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Campo di battaglia - Recensione: la Storia siamo noi

Liberamente tratto dal romanzo La sfida di Carlo Patriarca, Campo di battaglia unisce Grande Guerra, pacifismo ed epidemia di spagnola delineando l’affresco di un passato non troppo remoto che parla al nostro presente

Campo di battaglia è un riferimento bellico che nasconde più di quanto esprima il suo primo significato letterale. 

 

1918: siamo agli sgoccioli della Prima Guerra Mondiale sul martoriato fronte italiano, ma non siamo in trincea.

L’unico campo di battaglia effettivo che vedremo è quello della sequenza iniziale, ed è il campo di una battaglia ormai conclusa, che dietro di sé ha lasciato solo cumuli di soldati morti.

 

È tra questi morti, dall’inferno sulla terra, che vediamo emergere una mano in richiesta d’aiuto. È il primo incontro con uno dei protagonisti secondari di Campo di battaglia, il soldato Tummino, la cui storia sarà però centrale di uno dei temi trattati dal film.

Il soldato redivivo, felice per essere stato salvato nonostante abbia perso un occhio per le schegge di una granata, sogna già il rientro a casa.

Prima tappa per allontanarsi dalla guerra, un luogo che potrebbe significare salvezza ma che per molti significa invece un limbo in attesa del ritorno al fronte: l’ospedale militare. 

 

Qui inizia la nostra storia.

 

[Il trailer di Campo di battaglia]

 

 

Strapparli a una grande ingiustizia

 

Campo di battaglia è, dalle parole del regista Gianni Amelio, un film sulla guerra e non di guerra: questa distinzione può sembrare sottile ma non è banale, dato che del conflitto attivo non vediamo nulla, nessuno sparo, nessuna bomba, neanche un soldato nemico.

Quello che vediamo bene sono invece gli effetti che il conflitto ha avuto e ha ancora sui sopravvissuti, ovvero gli unici che possono farsi testimoni fisici e psicologici di una delle più aberranti eppure naturalmente espletate attività umane.

 

Siamo in un ospedale militare, in cui i corpi dei soldati sono esposti, messi a nudo, osservati in ogni loro piega non soltanto per essere curati.

Quei corpi devono infatti il più presto possibile essere dichiarati nuovamente pronti a tornare sul campo di battaglia, una battaglia che è ormai quasi conclusa ma che reclama ancora il suo prezzo in vite umane.

Giulio Sartori (il sempre bravissimo Alessandro Borghi) è un tenente dell’esercito e medico militare: è lui il primo a osservare quei corpi, a saggiarne la sempre minore salute, a provvedere perché rimangano in vita dopo essere miracolosamente scampati alla morte al fronte. 

Le ferite curate all’ospedale militare sono quelle più evidenti, quelle fisiche, eppure Giulio è ben consapevole che tante ferite non sono così visibili, perché ingabbiate nella ormai fragile mente di un soldato che sul campo di battaglia ha visto e subìto l’indicibile.

 

Sono quelle le ferite che portano essere umani adulti a regredire all’infanzia, a cercare la mamma, ad avere paura anche della propria stessa ombra.

 

 

[Vince Vivenzio è un soldato napoletano traumatizzato in Campo di battaglia]

 

 

Non è un caso che i primi studi sistematici sulla sindrome da stress post-traumatico (che agli inizi non aveva questa denominazione) iniziarono proprio durante la Grande Guerra: ci vorrà però la Guerra del Vietnam per portare l’inserimento di questa sindrome nella classificazione nosografica internazionale in ambito psichiatrico e solo nel 1980 diventeranno ufficiali la definizione e la diagnosi che oggi tutti conosciamo.

 

È dunque un approccio innovativo quello di Giulio, non condiviso però dal collega e amico Stefano (Gabriel Montesi): per lui ogni minuto della vita di un soldato passato lontano dal campo di battaglia è un affronto, verso di sé e verso la Patria.

Bisogna rattoppare in fretta quei corpi e quelle povere menti - giovani, spesso molto giovani - per avere carne da macello per i cannoni nemici e avere così salva la reputazione.

