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Definire cos'è il Cinema - ma in realtà è un quesito estendibile a molteplici forme artistiche - e come si colloca nella realtà contemporanea non è banale.
In particolare è bene ragionare come si colloca tra le istanze della società, il mutualismo tra la realtà percepita e quella immaginata. Il Cinema può essere uno strumento educativo, ma è anche assorbente, impara dalla realtà circostante, rielabora, ricuce.
Oggi la realtà di qualsiasi individuo che non decida di trascorrere la vita in un eremo è sancita da una continua stimolazione sensoriale, fino a venirne sopraffatto. I social network si innestano nelle nostre vite, il cellulare è prolungamento del corpo, lo schermo filtra e amplifica e si adatta in base all'organismo che lo maneggia, alla sua età e alla sua classe sociale.
Il Cinema lavora per immagini, è "Verità 24 volte al secondo" (Jean-Luc Godard), ma è anche "Specchio dipinto" (Ettore Scola): imparare a leggere i film è avere gli strumenti per comprendere la gestualità dei politici nei talk show, a discernere le fake news nei reel, a non lasciarsi ammaliare dai filtri di TikTok o dall'attivismo performativo di molti influencer.
In parole povere: imparare a capire come il messaggio su più livelli - esplicito e sottotesto - si traduce in immagini, suoni e parole.
In questi giorni, a causa degli orribili fatti di cronaca, nel nostro Paese è emersa la necessità di parlare dei femminicidi e della questione femminile in nuovi termini, che rifuggono la passività e il vittimismo.
Lo slogan della manifestazione del 25 novembre contro la violenza sulle donne è una poesia scritta nel 2011 dall’attivista peruviana Cristina Torres Cáceres, ovvero Se domani non torno, la cui ultima strofa recita:
"Mamma, non piangere le mie ceneri
Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto
Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima".
La parola chiave è "distruggere".
Il salotto televisivo e giornalistico - purtroppo - pare turbato da queste parole, la politica risponde con la canonica imposizione del minuto di silenzio.
Noi donne però non ci stiamo più: la distruzione non è tabù, la distruzione è decostruzione prima e ricostruzione poi.
[BoJack Horseman ci viene in aiuto per descrivere la situazione dei talk show quando si parla di discriminazione di genere, femminicidio e in generale di patriarcato]
Questa rabbia pare generare sorpresa - o addirittura deliri conservatori - ma non dovrebbe; basti pensare al successo strepitoso al botteghino di C'è ancora domani, esordio alla regia di Paola Cortellesi, distribuito nelle nostre sale con un tempismo quasi profetico.
O basta guardare alle correnti - oggi è più appropriato parlare di trend - giovanili.
Un errore che per tradizione fanno gli adulti è quello di non prestare attenzione ai moti che animano i ragazzi e sorprendersi quando le loro istanze diventano parte integrante del dibattito pubblico.
I sintomi di questa rabbia sono già leggibili da molto tempo sui social network e non sono affatto circoscritti ai confini nazionali: il trend della cosiddetta Feminine Rage non è spuntato come un fungo a bordo strada dopo una notte di copiosa pioggia.
[Un meme sulla Feminine Rage e un frame del film Pearl: ci torneremo dopo]
Da tempo si possono vedere reel e meme che rielaborano un'iconografia per tradizione femminile veicolare messaggi di indipendenza, sorellanza e rabbia.
Le donne si riappropriano di ciò che è stereotipicamente femminile come atto politico: il rosa, il makeup, i pizzi e i merletti, la profumeria non sono più vezzi superficiali per bambine viziate.
Emerge l'estetica coquette, tra collane di perle e scarpe Mary Jane, e il barbiecore, nella sua esplosione di rosa: ci si veste e si acconcia per le altre donne, ovvero per il cosiddetto female gaze, e lo sguardo maschile viene relegato a suppellettile, quando non a elemento dannoso.
Alcuni brand, tipo Selkie, hanno fatto del female gaze e della bodypositivity un marchio di fabbrica e il segreto del loro successo. Victoria's Secret, i cui angeli hanno fatto sognare milioni di uomini, ci ha provato ma è perita sotto il peso di questo claudicante e ipocrita tentativo di cambiare prospettiva.
