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Asteroid City - Wes Anderson e le angosce di un'epoca

Un ritratto a opera di Wes Anderson della società contemporanea e della sua complessità 

Uscire dalla sala dopo aver visto Asteroid City, ultimo lavoro di Wes Anderson, lascia una terribile sensazione di spaesamento. 

 

Obiettivo del film è abbandonare lo spettatore alla confusione, ora per la modalità di regia e scrittura, ora perché è proprio di questo che il film tratta.

 

Senza cadere nella seducente idea di racchiudere un’opera così sfaccettata in un unico concetto onnicomprensivo, bisogna tuttavia riconoscere che il film discute principalmente di una sensazione condivisa, perlomeno nel mondo occidentale: l’angoscia derivante dalla perdita di senso che spieghi le ragioni del nostro agire.

 

[Il trailer internazionale di Asteroid City]

 

 

La fede nella scienza non è abbastanza

 

Viviamo in un’epoca storica senza precedenti, nella quale il progresso scientifico ha scardinato definitivamente i presupposti alla base di qualsiasi fede irrazionale, senza però avere gli strumenti per colmare il vuoto lasciato.

 

Come già anticipava Cartesio, la scoperta dell’infinito sia nel microscopico sia nel macroscopico ha rivelato a tutti la nostra insignificanza, ridimensionando inevitabilmente le nostre aspirazioni esistenziali.

La Terra, lungi dall’essere il centro dell’universo, è ora ridotta a macchietta; l’uomo si è trovato orfano di una presenza divina che indicasse la via, che mostrasse il senso del suo agire. Le nostre azioni, la nostra intera vita, altro non sono che un momento anonimo nella complessità del cosmo, qualcosa che verrà dimenticato. 

 

Lo scriveva già Luigi Pirandello parlando della sua lanterninosofia: la religione è un faro che illumina la strada all’uomo nell’oscurità, spento quello c’è solo il buio. 

 

È ciò che sospira Woodrow, uno dei protagonisti della pellicola, alla richiesta del nonno di unirsi nella preghiera per la madre deceduta: “Io non credo più in Dio ormai”

 

E chi più di F.W. Nietzsche ha svelato la fragilità dei nostri valori condivisi, prescrivendo, non per caso, che sia ogni uomo a farsi Dio di se stesso, che sia ognuno di noi a divenire la propria lanterna.

Così l’uomo si ritrova inesorabilmente abbandonato a un senso di angoscia di matrice kirkergaardiana, dimenticato tra un’infinità di possibilità, nessuna delle quali sembra migliore dell’altra: niente di ciò che facciamo nel quotidiano conta per qualcuno al di fuori di noi e questo produce una sensazione di solitudine apparentemente incolmabile. 

Andiamo avanti così, recitando un ruolo sociale che nasconda il profondo dolore che ci appartiene.

 

È proprio questo che motiva la separazione cromatica tra le scene della commedia teatrale, dal nome appunto Asteroid City, e le scene fuori dal palco. 

Le prime, girate a colori, mostrano il nostro vivere pubblico, apparentemente apatico e sereno, mentre le seconde, ridotte al bianco e nero, rappresentano la nostra vita interiore, fatta di dubbi e paure. 

 

Asteroid City è una storia di autodifesa sociale; l’uomo impara a recitare una parte per andare avanti, in apparenza noncurante di qualsiasi evento tragico o eccezionale che possa esperire. Il luogo dove si viene a patti con il proprio dolore non è lo spazio pubblico, frenetico succedersi di eventi, ma la solitudine della propria mente. 

Il concetto è chiaramente esplicitato da Midge Campbell (Scarlett Johansson), attrice teatrale che rivolgendosi al padre di Woodrow Augie Steenbeck (Jason Schwartzman) sostiene: “Siamo due persone catastroficamente ferite che non esprimono il loro dolore perché non vogliamo, è questo che ci lega”.

