famoso storico tedesco Karl Schlögel in Leggere il tempo nello spazio) rappresenta un processo concavo, in cui Kapadiya traccia le linee di uno spazio interiore.
La scena della caverna tra Anu e il ragazzo che ama - come piombassimo all’improvviso nel più noto dei miti platonici -, o l’istantanea che fotografa Prahba auscultarsi da sola per sentire cosa ha dentro sono esempi dell’esercizio erosivo dell'autrice.
La mobilità spaziale diventa mobilità temporale che ha sempre un riferimento al nostro parco lessicale. Non è una coincidenza che in All We Imagine as Light Prahba racconti all’uomo che la corteggia che in lingua Hindi la parola "kal" significa sia "oggi" sia "domani".
D'altronde, il tempo sempre sincronico al presente, in cui oggi e domani si confondono, è il tempo degli innamorati, dall'amore cortese a oggi.
A questa dimensione aspecifica, ineffabile, Kapadiya lega una forza visiva sorprendente, in un gioco di luce e oscurità che è l’ennesima rappresentazione dei tormenti interiori, scriverebbe Saba, delle due protagoniste.
Troviamo allora Prahba che legge alla luce del suo smartphone nel buio della casa.
Una luce che in All We Imagine as Light è forse lo strumento che trascende i limiti del reale e dà un controcampo fisico all'altro termine chiave del titolo, l’immaginazione, in grado di scalvare la siepe di case che anima Mumbai - come nella celebre poesia di Leopardi.
[Un frame di All We Imagine as Light]
Imitando i racconti carveriani, anche in All We Imagine as Light c’è un innesco narrativo indiretto, apparente: in questo caso si tratta di una sorta di pentola a pressione, o forse più una friggitrice ad aria, che il marito di Prahba le manda a sorpresa dalla Germania.
Sarà questo a far scattare la ricerca di corrispondenze vere e presunte in Prahba, alla ricerca di un passato che non conosciamo; sarà anche la ragione per cui rifiuterà il corteggiamento di un uomo, seduta su un’altalena, in una scena dai colori e dalla composizione molto simile a quella di Past Lives, in cui Nora e Hae parlano davanti alla giostra.
All We Imagine as Light ha del miracoloso, quando avvera la predizione di Atlante Occidentale di Daniele del Giudice, per il quale “le lettere si dispongono in un modo e non in un altro e si riesce a dire: lei mi piace, e il miracolo per cui questo corrisponde a qualcosa”.
[articolo a cura di Davide Spinelli]
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