Le ragazze ascoltano Lana Del Rey, Melanie Martinez, Marina and the Diamonds, Mitski: gli idoli delle adolescenti pseudo-alternative che frequentavano Tumblr all'inizio degli anni '10 - io ero tra quelle - sono apice della cultura pop.
Persino inserire nelle proprie playlist la smielata-banale-ripetitiva Taylor Swift non è più da persone basic, ma è atto politico: se agli uomini è concesso bearsi di videogiochi sportivi sempre uguali a se stessi e canzoni rock dai riff ripetitivi su machi ubriachi che caricano groupies sul furgoncino, senza che ci siano ripercussioni della loro immagine in società, allora la femminilità romantica e sfigata di Taylor Swift non solo non è giudicabile, ma è un atto di resistenza.
Per un periodo su TikTok alle notizie riguardanti ciò che concerneva la piramide dello stupro e del possesso era associato uno spezzone del brano Savages di Marina and the Diamonds, che canta:
"I'm not afraid of God, I am afraid of man", "Non ho paura di Dio, ho paura dell'uomo".
La canzone del 2015 si riferisce all'umanità, ma è stata ripescata in questo preciso contesto.
Nell'ultimo album pubblicato quest'anno Lana Del Rey in A&W canta esplicitamente:
"I mean look at my hair / Look at the length of it and the shape of my body / If I told you that I was raped / Do you really think that anybody would think I didn't ask for it? / I didn't ask for it."
"Voglio dire, guarda i miei capelli / Guarda la loro lunghezza e la forma del mio corpo / Se ti dicessi che sono stata stuprata / Credi davvero che qualcuno penserebbe che non me la sono cercata? / Non me la sono cercata."
[La giovanissima Billie Eilish ci viene incontro con una catartica canzone sulla fine di una relazione malsana con un uomo manipolatore]
Le donne giocano ad Animal Crossing e condividono meme con Hello Kitty e i personaggi Sanrio, per esorcizzare la depressione, il mal di vivere nella società e il disagio nell'interagire con gli uomini.
In un contesto eteronormato la femminilità non è elemento passivo e di accoglienza, la carineria non è esente dalla rabbia, piuttosto la veicola. Le donne si tatuano Medusa e postano il risultato sui social.
La colpa della bellissima fanciulla della mitologia greca era quella di aver attirato l'attenzione di Poseidone che si sarebbe approfittato di lei nel tempio sacro di Atena. Ci sono diverse versioni del mito, ma tutte finiscono con la trasformazione della donna in un mostro terrificante capace di pietrificare chiunque la guardi con il solo sguardo.
Medusa diventa il simbolo della colpevolizzazione della vittima: le donne si riappropriano di un altro simbolo negativo, violento, terrificante della femminilità per veicolare un messaggio di ribellione.
Le donne condividono l'opera di Artemisia Gentileschi, in particolare Giuditta che decapita Oloferne; la pittrice, una delle più importanti della scuola caravaggesca, eseguì il dipinto dopo essere stata stuprata.
Feminine Rage direttamente dal Seicento.
[Giuditta che decapita Oloferne]
Le donne rileggono Sylvia Plath, talento letterario soffocato dalla malattia mentale prima e dal marito poi, morta a trent'anni con la testa nel forno a gas; leggono delle donne istrioniche di Ottessa Moshfegh, l'opera femminile e femminista di Elena Ferrante e Mieko Kawakami.
I loro nomi non sono i più popolari del BookTok - il target in prevalenza adolescenziale prevede un esubero di fantasy, romance e fantasy romance - ma hanno un loro spazio e nemmeno così ridotto.
È la stanza (culturale) tutta per loro - parafrasando Virginia Woolf - in cui le donne rifuggono dalla realtà, ma cercano anche di interpretarla in una comfort zone, certe che tra le pagine di questa letteratura non ci sia spazio per il vittimismo, l'idealizzazione e la sessualizzazione.