 

Intrattenendo una relazione scoprono nell’altro una situazione comune al soggetto contemporaneo, entrambi condividono un’angoscia celata a ogni piè sospinto. 

 

 

[Asteroid City: Midge Campbell nel dialogo con Augie]

 

 

L’arte di fingere migliora con l’età 

 

Capita inevitabilmente però che le nostre emozioni sfuggano, di tanto in tanto, alla relegazione cui sono costrette, manifestandosi al di fuori di noi. 

 

Così come ogni altro evento sono attimi che, a poco a poco, affievoliscono nel ricordo collettivo; la vita deve procedere, "The show must go on". 

Questa fuga di emotività si verifica maggiormente nei giovani, ancora inesperti nell’imbrigliarla. 

Wes Anderson è molto lucido nel mostrare come l’uomo si abitui, man mano che avanza con l’età, a nascondere la propria interiorità.

 

I bambini di Asteroid City, ad esempio, mostrano un’ingenuità tale da permettere loro di esprimersi ancora in termini sinceri e irrazionali; in ragione di ciò vediamo le tre figliolette di Augie fingersi streghe durante la sepoltura della madre in un portapranzo.

 

Un altro esempio è rappresentato dalla classe di piccoli studenti in gita nella cittadina: i bambini sono accompagnati da June Douglas (Maya Hawke) la loro giovane maestra che mostra un interesse per un cowboy di nome Montana (Rupert Friend); i piccoli studenti sono comprensibilmente curiosi dopo la discesa dell’alieno e chiedono spiegazioni, non trovando tuttavia la maestra in grado di accontentarli.

Fin qui tutto bene.  

 

Asteroid City tuttavia propone qualcosa di più. 

 

Durante la lezione successiva compare Montana, annunciando che uno degli studenti ha composto una canzone in merito all’evento extraterrestre; un altro alunno ha assemblato un modellino, un altro ancora ha fatto un disegno. L’iniziale ostinazione della maestra, ancorata all’idea di perseguire il programma senza deviazioni, viene subito dissolta quando Montana, prendendole le mani, si lancia con lei in una festosa danza. 

La scena, a primo impatto poco significativa, propone una sottile lettura critica della pedagogia contemporanea.

 

La risposta all’evento alieno è infatti estremamente differente tra la classe e la loro insegnante: laddove quest’ultima tenta di eludere il problema, aggrappandosi goffamente a binari d’insegnamento prestabiliti, i bambini reagiscono artisticamente alla mancanza di spiegazioni. 

Non è forse da qui che nasce l’arte, da una reinterpretazione originale della realtà storica?

 

Wes Anderson riserva tuttavia spazio per la speranza quando fa sì che il cowboy riesca a smuovere qualcosa in June.

La passione presente tra i due le rivela qualcosa che forse aveva dimenticato: la sua umanità e, con essa, la risonanza emotiva che il ruolo sociale di educatrice aveva oscurato. 

 

È questo rinvenimento che le permette di godere genuinamente, insieme al pubblico in sala, di una canzone leggera e divertente.

Purtroppo non c’è sempre un cowboy affascinante pronto a ridestare la nostra empatia e tutti gli studenti hanno ben presente la limitazione dell’originalità a favore di un programma d’insegnamento prestabilito e stantio.

I ragazzi invece, seppur lontani dal grigiore che tinge i genitori, risultano più contenuti; in loro l’apatia si è radicata a sufficienza da garantire l’inserimento nel tessuto sociale, ma non abbastanza da esimerli da sporadiche fughe di emotività. 

 

Un ragazzo che partecipa al concorso ha l’abitudine di proporsi sfide strampalate e pericolose; ciò che lo spettatore intuisce, ossia l’insicurezza fondante questo comportamento, viene da lui ammessa solo a metà pellicola. Interrogato dal padre, il ragazzo si scruta dentro e sembra scoprire per la prima volta la sua paura di non essere visto, di essere effettivamente insignificante, ma non c’è da preoccuparsi per l’imbarazzo che tale ammissione suscita tra i presenti, è solo un momento prima che il ragazzo si lanci nuovamente in un’altra assurda sfida che faccia procedere il corso della storia. 

