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Sarebbe troppo banale iniziare dicendo che Gran Torino è uno dei migliori film di Clint Eastwood eppure, dal mio punto di vista, non c’è altra maniera di definire un’opera tanto iconica quanto magnetica, che racchiude in sostanza l’intera eredità artistica dell’Eastwood attore, regista e autore.
Ciò che rende Gran Torino una delle vette più alte mai toccate dal regista è la capacità di quest’ultimo di mantenere lo sguardo rivolto a temi e personaggi abituali, decidendo però di superare la figura del giustiziere e assumersi la responsabilità morale della violenza, imboccando inaspettatamente la via della redenzione.
Un percorso di riscatto dai toni epici, dotato di una spietata immediatezza.
Crudele e sublime.
[Il trailer di Gran Torino]
Fin dai primi attimi lo spettatore si ritrova catapultato nel territorio di Clint; in quella periferia statunitense conservatrice e razzista dominata dalle ingiustizie, resa a livello visivo dalla fotografia di Tom Stern che si sviluppa su toni opachi, a voler ricreare l’atmosfera tipica di una metropoli industriale del Midwest.
Il protagonista di questo spaccato di vita è il veterano di guerra Walt Kowalski (Clint Eastwood), il perfetto archetipo dell’antieroe eastwoodiano: burbero, scontroso, emarginato. Impreca a denti stretti mentre osserva il mondo cambiare sotto i suoi occhi.
Lui che ha servito il paese in Corea vede ora il suo quartiere di Detroit completamente abitato da immigrati asiatici.
L’intolleranza nei confronti del diverso e la diffidenza verso il prossimo lo hanno spinto a isolarsi fra le sue piccole abitudini quotidiane, come la cura della casa e la manutenzione della sua Ford Gran Torino del 1972 che custodisce gelosamente nel garage.
Tutte le certezze di Walt vanno in frantumi quando, rimasto vedovo, inizia a interagire con i suoi vicini di casa, una famiglia di etnia Hmong, stringendo un forte legame affettivo soprattutto con il giovane Thao (Bee Vang), un adolescente senza padre tormentato da una gang di quartiere.
[Clint Eastwood in una scena di Gran Torino]
La maschera indossata da Eastwood in Gran Torino, quella del misantropo razzista sempre pronto a proteggere la sua proprietà fucile alla mano, rievoca il fantasma dell’ispettore Callaghan e di quella sua abitudine poco garantista di imporre con violenza un’assoluta e personale idea di giustizia.
Un individuo che non va fatto arrabbiare insomma, minaccioso, ma che al contrario di “Dirty Harry” è anche capace di intraprendere un profondo percorso di cambiamento.
Il personaggio di Walt fa pensare anche al vecchio pistolero Will Munny, protagonista di un altro grande successo diretto da Clint Eastwood che gli è valso due Premi Oscar nel 1992: Gli spietati.
Già in quella pellicola il vecchio Clint aveva provato a far intraprendere a uno dei suoi eroi la via della redenzione, senza riuscirci.
Il famoso fuorilegge infatti aveva abbandonato la violenza per ritirarsi a una vita di isolamento e commiserazione; incapace di frenare gli istinti, viene raggiunto dalla sete di vendetta che lo porta a risprofondare in quell’inferno di sangue da cui invano aveva cercato di scappare.
[L'ispettore Callaghan e la sua Smith & Wesson 44 Magnum]
Al contrario di Will che subisce un’evoluzione inversa, Walt riesce a cambiare proprio perché abbandona la solitudine ed entra a far parte di una comunità, rinnegando la violenza per il bene del prossimo e non per se stesso.
Nella sceneggiatura di Nick Schenk (che tornerà a lavorare con Eastwood anche su Il corriere - The Mule) non c’è più spazio per i giustizieri solitari, dunque.