Di certo non ci si può esimere dall'osservare sotto la lente della cultura pop la Feminine Rage nel Cinema: rilettura dei classici e nuovi cult. L’obiettivo non è solo quello di capire come alcuni film si siano insinuati nella cultura pop, ma anche come si interfaccia l’autorialità con i sentimenti femminili, anche negativi.
Un film funzionale per descrivere il fenomeno posizione – sia per la scrittura che per le scelte estetiche - è Una donna promettente di Emerald Fennell.
Il film racconta di Cassandra (Carey Mulligan), un'eroina del quotidiano che di mattina lavora in una caffetteria e di sera indossa abiti succinti, finge di essere ubriaca e testa le reazioni degli uomini - soprattutto dei cosiddetti "bravi ragazzi" - alla sua incoscienza.
Un passato di violenze le ha impedito di laurearsi in medicina nonostante il suo talento e ha sete di vendetta.
L'estetica del personaggio di Cassandra ricorda quello di Harley Quinn, la palette di colori pastello domina la scena e ammicca a un certo Cinema indipendente statunitense. Nella colonna sonora c'è persino una cover di Toxic di Britney Spears, scelta non casuale visti e considerati i molteplici modi in cui la cantante è stata sessualizzata fin da ragazzina e sfruttata da tutti gli uomini che l'hanno circondata.
Britney Spears è considerabile l'ultimo capro espiatorio sul palcoscenico delle babystar, il punto di non ritorno oltre il quale la cultura pop non ha più potuto cannibalizzare con così tanta spudoratezza il corpo di giovani donne.
Cassandra è pronta a immolare il proprio corpo per la causa: la sua rabbia non urla, è premeditata.
[Carey Mulligan in Una donna promettente]
Trasliamo nel tempo e nello spazio.
Siamo nella Corea occupata dai giapponesi negli anni '30: Mademoiselle, il thriller storico firmato Park Chan-wook, racconta le vicende di Lady Hideko (Kim Min-hee), una ricca ereditiera imprigionata, e della domestica Sook-hee(Kim Tae-ri).
È inutile tergiversare sulla trama con il rischio di rivelare il meccanismo prezioso di colpi di scena e rivelazioni su cui si costruisce il film.
Mentre la trama procede orizzontale il film risale anche la piramide dell'oppressione, rivelandosi un acuto trattato sull'intersezionalità della violenza: quella degli uomini - tutti arrivisti ed erotomani, senza possibilità di redenzione - sulle donne, quella delle classi più agiate sulle meno abbienti, quella del Paese colonizzatore (Giappone) su quello colonizzato (Corea), persino quella di una società eteronormata sulle minoranze omosessuali.
Comunque la si voglia vedere si tratta di dinamiche di potere che hanno origine nella prevaricazione di un forte - che è quasi sempre maschio - e di un debole - che è quasi sempre femmina.
Lady Hideko e Sook-hee però non sono mai vittime: riescono a trovare un modo in cui insinuarsi, canali in cui incanalare la rabbia e lasciarla depositare, fino al momento propizio per esplodere con la violenza tipica della filmografia del Maestro di Seul.
[Kim Min-hee in Mademoiselle]
Ancora una volta due culture che si incontrano: Saint Omer di Alice Diop è un dramma processuale ispirato a un caso di cronaca e racconta il processo per infanticidio condotto nei confronti di Laurence (Guslagie Malanda), una giovane madre di origine senegalese.
Il dramma processuale scorre sotto gli occhi di Rama (Kayije Kagame), scrittrice e professionista di origine africana, incinta, sguardo della regista sulla realtà, inquadratura dello spettatore al di là dello schermo cinematografico.
Sul banco degli imputati non c’è il raptus di una donna in preda alla depressione post-partum, ma l’eredità della colpa che si traduce nell’inconciliabilità della tragedia. Ed è alla tragedia greca che guarda Alice Diop, in particolare a Medea; è la tragedia che scorre sullo schermo del laptop di Rama o, meglio, la trasposizione cinematografica di Pier Paolo Pasolini.
Medea, abbandonata da Giasone dopo averlo aiutato a conquistare il Vello d’oro, viene abbandonata e uccide i loro figli. Il mito traduce la realtà in schemi, lo decontestualizza e si reitera nel tempo, confluisce nel Cinema e nell’arte e si fa nuova realtà.
