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È necessario partire da Luchino Visconti e dall'estetica del marxismo nella versione di György Lukács per preparare il terreno storico-concettuale adatto per accostare il pensiero est-etico di Francesco Rosi.
Non si tratta di ricostruire (chimericamente o - peggio - da antiquario) un milieu materiale e/o ideologico per derivarne in maniera deterministica, come vorrebbe il Karl Marx più maturo, la collocazione di Francesco Rosi, bensì - mediando a partire da (un) oggi, da ciò che l'oggi rende disponibile dello ieri - di disincrostare l'autointerpretazione dello stesso regista e, soprattutto, di costringere alla riflessione su etichette che, come fa ogni etichetta adoperata con troppa disinvoltura, occludono il pensiero.
Certo è impossibile tratteggiare anche solo superficialmente le questioni storiografiche che qui contano; se però la rilevanza teoretica di alcuni aspetti può effettivamente emergere, è solo attraverso una postura autenticamente storica che scarti, appunto, ogni presunta storiografia obiettiva(nte).
Prima di raccogliere tracce alla rinfusa, conviene illuminare alcuni tratti del percorso che ha condotto Francesco Rosi alla prima regia nel 1958, ovvero le collaborazioni come aiuto-regista con Visconti e Raffaello Matarazzo, relative per il primo soprattutto a due pellicole il cui impatto storico-critico - in ambito non solo italiano - è difficilmente sottostimabile: La terra trema e Senso.
[Un frame da La terra trema]
Tratto dal romanzo di Giovanni Verga, La terra trema spegne la fiamma melodrammatica che animava Ossessione e rivela inequivocabilmente la problematicità del concetto di Neorealismo, specie in relazione al sostrato ideologico che ne aveva accompagnato il successo.
Posta la chiara incompatibilità estetica di Luchino Visconti, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, il nodo riguarda in prima battuta la stessa legittimità del termine: sul banco la scansione Realismo/Naturalismo/Verismo e la componente di novità della neonata corrente.
La terra trema si distingue per il suo approccio corale, per la centralità del discorso di classe e per la rimozione, sempre rispetto a Ossessione, di una concezione registica di tipo enfatico, affine - oltre che a diversi presupposti desunti dal dispositivo operistico - al linguaggio cinematografico hollywoodiano.
Manca quella "illusione estetica perfetta della realtà" attribuita da André Bazin a Ladri di biciclette, manca il piano sequenza, mancano le "immagini ottico-sonore" rinvenute da Gilles Deleuze in Germania anno zero, manca il pedinamento zavattinano, mancano erranza e veggenza in senso proprio.
Ciononostante, per il critico marxista Guido Aristarco, La terra trema è il solo film pienamente neorealista nel momento in cui riconosce "la questione […] della classi come motore della storia": il punto non è sostenere un(o pseudo) realismo di superficie intrinsecamente apologetico o, peggio, la degenerazione in un(o pseudo) documentarismo d'accatto, sordo; semmai, esplicitare marxianamente la struttura soggiacente al reale.
In quella (presunta) concrezione estetica del materialismo storico, anche al di là del confronto con le strategie verghiane e senza poter isolare l'inesistente discorsività autonoma del piano formale, conviene allora prestare un occhio all'innestarsi del nostro sguardo in quello della cinepresa, in un modo che comprende a un tempo - seguendo Christian Metz - identificazione cinematografica primaria (con la cinepresa, appunto) e secondaria (con il personaggio, o in qualche modo la diegesi).
A ben vedere lo sguardo della cinepresa, inteso in senso largo, è inoltre duplice: come afferma Jacques Rancière, riunisce il "doppio potere dell'occhio cosciente del regista e dell'occhio inconscio della cinepresa", ora intesa in senso tecnico.
Ne La terra trema, la coralità e il rigore stilistico non sembrano generare una spersonalizzazione, anzi: il sobrio lirismo di Visconti impreziosisce la visione; per un approccio marxista che non voglia impiegare strumentalmente il volontarismo del giovane Marx, il discorso concerne tuttavia la restituzione estetica della scientificità, dell'oggettività.