 

Forse avrà imparato che la sincerità emotiva è controproducente al fine della recita collettiva.

 

Gli adulti d’altro canto, ormai navigati all’interno della corrente sociale, sono meno ingenui.

Mostrano infatti un’apatia quasi imperturbabile, ad eccezione della dottoressa Hickenlooper (Tilda Swinton), scienziata presente nella cittadina; forse a enfatizzare il fatto che sia lo studio lo strumento più indicato per trattenere il fanciullo tanto caro a Giovanni Pascoli; non per caso infatti la vediamo interagire diverse volte con i ragazzi nel corso della pellicola, condivide con loro la sete di conoscenza e i dilemmi esistenziali che da questa derivano.

 

Gli anziani invece compiono un’accennata inversione del processo. 

 

Stanley Zak, il suocero di Augie interpretato da Tom Hanks, si ritrova infatti a giocare con le bambine sulla tomba della figlia, acclimatandosi al gioco da loro creato. È inoltre l’unico a mostrare allo spettatore la sua sofferenza per il lutto: in un dialogo con Augie il suocero mostra i suoi occhi lucidi e fragili, per poi mimare un gesto di strangolamento nei confronti del genero. 

 

Il dolore di Stanley trova spazio nella realtà, ma ancora una volta mutilato, mai più tangibile di un gesto soffocato.  

 

 

[Asteroid City: l'arrivo di Augie e i suoi figli in città]

 

Wes Anderson in linea con Jean-Paul Sartre? 

 

Interessante notare come l’opera di Wes Anderson si allinei a una tradizione comune a diversi pensatori che si sono interrogati sulla finzione sociale.

 

Tra questi è opportuno richiamare innanzitutto Sartre, così come Pirandello, i quali leggevano l’assunzione di ruoli sociali come un meccanismo di stabilizzazione. Se la dimensione ultima dell’uomo è un divenire continuo, il personaggio mostrato in pubblico è un tentativo di fermare questo processo in un’identità unitaria. 

È questo il senso della malafede sartriana, uno sforzo di arginare la propria libertà in un’immutabile uniformità. 

 

Il riconoscersi in una professione, così come in una posizione familiare, sono modi per accantonare la scelta, per ridurre all’unità il ventaglio di possibilità che la vita offre.

Qui l’apatia rientra in scena: l’evento non ha più il potere di smuovere il soggetto, ponendolo davanti a una scelta esistenziale, si limita invece a un’immagine passeggera che nulla lascia a chi ne fa esperienza.

 

Augie, interrogato da suo figlio Woodrow sul motivo per cui scatti fotografie, risponde indifferente: “Sono un fotografo”

 

È un circolo vizioso: la ragione per cui fa ciò che fa risiede nell’immagine precostruita che motiva l’azione stessa. 

Non c’è spazio per il dubbio. 

L’uomo contemporaneo è incapace di frenare a sé gli accadimenti più di quanto un viaggiatore trattenga le immagini che scorrono fuori dal finestrino.

 

È questo il dilemma della nostra epoca: la velocizzazione della storia stride con la nostra incapacità di trattenere riflessivamente gli argomenti.

 

 

[Asteroid City: Augie fotografa Midge Campbell]

 

 

Non dimentichiamoci del capitalismo

 

La lente critica di Wes Anderson non risparmia le logiche di mercato, che rivestono un ruolo preciso all’interno della dimensione di disinteresse collettivo.

 

Per rispondere al blocco totale di notizie imposte dal governo Ricky, un partecipante al concorso accademico, decide insieme ai suoi compagni di comunicare l’accaduto al mondo e con un po’ di astuzia i ragazzi riescono a recapitare la notizia a un giornalino scolastico.

