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Parthenope - Recensione: come un poetico soffio di vita

Parthenope è un inno alla vita, alle sue tante difficoltà e ai momenti belli, un dono per gli spettatori

Parthenope: chiudete gli occhi e provate a immaginare come potrebbe essere raccontata da un film la vostra vita, riapriteli e dite cosa avete visto.

 

Sembra che per il suo decimo lungometraggio Paolo Sorrentino abbia fatto un esercizio simile per cercare di narrare la vita di una donna dalla sua adolescenza agli anni maturi.

 

 

 

Parthenope racconta la storia dell’omonima protagonista dal 1950 a oggi e, come la vita, la sua vicenda ha tutto ciò che ci rende esseri umani: noia, amore, morte, sesso, amicizia, allegria, tristezza, dove dal nulla possono esplodere momenti bellissimi, ma anche tragici. 

 

Può sembrare difficile parlare di Parthenope, perché è un film denso e smisurato che racchiude molte realtà al suo interno e le mescola senza soluzione di continuità in un vortice che rapisce lo spettatore senza farlo respirare.

 

Userò un aggettivo banale, ma Sorrentino ha realizzato un film a mio avviso bellissimo con alcune scene incantevoli - si veda il ballo a tre a Capri su Era già tutto previsto di Riccardo Cocciante - che esaltano lo sguardo sempre estetico e puntiglioso del regista.

 

 

[Gary Oldman in una scena di Parthenope]

 

 

Parthenope non è unicamente un film su Napoli, ma un aggiornamento al femminile del Jep Gambardella de La grande bellezza: se lui "aveva il potere di far fallire le feste" Parthenope è la festa stessa e l’invitata da avere: entrambi sono alla ricerca della bellezza e per trovarla devono necessariamente passare per la bruttezza.

 

Lei è sia sedotta sia seduttrice e con questo gioca per tutta la sua vita alla ricerca di una pace con sé stessa che forse non troverà mai, così come Jep.

Roma e Napoli come disvelamento della dicotomia tra basso e alto, bello e brutto.

 

Di questo ultimo aspetto è colmo Parthenope: quando si arriva a vedere l’incanto della vita subito dopo arriva il brutto, non estetico e ideale, ma reale come i vicoli del centro di Napoli e suoi tanti (troppi) abitanti, figli mostruosamente nascosti, prelati che godono tra le segrete, giovani che non riescono a superare il male di vivere e decidono di andarsene, dive deturpate dal proprio ego. 

A prevalere però è la bellezza di cui è impregnato il film a partire dai suoi attori, dalla natura mostrata, dalla musica diegetica ed extradiegetica.

 

Una ricerca verso essa che per Parthenope simbolicamente si ferma e, volutamente, non viene mostrata in età adulta quando ormai (forse) si è già rassegnati ad averla perduta.

 

 

[Celeste Dalla Porta e Daniele Rienzo in Parthenope]

 

Così come il mare da cui è "nata" Parthenope non si è mai fermata, sfiorando anche il grottesco e ciò che fa paura, facendosi toccare anche fisicamente dalla paura e dal grottesco e nuovamente come la vita lei è stata leggera, triste, determinata, ingarbugliata, seguita e abbandonata, sfortunata ed eccessiva.

Anche se tutto ciò "è durato poco".

 

Paolo Sorrentino non ha bisogno di essere difeso né denigrato, ma deve essere criticato nel più pieno senso di ciò che vuol dire farlo: metterlo in crisi, analizzarlo per capire che alla fine è semplicemente un sognatore che ama ciò che fa e lo dona a noi mettendosi a nudo.

 

Non possiamo che ringraziarlo ancora.

 

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1 commento

Giacomo Camilli

8 giorni fa

Corretta l'analogia con La grande bellezza, in particolare il finale molto simile, ma non posso negare che È stata la mano di Dio era per me un film molto più riuscito che faceva vedere qualcosa di diverso dal solito Sorrentino, mentre qui mi sembra si torni un po' nella sua comfort zone.

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