 

La storia del soldato Tummino (un bravissimo Giovanni Scotti) introduce qui il primo grande tema del film: tornare a casa a tutti i costi, grazie all’aiuto del medico.

 

Giulio combatte la sua personale operazione di pacifismo, o di antimilitarismo, per essere più precisi.

La guerra è insensata per definizione; ancora più insensato è mandare nuovamente al fronte degli uomini distrutti. Quelli che Stefano bolla come nuovamente abili alla leva - perché anche con una sola mano o con un solo occhio si può ancora sparare - vengono accolti sotto l’ala di Giulio che, di nascosto da tutti, effettua su di loro particolari operazioni, inocula virus e batteri per far peggiorare le loro condizioni e permettere così loro di essere riformati. 

 

I soldati cominciano a chiamare “Mano Santa” colui di cui non conoscono il nome, sapendo bene cosa accade in quell’ospedale a chi sul campo di battaglia non vuole tornare.

Giulio è solo, nella sua singolare opera di salvezza: evitare il fronte è un’ignominia, oltre che un reato.

 

Non gli sarà di sostegno nemmeno la presenza di Anna (Federica Rosellini), vecchia amica e compagna di corso a medicina, costretta dalla guerra - e dall’essere donna in un mondo di uomini - a interrompere gli studi e lavorare come infermiera, anzi: si dimostrerà essere un intralcio.

 

 

[Alessandro Borghi è Giulio in Campo di battaglia] 

 

 

La guerra è guerra e se non scappi ti sotterra 

 

L’ospedale militare di Campo di battaglia, così come il fronte italiano della Grande Guerra, è un girone babelico di tante lingue diverse: un insieme di soldati provenienti da ogni parte di un paese in cui la lingua comune faticava ancora a essere diffusa come mezzo di comunicazione.  

 

Ognuno parla nella propria lingua madre, cercando di farsi capire; nonostante queste distanze, Giulio e il soldato Tummino si capiscono benissimo, avendo uno scopo comune.

 

Stefano dichiara il soldato abile a tornare al fronte, perché privo solo dell'occhio sinistro e si prende la mira con il destro, ma Tummino non vuole tornare e Giulio è disposto ad aiutarlo, provocandogli un’infezione temporanea all’occhio buono e rendendolo così completamente cieco. 

Tummino è disposto a tutto: è siciliano e nell’esercito ha già vissuto la sua parte di ingiustizia.

 

Come tutti i siciliani (ma anche i sardi, altri isolani, e gran parte dei soldati provenienti dal Meridione), non ha mai avuto una licenza, perché la Sicilia è lontana e grande: si perde troppo tempo per il viaggio e, soprattutto, se lasci andare via qualcuno così lontano non lo riprendi più prima che si dia alla macchia.

 

 

[Giovanni Scotti è il soldato Tummino in Campo di battaglia]

 

 

Giulio avverte il soldato di ciò che rischia: essere accusato di diserzione e fucilato di conseguenza. 

 

“Non ci provate a evitare la guerra, sennò ci pensiamo noi ad ammazzarvi”, gli dice laconicamente.

Meglio tentare una disperata salvezza piuttosto che riaffrontare il campo di battaglia e la morte certa. Tra lo sconcerto di Stefano e degli altri assistenti medici, il soldato Tummino peggiora e deve essere mandato a casa, essendo ormai cieco.

Alla stazione, felice di poter riabbracciare la famiglia di lì a poco, non riesce a dissimulare il suo stato d’animo, lo stesso che lo animava dopo essere stato salvato dal cumulo di morti sotto cui si trovava.

Anna, sua accompagnatrice, si insospettisce: sollevandogli la benda nota che l’occhio destro è guarito.

L’inganno è svelato.

 

Il soldato Tummino deve essere un esempio per tutti coloro che provino anche lontanamente a pensare che salvarsi la vita sia più onorevole di morire al fronte: denunciato da Anna a Stefano, viene riportato all’ospedale militare e fucilato nel piazzale di fronte a tutti i feriti, perché tutti imparino.