Laurence è donna, giovane, emigrata, il suo Giasone è uomo, anziano, francese. Sul banco degli imputati la stregoneria e la secolarizzazione.
È una rabbia atavica e ineluttabile.
[Guslagie Malanda in Saint Omer]
Il genere però in cui la cosiddetta Feminine Rage trova terreno fertile è l'horror.
Le ragioni vanno ricercate nello stesso terreno dei tatuaggi di Medusa sui social network, ovvero l'abbattimento di un simulacro e la riappropriazione di un simbolo per tradizione negativo, come quello del mostro - strega, fantasma, succube, yuki-onna, sirene, leanan sídhe - per la rappresentazione di una femminilità che rifiuta la dicotomia prostituta/madre, Maddalena/Maria, ma anche Penelope/Circe.
La donna può uccidere, il suo viso si può accartocciare in un'espressione contrita e disgustata, sul suo volto possono emergere rughe d'espressione.
Le vergini suicide di Sofia Coppola si sarebbero arrabbiate e avrebbero bruciato tutto se avessero avuto dizionari per comprendere le radici del proprio disagio e luoghi in cui lasciar detonare il proprio dolore: invece sono rimaste ingabbiare dalla loro bellezza, dalla loro grazia e dal loro ruolo.
Uno dei film emblematici di questa corrente non è di certo tra le migliori opere prodotte negli ultimi vent'anni, tutt'altro, ma è appropriato per il cappello introduttivo di questa disamina: Jennifer's body (2009), film di Karyn Kusama, è un horror ambientato in un liceo, dove la protagonista assatanata di sangue maschile dopo essere stata immolata per un rituale satanico è interpretata da Megan Fox.
L'attrice all'epoca era uno dei sogni erotici di tutti gli uomini del mondo, complici anche il suo ruolo in Transformers, in cui le inquadrature indugiano morbose sul suo corpo statuario: per questa ragione interpretare un ruolo vendicativo, misandrico e con implicazioni saffiche è stato letto in seguito come un atto di rivendicazione della propria individualità.
Il film come simbolo in questo caso trascende le sue qualità intrinseche, che a mio avviso sono ben poche.
Thomasin (Anya Taylor-Joy) in The Vvitch di Robert Eggers sfugge alla sua famiglia puritana grazie alla dimensione del magico e dell’orrore, nella stregoneria.
Ancora Anya Taylor-Joy è Sandie in Ultima notte a Soho di Edgar Wright, il fantasma di una promessa del mondo dello spettacolo illusa e gettata dalla bramosia maschile nel tunnel della prostituzione; sarà proprio l’interazione – incontri, sovrapposizioni, contrasti, risoluzioni - con l’aspirante showgirl a essere un step necessario alla crescita sentimentale e professionale di Eloise (Thomasin MacKenzie).
Ancora una volta due generazioni di donne che si incontrano in una realtà parallela, che nel reale ha i suoi orrori.
[Anya Taylor-Joy in Ultima notte a Soho]
Nel 2021 Titane di Julia Ducournau vinse la Palma D’oro, un film che guarda al body horror del passato con uno sguardo contemporaneo e pesca a piene mani dal cyberfemminismo teorizzato da Donna Haraway: la misteriosa Adrien (Agathe Rousselle) dà vita a una nuova umanità, che non solo interagisce e amoreggia con la macchina, ma è umana e macchina essa stessa.
In Adrien convivono gli opposti e nell’ambiguità si abbatte lo stereotipo: l’ultraviolenza e l’erotismo, l’uomo e la donna, l’artificialità e la natura.
Nella decostruzione è possibile l’autodeterminazione. In questo contesto le forze dell’ordine, guardiani dell’autorità gerarchica, non possono che risultare figure miopi e ridicolizzate, sulla soglia del parodistico.
In Raw, lungometraggio d’esordio di Ducournau, una ragazza vegetariana al primo anno di veterinaria diventa cannibale: un coming of age atipico che passa tramite la dissezione del corpo.
