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Nascosta sotto un tavolo, una ragazza spia involontariamente il padre intento a riporre la chiave di un (cassetto) segreto; riprendendo Anton Čechov in ottica cinematografica, se una chiave acquisisce rilievo (estetico-narrativo) rispetto a ciò che la cinepresa capta inconsciamente, è perché questa apre e dovrà, nell'economia del racconto, aprire qualcosa
In Vermiglio, la chiave per il segreto, ben oltre il piano diegetico, apre ma non vìola.
II racconto non è economico, o forse lo è se insistiamo sull'etimologia greca del termine: il racconto è soprattutto gestione, anzi custodia, della casa nel suo senso più ampio.
[Un frame da Vermiglio]
La casa è primariamente il villaggio della Val di Sole che dà il titolo al secondo lungometraggio di Maura Delpero, la cui casa privata - il sogno del padre scomparso - anima il racconto di una casa che non è meramente pubblica, contrapposizione rispetto agli anfratti dei singoli.
Prendendo in custodia questa casa, questo cosmo, Vermiglio prende in custodia il segreto di un tempo in cui si abita sempre meno e che però non sembra poter avvizzire del tutto.
Il racconto, come racconto del tempo (genitivo oggettivo e soggettivo) alla maniera di Paul Ricœur, non può allora irrigidirsi come hanno fatto via via le parole di Aristotele, ancora al lavoro nel detto cechoviano.
Se il Cinema può sviluppare un racconto che supera, come ogni arte (e ogni tecnica?), la sola dimensione contenutistica, il racconto deve essere un affare contenutistico e formale, ossia - in una parola - estetico.
Le possibili risposte a queste istanze sono ovviamente differenti: in relazione a Vermiglio, due poli di confronto possono essere lo sguardo di Michelangelo Frammartino, in cui sembra istituirsi un distacco (formale) rispetto alla narrazione in senso stretto, e quello di Ermanno Olmi, in cui il racconto guadagna uno spessore decisamente umanistico.
Ambientata in un paesaggio incantato sul finire del secondo conflitto mondiale, l'opera di Delpero avrebbe potuto perdersi tanto nelle logiche di una ricostruzione storiografica quanto nei cieli tersi del Trentino, da rendere formalmente ancor più tersi.
Tra le altre cose, la predilezione quasi assoluta per inquadrature fisse (che incontra qualche eccezione notevole) non testimonia di un rigore in grado di imbrigliare il segreto, come farebbe anche un andamento inesorabile.
Il rigore di Vermiglio è quello di Olmi nella misura in cui non insegue la causalità della scrittura e la (messa in) sequenza delle emozioni, esercitando un controllo estetico che è appunto una custodia; è anzi insieme quello di Frammartino, il pitagorico de Le quattro volte, nella misura in cui le eccedenze, ciò che non è messo in rilievo, non si scontrano con un tentativo (estetico-narrativo) di soppressione.
Vermiglio racconta la storia di una famiglia, soprattutto quella di Lucia, che ha una scansione piuttosto chiara, anche archetipica; questa chiarezza - ecco il punto - emerge da un'altrettanto chiara operazione di messa in rilievo.
Delpero non si nasconde, o si nasconde solo in parte, quando dei brani che sembrerebbero extra-diegetici sono presto riassorbiti diegeticamente, quando delle parvenze di voice-over si trasformano in ponti sonori.
[Un'immagine dal set di Vermiglio]
La vita della famiglia Graziadei si fa avanti, come un organismo, in ogni angolo di quotidianità, anzitutto al femminile.
L'inserimento in un contesto è imprescindibile e va dagli effetti vicini di una guerra lontana sino alla comunità vermigliana, tra l'osteria e la scuola, dal paesaggio fino al dialetto locale (che emerge anche nella sua differenza sociolinguistica rispetto all'italiano, significativa sul fronte politico dopo il Ventennio).
Ecco che il rapporto con la religione di Ada, gli scontri tra padre e figlio, le prospettive di prosecuzione del percorso scolastico, il ruolo della cultura extrascolastica ("cibo per l'anima") e la scoperta del corpo, per dire soltanto alcuni dei numerosi micro-temi che popolano la pellicola, trovano un senso risuonando con l'anima della collettività a cui appartengono.
La scarsezza di campi lunghi o lunghissimi in cui inghiottire le figure umane, a cui non subentra comunque una vicinanza eccessiva, sembra suggerire la presenza di una relazione non-deterministica: più che appartenenza, nel significato di un possesso, co-appartenenza e co-determinazione, il che vuol anche dire che la fine di un dissidio bellico non coincide con la fine di un dissidio familiare.
Nel senso della co-appartenenza, la questione dell'anima della collettività chiama in causa la questione della trascendenza, tanto più visto l'ascendente olmiano.
Mentre interroga il fratello maggiore a proposito della morte del fratellino appena nato, il piccolo Pietrin - in cui Delpero riversa il ricordo del padre, valorizzando una prospettiva fanciullesca - domanda con candore che roba sia l'anima, non trovando risposta.
In un film in cui la religione ufficiale non si staglia in positivo, ad esempio nelle prescrizioni sottilmente repressive che colpiscono Ada, viene facile scansare punti di vista confessionali; la questione dell'anima però (e dunque della trascendenza) si pone proprio nell'emergere del problema del corpo.
La repressione interiorizzata - incorporata - e le indicazioni patriarcali colpiscono il corpo, il corpo femminile: Ada sta scoprendo la propria sessualità, mentre il parto rende impure e sulla disinibita Virginia pesa lo stigma della comunità.
Il pensiero del corpo, che è peraltro anche pensiero della morte, dei soldati come dei neonati, non si oppone all'anima e a una cultura che rischia talora di sclerotizzarsi, separandosi dalla vita: la co-appartenenza traccia il sentiero per superare proprio questo dualismo.
E se Vermiglio è un racconto di stagioni, anche vivaldiane, quale corpo più di quello femminile, esposto alla ciclicità delle mestruazioni come nel caso di Flavia o alla maturazione del parto come nel caso di Lucia, può compiere questo oltrepassamento, traghettando oltre una corporeità consueta?
[Il cast di Vermiglio a Venezia 2024]
Nei sentimenti trattenuti e nelle norme socio-religiose, il segreto a cui Vermiglio porge l'orecchio è il ritmo di una vita che si snoda ovunque può, patria di tragedie e gioie ugualmente quotidiane.
La chiave di Cechov, un esempio tra i molti possibili, non esplode in maniera calcolata, come premessa che reca già in sé la propria conclusione; nemmeno però presenzia nell'immagine e nel racconto in maniera insignificante (meglio: a-significante).
Le sfumature spesso inattese che la chiave si trova ad aprire sono le stesse dei personaggi di Vermiglio (e di Vermiglio: il film come luogo estetico), personaggi che reagiscono con le incertezze e la mancanza di assoluti che caratterizzano il corso delle esistenze.
Delpero prende in custodia questo ritmo, questo tempo, accompagnandolo in un racconto del quotidiano in cui prendono forma simultaneamente sia le attualizzazioni propriamente narrative sia le riserve di senso (ovvero di trascendenza, ma solo in direzione della co-appartenenza) che dimorano in maniera a-significante - con Jacques Rancière - in ogni immagine.
Sul filo di un equilibrio che deve essere fragile si colloca allora il tono di Vermiglio, il suo fragile umanismo, la sua fragile casa.
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