In breve, due delle innumerevoli questioni toccano quell'innestarsi di sguardi: da un lato, la possibilità di tradurre l'oggettività in un doppio distacco, imponendo un'imprecisata concisione formale adagiata su una rappresentazione mimetica e, insieme, il raffreddamento della temperatura fruitiva, magari richiedendo (à la Pavlov) una spettatorialità attiva; dall'altro, la soppressione della storicità (dello sguardo duplice della cinepresa e/o di quello spettatoriale) all'interno di un orizzonte invece dichiaratamente storicista.
A proposito di Senso, ciò che interessa non è solo la stratificata querelle che ha coinvolto anche Aristarco, che può parlare di un approdo al realismo (critico) proprio davanti a una pellicola intimamente anti-realistica (che non a caso si apre mostrando Il trovatore di Giuseppe Verdi) e non-proletaria, ma soprattutto, in relazione a questo supposto realismo, la dimensione melodrammatica non solo operistica.
Per Visconti fare del realismo significa "approfondire moti, sentimenti e problemi" di una qualsiasi classe in una qualsiasi epoca, senza che "il soggetto possa imporre lo stile"; di contro, per Luigi Chiarini, avversario dialettico di Aristarco, nella "scelta del soggetto […] sono [invece, ndr] presenti i modi della rappresentazione" e il Neorealismo, da cui esclude Senso, risulta intrinsecamente (!) distante "da ogni psicologismo più o meno melodrammatico".
Connessa all'identificazione secondaria, la componente melodrammatica poggia su una base psicologica - soprattutto nella chiave individualistico-soggettivistica tipica del Romanticismo, richiamato dalla categoria di "realismo romantico" attribuita al film - e può diventare, in Visconti, perno di un realismo non-cronachistico che Aristarco riconosce pur partendo dal materialismo anti-soggettivistico di Marx (avvicinandosi allo stesso tempo alla categoria gramsciana di nazionalpopolare: la spettatorialità guadagna terreno).
Osservato alla luce di una parabola critica e ricettiva ben diversa, il discorso sul melodramma, lo psicologismo e la fruizione intreccia anche il cosiddetto Neorealismo popolare di Raffaello Matarazzo, del quale è essenziale richiamare, oltre al successo di pubblico, lo schematismo narrativo da feuilleton che filtra e potenzia - secondo un'ottica anti-realistica talvolta addirittura tendente all'astrazione - quei sentimenti piccolo-borghesi la cui conflittualità (soprattutto erotica) gioca un ruolo di primo piano nelle varie istituzioni sociali.
[Un frame da Senso]
Tenendo fermo questo insieme di premesse arriviamo al 1958 e a La sfida, esordio alla regia di Francesco Rosi, e vediamo di seguire cronologicamente, cominciando da qui, solo le strade già tracciate.
Trame e notazioni strettamente formali possono essere evitate: con un fuoco selettivo miratissimo si ricerca, tramite interpretazioni e autointerpretazioni, quella stessa spinta decostruttiva - e insieme (ri)costruttiva - che sarà sottolineata direttamente in riferimento a Il caso Mattei, termine di un cammino che si interessa ai principi (estetici) nella consapevolezza che ciò è principiale è originario, e da un origine si parte.
Qualche parola di Rosi pronunciata nel 1959 a proposito del suo primo lungometraggio:
"il pregio maggiore era un certo schematismo nei personaggi. […]
Quel che chiamavano cinismo, freddezza, per me era una certa obiettività nel vedere certe cose dal di dentro. Che è quello che poi Moravia ha definito naturalismo: cioè la rappresentazione dei fatti senza un'evidente presa di posizione dell'autore.
Secondo me, però, la presa di posizione c'è fin da quando uno sceglie un certo argomento, sceglie la condotta dei suoi personaggi e li fa agire. […]
Io non mi sono appassionato alle loro vicende".
Se aggiungiamo la maiuscola al concetto impiegato da Alberto Moravia, giungiamo alle basi di quel Verismo ripreso da La terra trama: il groviglio non è indifferente, e di Visconti torna una caratteristica che mette in crisi ogni realismo (e documentarismo: si veda in merito l'approfondimento sul film etnografico) ingenuo, quel geometrismo - certo non coincidente con quello matarazziano - che informa tanto le traiettorie narrative quanto la gestione della messinscena.
Ciò è significativo soprattutto considerando quel distacco (estetico, dunque emotivo) che gli spettatori si trovano a dover calzare, potendo evadere di rado: il di dentro, che in qualche modo è anche nostro, non si fonda su un'adesione nei termini consueti.