Posto dinanzi al generale in capo, in una scena che risparmia volentieri la serietà che quell’occasione avrebbe richiesto, Ricky si difende dalle accuse sostenendo il diritto alla libertà di stampa e alla pubblica informazione del popolo statunitense e mondiale. 

 

Tuttavia ciò che avviene dopo manca a mio avviso dell’epicità evocata da un’apologia della libertà, riducendosi in breve ad alcuni negozi di souvenir alle porte della cittadina. Il paradosso che emerge in questa vicenda è chiaro.

Il mercato riesce a fagocitare anche il fenomeno più importante: se da un lato le nostre comunità sono incapaci di soffermarsi consapevolmente su ciò che accade, dall’altro il mercato ha interesse a imprimere gli eventi nella memoria collettiva al fine di trarne profitto e così, inevitabilmente li svalorizza. 

 

L’unica forma entro la quale siamo capaci di pensare agli eventi è quella del consumo e del gossip, incalzati dalle strutture di produzione e favoriti dalla nostra insensibilità storica.

 

 

[Mercatini di souvenir alle porte di Asteroid City]

 

Prendiamoci una pausa

 

Sorge spontaneo chiedersi a questo punto se Asteroid City mostri una via d’uscita da quanto discusso fino a questo punto, o se il regista volesse unicamente proporre una visione che, seppur ben delineata, sia manchevole di un’effettiva parte costruttiva. 

 

A fornire una prima risposta, seppur a scopo di conforto, è Schubert Green (Adrien Brody), il regista della commedia. 

 

Augie aveva infatti abbandonato la recita per dirigersi da Schubert, a cui aveva intenzione di rivolgere delle domande riguardo il senso dell’opera. Egli lo conforta: “Tu continua a recitare, stai andando bene”; il primo responso sembra dunque essere l’accettazione. 

Nonostante la sofferenza repressa bisogna procedere. 

D’altronde fino a che si riesce ad andare avanti, un merito andrà, tutto sommato, riconosciuto.

 

Il film tuttavia fa un passo in più rispetto all’accoglienza passiva.

 

Per coglierlo è necessario guardare una delle ultime scene, nella quale si riprende il reclutamento del cast da parte dell’ideatore della commedia Conrad Earp (Edward Norton), già in parte mostrata in precedenza. 

Il drammaturgo chiede a una classe di aspiranti attori teatrali di recitare una scena di sonnambulismo al fine di chiarirsi le idee riguardo a quanto scrivere.

 

Alcune delle ultime inquadrature mostrano gli studenti, tra i quali alcuni dei futuri interpreti di Asteroid City, aprire improvvisamente gli occhi e recitare cantilenando la seguente formula: “Non puoi svegliarti se non ti addormenti”

La frase è ripetuta con insistenza tale, sempre con lo sguardo fisso in macchina, da rendere difficile non pensare che in essa sia espressa una chiave di lettura fondamentale per Asteroid City. 

 

Queste parole esprimono un modo con cui inserirsi consapevolmente nel flusso di eventi, una sorta di prescrizione di distanza. 

 

Così come Edmund Husserl sosteneva che fare filosofia è innanzitutto fare un passo indietro rispetto alla realtà, Wes Anderson propone un’iniziale presa di distanza come parziale soluzione al problema: mentre dormiamo infatti il nostro organismo continua a pompare sangue e a mantenere attivo il respiro, in breve, manteniamo saldamente il nostro allineamento con il divenire.  

Tuttavia la nostra mente compie un viaggio introspettivo che ci estranea momentaneamente dal mondo. 

 

Non ci si può svegliare e quindi, fuor di metafora, inserirsi nella successione temporale in modo consapevole, senza prima essersi dati del tempo per alienarsi riflessivamente dalla realtà. 

 

Non c’è da stupirsi che sia proprio ora il momento proposto per la traslitterazione dal bianco e nero ai colori; è il momento di entrare nella realtà e, sicuri delle proprie considerazioni, di cambiarla.