La stessa Anna è sconvolta perché non immaginava che la sua denuncia avrebbe portato a tanto.

Giulio non può che arrendersi alla fatalità della situazione: anche Stefano ha ormai capito che la “Mano Santa” è la sua e che basterebbe poco per denunciarlo per comportamento antipatriottico.

 

Giulio, anche se tenente, sarebbe a sua volta fucilato, continuando la tradizione di morte: che sia sul campo di battaglia o per mano dei propri commilitoni secondo la legge marziale, poco importa.

 

 

[Campo di battaglia: il soldato Tummino viene fucilato nel piazzale dell'ospedale militare]

 

 

Un colpo di tosse

 

Mentre i feriti dal fronte vanno pian piano diminuendo per il diradarsi graduale delle operazioni militari, nuove file di malati si presentano alle porte dell’ospedale militare: non respirano, hanno la febbre, muoiono come mosche prima che qualcuno possa dargli aiuto.

È arrivata l'influenza spagnola, che mieterà vittime a migliaia tra la popolazione civile e tra i soldati, al fronte e negli ospedali, per via di condizioni sanitarie già precarie.

 

 

Il vero nemico diventa così un essere vivente invisibile a occhio umano e, per tale ragione, non riconosciuto come reale per l’iniziale scarsa conoscenza a riguardo e per l’umano inevitabile scetticismo contro ciò che non si conosce: il parallelismo tra i primi mesi della spagnola e i primi tempi della pandemia da COVID-19 è inevitabile e impressionante.

 

La preoccupazione di Stefano non è tanto quella sanitaria, bensì quella patriottica.

“Rischiamo di perdere la guerra”, dirà a un suo superiore.

“Per un colpo di tosse?”, sarà l’unico commento.

 

C’è da salvare l’onore nazionale, messo a repentaglio dall’inizio della guerra per via del voltafaccia dell’Italia, parte della Triplice Alleanza ma entrata in campo di battaglia al fianco della Triplice Intesa.

Questa guerra va vinta, ne va dell’onore del giovane Regno: non può essere una semplice febbre a preoccupare.

 

L’ospedale è sempre lo stesso, ma i soldati vengono ricoverati per l'influenza, che li uccide rapidamente senza che si abbia una cura.

Sul volto dei pazienti e dei sanitari compaiono delle mascherine di stoffa bianca; Anna, ormai sempre più disillusa e preoccupata per la sparizione improvvisa di Giulio, entra sempre più in conflitto con Stefano, che continua strenuamente a pensare solo alla necessaria vittoria dell’Italia sul campo di battaglia.

Fa finta di non vedere la realtà che lo circonda: non ci sarà più chi mandare al fronte, se la spagnola dilaga così rapidamente. 

 

“Questo morbo li preferisce giovani, come la Patria”, gli dirà Anna con sarcasmo, un sarcasmo che per Stefano equivale ad antipatriottismo, invece che a puro realismo.

 

 

[Federica Rosellini è Anna in Campo di battaglia]

 

 

Qui non muore nessuno

 

La paura della morte va esorcizzata, specialmente quando ci si trova al cospetto della malattia.

 

Il campo di battaglia che non vediamo mai, ma intuiamo all’inizio essere quello della trincea, muta forma diventando quello medico, dei sanatori in cui vengono mandati i soldati infetti.

Qui ritroviamo Giulio, mandato da Stefano per salvargli la vita ma in realtà per condannarlo definitivamente a morte per aver osato sfidare il comando militare. 

 

Nel sanatorio i soldati muoiono a decine ogni giorno e l’unico modo che si ha per disfarsi dei corpi sono delle fosse comuni in cui i cadaveri vengono dati alle fiamme.

Vediamo sfilare, in una scena da brividi, decine e decine di camion militari carichi di salme, che fanno la spola dal sanatorio alle fosse comuni: incolonnati, ordinati e silenti sembrano gli stessi di cento anni dopo e della Bergamo martoriata dal COVID-19.