Incollati a un criminale che si scontra con altri criminali seguendo logiche altrettanto criminose, non possiamo isolare la situazione malavitosa e trasfigurarla in microcosmo moralmente esecrabile, ma in un modo tanto generalizzato da permettere discriminazione interne che ricomporrebbero dinamiche strutturalmente identiche a quelle del macrocosmo, dalla società tutta.
Il protagonista non è il loser di un noir a cui possiamo romanticamente affezionarci, né un proto-Tony Montana pronto alla scalata, né una funzione narrativa che osserviamo a distanza: è un individuo calato in un determinato sistema di valori in un determinato contesto, senza che l'uno o l'altro lo determinino univocamente e, a un tempo, senza possibilità di trascenderli interamente, di sradicarsi.
L'attenzione è rivolta alla condotta, non alla psicologia (astratta, estratta), e in questa misura si punta alla dimensione sociale secondo un punto di vista - non dettato solo dal soggetto - tendente al materialismo, suggerendo il riverbero concreto di azioni altrettanto concrete.
Parzialmente difforme è la prospettiva che orienta il lungometraggio successivo, I magliari.
Meno riuscita nonostante la maggior ampiezza tematica, questa pellicola si focalizza ancora sul sottobosco delinquenziale introducendo però uno sfalsamento e spostandosi tra gli italiani emigrati in Germania.
La dipendenza nei confronti dei modelli statunitensi si intensifica in riferimento al noir e al melò sia sul piano figurativo sia quello narrativo, e il loser col quale possiamo empatizzare in maniera abbastanza tradizionale, senza che peraltro egli sia (già) un truffatore, modifica chiaramente la nostra vicinanza rispetto alle vicende.
E in un valzer di sentimenti che s'interrompe in un finale sospeso tra le superfici levigate di Josef von Sternberg e le atmosfere del realismo poetico - altra etichetta - à la Jean Renoir (cineasta con cui si è formato proprio Visconti), la complessità psicologica riacquista preminenza.
Il monologo così estraneo al flusso drammaturgico con cui un istrionico Alberto Sordi si congeda, pezzo di bravura che lo mette indirettamente a nudo di fronte al pubblico, è il culmine di un simile recupero, attivo in un quadro che si allontana dal precedente schematismo attraverso quella paradossale verosimiglianza tutta cinematografica che si fonda, più che sul reale o sul mero contenuto, sulla convenzionalità linguistica.
[Un frame da I magliari]
La stessa convenzionalità linguistica sarà però polverizzata tre anni più tardi con Salvatore Giuliano, probabilmente la risultanza più limpida dell'estetica rosiana, esempio sommo del paradigma che Anton Giulio Mancino ha definito "politico-indiziario".
Per il suo assetto strutturale, che fa intravedere il nucleo del nostro discorso, vale la pena considerare contemporaneamente anche Il caso Mattei del 1972 e, scelta motivata solo dalla teleologia che guida il presente contributo, accantonare Le mani sulla città, opera la cui didascalia iniziale ("I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce") già apre un mondo e il cui impianto, con Francesco Rosi che parla di "teorema geometrico" e di soppressione della psicologia a favore del simbolico, rassomiglia più un film a tesi.
Che cosa accomuna Salvatore Giuliano e Il caso Mattei?
Anzitutto entrambe le opere eleggono come (non-)protagonista un individuo immerso in una rete sconfinata di relazioni (di potere), e il primo nega radicalmente (nonostante il titolo, e riducendo Giuliano al suo cappotto chiaro) quella tensione biografica recuperata solo parzialmente - anche tramite la riconoscibilità di Gian Maria Volonté - dal secondo, il quale però, non a caso, espunge il nome proprio e allarga fin da subito il campo dei rimandi.
Soprattutto, entrambi cominciano mostrando la morte di questi (in)dividui: come il finale di un film, la morte illumina e dà forma alla vita non solo a posteriori, per chi non muore.
Davanti al fatto compiuto, corpo esanime o rottami di aereo, è lo stesso concetto di fattualità a sgretolarsi, o - meglio - il significato inerente alla sua lettura abituale.