Non è più la vendetta il catalizzatore di questa storia, ma l’incontro con l’altro che spinge Walt a scrollarsi di dosso quell’armatura di odio e indifferenza e riconoscere nel rapporto con Thao e con sua sorella Sue (Ahney Her) un affetto che non aveva mai trovato neanche nella sua stessa famiglia.
Un rapporto che matura fino a diventare un vero legame genitore figlio, tema ampliamente approfondito dal regista nella sua filmografia.
In pellicole come Mystic River e Million Dollar Baby troviamo padri, naturali o putativi che siano, che affrontano il peso della responsabilità davanti alle lapidi delle proprie figlie, accettandone la sorte o invocando vendetta.
[Gran Torino: Walt armato di Colt 1911 minaccia dei teppisti che avevano provato a molestare Sue]
Riscoprire Gran Torino vuol dire ritrovare un’opera ricca di sfaccettature e di attenzione per i dettagli, in cui il ritmo della narrazione varia fino a raggiungere i toni della commedia, quasi a voler allontanare il pericolo che incombe sul destino dei protagonisti, per far piombare poi lo spettatore in un incubo di improvvisa violenza.
È questa la strategia del regista, che fa in modo che il pubblico condivida sempre il punto di vista della vittima, per poi sfumare verso un finale epico a metà tra il western e la simbologia cristologica.
Gran Torino rimane ancora oggi uno dei più grandi successi commerciali di Clint Eastwood, con incassi pari a 148 milioni di dollari negli Stati Uniti e 270 milioni nel mondo.
Ciononostante sin dal momento della sua uscita la pellicola è stata duramente criticata per l’eccessivo uso di insulti razzisti da parte del protagonista.
Se nel 2008 la scelta di mettere una famiglia Hmong al centro della vicenda narrativa fu sufficiente per respingere ognuna delle accuse mosse contro la produzione, a tredici anni di distanza l’attore Bee Vang si è espresso in merito al linguaggio usato nel film in un editoriale per NBC News, sostenendo che i dialoghi di Gran Torino avrebbero contribuito a rendere ancora più dilagante il razzismo nei confronti dei sinoamericani.
Nell’articolo Vang ricorda come all’epoca del debutto, durante le proiezioni pubbliche del film, gli spettatori in sala prevalentemente bianchi ridessero sguaiatamente a
ogni battuta razzista di Walt.
Nella controversia che ne nacque erano sempre i bianchi ad accusare l’attore di non avere l’acume di accettare quelle che dovevano essere considerate semplici “battute innocenti”.
In un periodo in cui gli Stati Uniti si preparavano al mandato del primo presidente afroamericano e Clint Eastwood manifestava un'apertura verso le tematiche di tolleranza e integrazione, il pubblico sembrava essere lontano anni luce dai valori promossi da Gran Torino.
Anzi, secondo Vang fu proprio la rivendicazione di quell’atteggiamento “anti-asiatico mascherato da umorismo bonario” una delle cause della pericolosa diffusione di razzismo durante la pandemia da COVID-19.
[Gran Torino: Walt insegna a Thao come fare dei piccoli lavoretti di manutenzione]
L’attore riconosce comunque a Gran Torino il merito di aver concesso un ampio spazio di rappresentazione alle comunità sinoamericane: il dibattito legato all’opera di Eastwood e le risate dei bianchi agli insulti razzisti - archiviate come allegre canzonature - avrebbero potuto rappresentare un campanello d’allarme per quello che oggi è indubbiamente un problema che gli Stati Uniti hanno con il suprematismo bianco.
Al di là delle polemiche, su cui ho ritenuto comunque opportuno soffermarmi, Gran Torino resta a mio modesto parere un film colmo di una maturità drammatica che il regista non è più riuscito a raggiungere.
Una pellicola che in un modo o nell’altro risulta lontana anni luce dalle opere successive, tra cui proprio American Sniper, che è valso al regista l’accusa di aver riabbracciato quella stessa filosofia giustizialista di cui sembrava essersi finalmente liberato.
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1 commento
Giacomo Camilli
8 mesi fa
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