 

Immagini che in molti, quando la paura della malattia è diminuita, hanno messo in discussione a favore di idee complottiste di cui la nostra società è purtroppo sempre più satura.

 

 

[Federica Rosellini e Alessandro Borghi in Campo di battaglia]

 

 

Giulio è in lotta contro i titani, nel suo personale campo di battaglia.

 

Stefano vuole che trovi una cura a questa peste che rischia di mettere in ginocchio anche il ben oliato e ineludibile meccanismo bellico, ma come trovare una cura, con gli scarsi mezzi a disposizione?

Nemmeno Anna, accorsa di nascosto al sanatorio, potrà aiutare un Giulio in condizioni di salute sempre più gravi a trovare un rimedio, ma solo a intuirlo.

 

 

Il pensiero di un’epidemia del genere senza alcuna cura può restituire il livello di terrore diffuso, all’epoca come oggi.

 

Giulio morirà dello stesso male che stava tentando di curare, solo e al freddo del sanatorio, dimenticato da tutti e ricordato con vergogna solo da qualcuno.

Stefano arriverà invece sano e salvo al 4 novembre 1918, giorno della cessazione delle ostilità e fine convenzionale della Prima Guerra Mondiale: entrerà fiero nell’ospedale militare dove la storia ha avuto inizio, sbandierando il giornale e incitando i feriti rimasti all’orgoglio nazionale.

Anna, tornata insieme a lui, non la vedrà allo stesso modo: la fila dei malati di spagnola alle porte è sempre più lunga e la cosiddetta vittoria in guerra non significa niente per chi muore asfissiato dai propri stessi polmoni induriti dal virus.

 

“Qui non muore nessuno” sono le uniche parole di conforto che Anna si sente di dare a un soldato spaventato dalle proprie condizioni, che ha paura di non riuscire a tornare a casa persino adesso che la guerra è finita.

Sono le stesse parole che Giulio rivolgeva gentilmente ai soldati che tentava di salvare, facendoli ammalare per il proprio bene.

 

Spesso ci si aggrappa alla vita a costo di dolori immensi perché si è osservata la morte troppo da vicino, sul campo di battaglia.

 

 

[Gabriel Montesi è Stefano in Campo di battaglia]

 

 

La Storia siamo noi

 

“La Storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso”, cantava Francesco De Gregori.

 

La sensazione che ho avuto guardando Campo di battaglia, che a mio avviso ha numerosi pregi e qualche piccolo difetto, è esattamente questa. 

I temi trattati sono tanti, tutti molti importanti, ma il film non riesce a svilupparli approfonditamente: guerra, pacifismo, diserzione, patriottismo, epidemia, cura, sono tutti elementi presenti e toccati molto bene ma che sembrano dividere il film in tre episodi a sé stanti (il che non è per forza una debolezza). 

 

Le vicende romanzate della storia, come il rapporto triangolare tra Giulio, Stefano e Anna, ne escono forse più superficialmente: sappiamo infatti poco di cosa accade veramente tra loro e di come questo rapporto intrecciato influenzi ogni volta le azioni dei personaggi, ma nel complesso credo che non sia poi così fondamentale, se lascia spazio alla narrazione della più generale impronta storica. 

 

A mio parere, i pregi sono di gran lunga superiori: non si può non guardare un film come Campo di battaglia e non rimanere profondamente colpiti dalla vicinanza di eventi accaduti cento anni fa.

Ogni anno che passa l’umanità si sente, in parte a ragione, un passo più vicina al progresso, senza però considerare che la Storia è un inesauribile processo continuo, che non ha un punto di fine o un culmine stabilito: il nostro sentirci all’avanguardia sarà visto dagli uomini di domani come antiquato e anacronistico, quindi non deve stupirci se certe dinamiche antiche si ripetono costantemente nel nostro presente.

 

Senza scomodare Friedrich Nietzsche, ci basti sapere che tutti noi siamo parte della Storia - nessuno si senta escluso - e che il progresso o il regresso di essa dipende solo dall’esercizio della nostra memoria.

 

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