Come quel fatto si è compiuto (così) e perché quel fatto si è compiuto (così) sono domande pressanti presto soffocate dal burocratese - affare sempre linguistico, e metaforico - che si preoccupa di correggere "il viso [di Giuliano, ndr] poggia a terra con la guancia sinistra" con "il viso poggia a terra sulla guancia sinistra".
Il come interessa tuttavia anche il nostro vedere quelle morti.
In Salvatore Giuliano la prima inquadratura è, nell'esatto momento in cui appare, un'oggettiva irreale, una plongée assai marcata; ne Il caso Mattei risulta invece subito compromessa la possibilità di riconoscere una soggettiva, nel movimento e nella posizione ad altezza uomo della macchina a mano, a causa della frammentazione imposta dal montaggio godardiano.
In Salvatore Giuliano, poco dopo, viene obliquamente autorizzata la riconduzione dell'oggettiva irreale (fissa!) alla gente raggruppatasi sui balconi per osservare il cadavere del bandito; ne Il caso Mattei, poco dopo, la voce acusmatica - cioè di cui non vediamo la fonte - di un testimone dell'incidente riunisce precariamente le schegge che invece stiamo vedendo, esplicitando la nostra condizione di testimoni fuori tempo massimo.
Mediante quest'ambigua polifonia, Francesco Rosi incrina istantaneamente la consueta linearità (estetica, non solo narrativa) del film a tesi: può senza dubbio suggerire delle tesi e adottare consapevolmente un approccio ideologico, ma solo tramite percorsi ipotetici che, lungi dal sottrarsi alla verificabilità materiale, mirano primariamente a sfaldare davanti ai nostri occhi verità strumentalmente statiche.
La posta in gioco è un'assunzione di responsabilità fondamentalmente interpretativa, segnica, indiziaria (se l'indizio, da index, è per Treccani "ciò che con la sua presenza può indicare l'esistenza" di altro); e nel momento in cui si tuffa nel tessuto-textus del reale, Rosi risponde con discontinuità temporali, molteplicità di voci fuori campo, esposizione della documentalità (termine del filosofo Maurizio Ferraris) che ne favoriscono anche la paradossale, vista la natura a-centrica dei film, apparizione fisica ne Il caso Mattei.
Da tutto ciò derivano due capisaldi in cui la verità e la realtà sfuggono costantemente: "abbiamo […] l'impressione di mettere le mani su qualcosa di concreto che poi svanisce" dicono alcuni giornalisti al Rosi-che-interpreta-Rosi.
[Un frame da Salvatore Giuliano]
Nella ragionatissima scansione spaziale e temporale di Salvatore Giuliano, rifiutato alla Mostra di Venezia a causa del suo presunto documentarismo, e nel denso anti-realismo funebre de Il caso Mattei (che sorprendentemente condivide qualcosa con le produzioni televisive coeve di Roberto Rossellini, soprattutto Blaise Pascal e Cartesio, e Rainer Werner Fassbinder, segnatamente quel Il mondo sul filo che sarebbe uscito un anno più tardi) non si insinua tuttavia il germe della decostruzione declinata in maniera postmoderna, che avversa comprensibilmente le Verità ma avalla pericolosamente il dominio dell'arbitrio soggettivistico.
Se il realismo - etichetta tra le altre - non può che essere un atteggiamento, alieno a codificazioni contenutistiche e/o formali, la via di Francesco Rosi si sostanzia in una decostruzione filo-illuministica e anti-autoritaria che ha semmai le sembianze di un intreccio (momentaneamente?) irriducibile di prospettive: non è il realismo critico aristarchiano-viscontiano che insegue il livello strutturale, ma un realismo semiotico, un realismo indiziario che può ancora essere materialista in chiave marxista, se si vuole, proprio riflettendo sulle radici hegeliane di quel pensiero.
A latere: la radice del discorso, qui impossibile da analizzare, si ritrova nei concetti di verità e realtà che il filosofo pragmatista Charles Sanders Peirce, ostile a ogni forma di conformismo sociale, intende in senso pubblico e colloca nel futuro, non nel presente.
Bando però alle etichette come realismo semiotico se devono diventare pretesti tassonomici o irrigidirsi: la postura che qui reputo l'unica auspicabile, perché quello che si vuole intendere con realismo è una postura doppia, è rispondere est-eticamente e pensare est-eticamente con quello che scorre su uno schermo.
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