[La piccola Adrien in Titane]
In Midsommar Dani (Florence Pugh) parte per la Svezia durante la festa di mezza estate con il suo fidanzato Christian e i suoi amici sbruffoni.
Lei è schiva, defilata, reduce da un lutto, accetta passiva le microaggressioni che il suo partner e i suoi amici operano a suo danno. Maschi, statunitensi, sbruffoni e ricchi.
Colonizzatori.
Il villaggio in cui soggiornano però è governato dalle donne: c’è una setta e un sacrificio umano, come in molti horror folkloristici, ma è tutto bagnato dalla luce di un sole accecante e impreziosito da corone di fiori.
Christian viene violentato e ucciso: solo così Dani può liberarsi dal giogo della coppia, cellula della società, primo luogo in cui vengono metabolizzate - e banalizzate - le forme di violenza quotidiane.
Le sovrastrutture della società “civilizzata” sono un impedimento per l’elaborazione del suo trauma.
Durante il sacrificio le donne del villaggio empatizzano così tanto con il dolore di Dani da assorbirne lo spettro di emozioni: rabbia, odio, tristezza, disperazione. Le loro urla si fondono alla danza, la sorellanza si muove come un’unica creatura.
[Florence Pugh in Midsommar]
Il volto simbolo del fenomeno pop della Feminine Rage è quello di Mia Goth in Pearl (2022), prequel di X: A Sexy Horror Story di Ti West.
Se il primo film prende a piene mani dall’immaginario slasher degli anni ’80, per indagare le correlazioni tra horror e pornografia, il prequel guarda ai patinati e luminosi anni d’oro del Cinema hollywoodiano.
Il film mostra la storia straziante di una donna con tendenze violente che viene sottovalutata e mortificata; Mia Goth diventa quindi l’antieroina inconsapevolmente femminista di una società mostruosa, puritana e soffocante.
Pearl - la protagonista che dà nome al film - giovane figlia di immigrati tedeschi in Texas, vive sotto lo scacco del padre infermo e della madre dispotica, con il marito in Europa a causa della guerra; accudisce il bestiame in salopette e fantastica su una gloriosa evasione. Indossa i vestiti della madre davanti allo specchio e sogna di diventare una celebre ballerina.
Gli unici spettatori delle sue performance sono gli animali della fattoria, ognuno dei quali ha un nome.
Quando le si presenterà l’occasione però le cose non andranno per il verso giusto e i suoi sogni si schianteranno contro la crudezza della realtà, nella fragilità della sua mente.
Perde se stessa tra le fronde delle sue insicurezze. Pearl è Dorothy del Mago di Oz caduta in una pozza di ultraviolenza, armata di forcone e ascia.
Pearl è la donna che si sente sbagliata, ha paura che tutti se ne rendano conto e non trova altro conforto se non un escapismo, ma anche il Cinema che lei sogna è quello dei film, non quello del dietro le quinte.
La realtà non le piace, il sogno americano - in particolare quando le protagoniste sono donne - si frantuma nel suo triste e inquietante sorriso stampato e nel suo sguardo perso.
[Mia Goth in Pearl]
Il tema si potrebbe espandere ancora di più: si potrebbe scavare nel passato, rileggere opere del secolo scorso, contestualizzarle, leggere le attinenze con il presente perché i grandi artisti sono sempre anche un po’ profetici.
L’invito però è sempre lo stesso: non guardare i film, ma assorbire i film.
Studiarli, ma non essere soggiogati dai manuali, esercitare il pensiero critico e trovare dei ganci nella realtà. Non basta di certo il Cinema per poter parlare di femminismo a 360 gradi: in questo articolo non è di certo quello l’obiettivo.
L’arte però è necessaria per capire se stessi e il presente, il passato e a volte anche il futuro.
La rabbia di Pearl e di Dani è la nostra rabbia: in sintesi, questo è quanto.
CineFacts non ha editori, nessuno ci dice cosa dobbiamo scrivere né soprattutto come dobbiamo scrivere: siamo indipendenti e vogliamo continuare ad esserlo, ma per farlo sempre meglio abbiamo bisogno anche di te!
2 commenti
AlexCastifer
12 mesi fa
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Giacomo Camilli
12 mesi fa
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