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Beetlejuice Beetlejuice - Recensione: il ritorno dall'aldilà di Tim Burton

Beetlejuice Beetlejuice segna il ritorno di Tim Burton alla poetica gotica del suo primo periodo artistico, dimostrando come sia possibile il ponte tra le vecchie e le nuove generazioni e, di conseguenza, tra due idee di Cinema

“Beetlejuice Beetlejuice Beetlejuice!” urla Lydia Deetz (Winona Ryder) per evocare lo spirito che nel 1988 fece la fortuna di Tim Burton e del suo interprete Michael Keaton.

 

In questo sequel non c’è più la paura da parte di Lydia di pronunciare quel nome perché al contrario diventa una necessità.

 

Beetlejuice Beetlejuice rappresenta una grande operazione di esorcizzazione da parte di Tim Burton dai demoni che lo hanno attanagliato per anni.

 

[Il trailer di Beetlejuice Beetlejuice]     

 

 

Un film-terapia, che rappresenta la rinascita di un autore fondamentale del Cinema statunitense degli anni ‘90.

 

Si ritorna dunque a Winter River, sebbene la celebre casa infestata del primo film sia diventata un luogo di culto per appassionati dell’oltretomba; così come è ormai una celebrità Lydia, conduttrice di un programma - il nome è simbolico: Ghost House - dove interagisce con gli spiriti in diretta TV.

L’universo gotico che avevamo amato del primo film è dunque diventato una sorta di riproduzione sbiadita di se stesso, un plastico ridotto a forma di reality per un pubblico che non pretende più nulla, se non la medesima formula ripetuta all’infinito.

 

Tim Burton mette in scena la propria frustrazione, invitandoci ad assistere al teatrino verso il quale in questi anni si era recluso volutamente o meno (frecciatina a Disney inclusa).

Una morte all’interno del film però sbaraglia le carte, dando il via libera a una reunion che non ha il sapore di un’operazione meramente commerciale, bensì di una ricongiunzione spirituale con il proprio Io.

 

La formula di Beetlejuice viene ripresa e amplificata - con tanto di Day-O (Banana Boat Song) trasformata in brano funereo - mantenendo un buon equilibrio tra omaggi al primo film e messa in scena di nuovi personaggi.

 

 

[Catherine O'Hara, Jenna Ortega, Winona Ryder e Justin Theroux in Beetlejuice Beetlejuice]

 

Se da una parte Lydia rappresenta un chiaro alter ego di Tim Burton, sua figlia Astrid (Jenna Ortega) si fa simbolo della Generazione Z, incapace oggi di credere nell’aldilà, o meglio, nei sogni.

 

Il concetto di colpa diventa centrale nel film, il filo conduttore per unire i vivi con i morti, il passato cinematografico di Burton con il suo presente.

Il regista di Edward mani di forbice sente il peso di una mancata connessione con le nuove generazioni, lo mostra nei dialoghi tra Lydia e Astrid e nella messa in ridicolo di determinate figure adulte capaci esclusivamente di ostentare una realtà che non appartiene loro. 

L’evocazione dello spirito di Beetlejuice è perciò simbolica perché rappresenta un ritorno alle origini e - in qualche modo - a una sincerità artistica capace di fare da tramite tra due visioni di mondo: esemplificativo in questo caso l’unione di effetti speciali analogici e digitali.

 

L’aldilà di Beetlejuice Beetlejuice diventa nuovamente un parco giochi dove Tim Burton scatena il proprio immaginario gotico - tra cui un immancabile omaggio a Mario Bava - mescolando generi e linguaggi cinematografici, realtà e finzione, la morte con la vita.

 

 

[Winona Ryder e Michael Keaton, la coppa al centro di Beetlejuice Beetlejuice]

 

Il film che ha aperto l'81ª Mostra del Cinema di Venezia a mio avviso si allontana dunque fortunatamente dalla facile operazione nostalgia per accaparrarsi i vecchi fan, cercando invece di affacciarsi alla contemporaneità mantenendo al contempo un gusto artistico e, di conseguenza, identitario non edulcorato.

 

Beetlejuice Beetlejuice fa dei balli di gruppo dei morti una danza spensierata mai così vitale, capace di rinnovare il nostro credo in un regista che ormai davamo per disperso nella kafkiana burocrazia dell'oltretomba.

 

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