 

 

[Asteroid City: Schubert Green poco prima del dialogo con Augie]

 

L’amore è la chiave

 

Ciò da solo però non basta e qui arriviamo alla risoluzione finale del dilemma. 

 

Quel che può salvare l’uomo dall’angoscia sarà in ultima analisi l’amore, capace di dare significato agli avvenimenti del mondo che di per sé ne sono privi. Il monito di Nietzsche a produrre da soli il senso del proprio esistere viene qui allargato e reso compatibile con un rapporto salvifico con l’altro.

È l’amore l’unica via per essere veri anche in pubblico, l’unico modo per esprimere l’emotività al di fuori di sé.

 

Il dialogo chiave è quello tra Augie e il personaggio di Margot Robbie, attrice che avrebbe dovuto interpretare la moglie, ma infine esclusa dallo spettacolo.

I due iniziano a recitare il copione di una delle scene tagliate fino a quando lei intima al marito: “Credo che dovrai rimpiazzarmi, o almeno provarci.” 

Quest’invito è la presa di coscienza dell’insignificanza della vita umana scevra da rapporti amorosi. 

 

La moglie, incarnando una visione sovrasensibile (lei era infatti deceduta), raccomanda al marito di non arrendersi all’indifferenza dilagante, ma di provare a vivere con significato. 

 

La conclusione che il regista riserva ai due personaggi con cui iniziamo la storia, Augie e il figlio Woodrow, va proprio in questa direzione: il primo, pur non evadendo mai dalla monotonia che lo accompagna per tutto il film, ritrova nell’indirizzo lasciato da Midge un motivo di speranza.

Quel biglietto è a tutti gli effetti l’unica cosa che porterà con se dopo le vicende di Asteroid City

Woodrow d’altro canto decide di usare la sua invenzione, un marchingegno capace di proiettare immagini sulla superficie lunare, per esprimere il suo amore per Dinah.

 

Una soluzione per certi versi così semplice risulta invece il coronamento perfetto di un film estremamente nichilistico. 

 

Alla replica di chi dovesse sostenere un’eccessiva banalità dell’argomento si potrebbe sottolineare che se fosse così immediato, si osserverebbero facilmente rapporti sociali fruttuosi e genuini nelle comunità attuali, cosa che non è.

D’altronde il Cinema non è il mezzo adatto per proporre tesi argomentate con rigore, ma si presta bene all’obiettivo di toccare il cuore del pubblico.  

 

Asteroid City è una pellicola estremamente articolata, che mostra un affresco quanto più esaustivo dei dilemmi e delle paure della nostra epoca, tuttavia si impone anche l’onere di riportarci alla nostra umanità, invitandoci a coltivare i nostri rapporti inter-soggettivi e a tenderci una mano l’un l’altro, invece di costringere l’emotività dietro le quinte di noi stessi. 

Del resto i dubbi che il progresso scientifico si è trascinato dietro, suo malgrado, pesano su ognuno di noi; la fratellanza di stampo settecentesco può realmente presentarsi come una soluzione sul piano personale. 

 

Erigere barriere sociali, esibendo un’apatia incondizionata sia verso gli altri, che verso gli eventi, altro non fa che produrre incapacità relazionale e incompetenza storica e di conseguenza politica.  

Obiettivo di Asteroid City è squarciare il velo d’indifferenza tessuto a doppio filo con l’uomo contemporaneo, al fine di inserirsi in un progetto di rifondazione della soggettività, che fortifichi la memoria collettiva e incentivi l’empatia. 

Ognuno di noi è calato in un’angosciosa situazione esistenziale da cui sembra difficile emergere da soli. 

 

Rimarrà tuttavia della speranza fino a quando l’uomo sarà in grado di affermare con convinzione: “Io mi sento cambiato!”

 

[articolo a cura di Leonardo Riccelli] 

 

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