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Grand Tour - Recensione: perdersi e ritrovarsi nel paradosso delle immagini

Il nuovo film di Miguel Gomes esplora il rapporto tra Cinema e mondo attraverso la storia di due insoliti promessi sposi intrappolati tra le immagini del presente e quelle di un passato simulato

Grand Tour di Miguel Gomes è il film vincitore del Premio per la Migliore Regia a Cannes 2024 ed è stato scelto per rappresentare il Portogallo ai Premi Oscar nella categoria Miglior Film Internazionale; arrivato nelle sale italiane grazie alla distribuzione di Lucky Red. 

 

Miguel Gomes è un autore estremamente riflessivo e tuttavia mai chiuso in sé stesso: il suo approccio delicato è spesso teso alla meditazione, ma non resta mai intrappolato nell'introversione pensosa o nel giudizio cinico e schivo della realtà.

La realtà - lo vedremo - è un concetto che, combinato al Cinema, impone faticosi processi di astrazione in cui è facile perdere le tracce di un ipotetico racconto, eppure quei processi sono forse gli unici in grado di farci provare una moltitudine di prime esperienze di visione. 

Gli unici capaci di lasciarci veramente inerti, schiacciati e sbalorditi sulla poltrona di un cinema o sul divano di casa propria, a bocca aperta come bambini alle prese con la scoperta del mondo e in bilico costante tra realtà, fantasia e immaginazione.

 

Così, anche con Grand Tour Gomes resta fedele alla forma audace e giocosa dell'ammaliante e ispirato trittico cinematografico Le mille e una notte - Arabian Nights, e di Tabu, altra sua magnifica creatura realizzata nel 2012.

 

 

[Miguel Gomes premiato al Festival di Cannes con il Prix de la mise en scène per Grand Tour]

 

 

Ispirandosi a un racconto di W. Somerset Maugham, il regista portoghese e la sua compagna Maureen Fazendeiro - con la quale tra l'altro stava all'epoca per sposarsi - assieme ai collaboratori Mariana Ricardo e Telmo Churro, delinea un soggetto preciso destinato tuttavia a vedere continuamente trasformata la sua "identità".

 

La storia di Grand Tour risulta allora divisa a metà: nella prima parte Edward (Gonçalo Waddington), un funzionario dell’Impero britannico di inizio XX secolo di stanza a Rangoon, scappa dalla sua fidanzata fingendo inderogabili impegni lavorativi per scongiurare la possibilità di un matrimonio, intraprendendo così un viaggio dalla Birmania coloniale a Singapore, Bangkok, Saigon, fino a Manila, Osaka e Shanghai. 

 

Nella seconda parte la fidanzata Molly (Crista Alfaiate), determinata a inseguire Edward e certa delle sue sincere volontà, si trova a mancarlo ogni volta di pochissimo lungo tutte le tappe del suo percorso.

 

In questo grand tour asiatico, in riferimento al lungo viaggio aristocratico europeo che diede origine al turismo come fenomeno della cultura di massa, il tema del colonialismo è certamente presente e tuttavia, nonostante appaia chiaramente evidenziato, non così centrale rispetto ad altre opere del regista. 

Ad avere inciso in modo sostanziale sulla struttura di Grand Tour - ma anche sul significato intrinseco e sulle suggestioni che ne derivano - è stata senza dubbio la sua insolita e difficoltosa produzione: dopo l’interruzione delle riprese a febbraio 2020 causa COVID-19, Gomes ha dovuto girare una serie di scene in Cina da remoto, collaborando con un direttore della fotografia mai incontrato di persona e comunicando esclusivamente attraverso decine di schermi. 

 

Una distanza fisica simbolica, se consideriamo il destino dei due personaggi principali del film. 

 

 

[Una scena in esterni contemporanei di Grand Tour: il regista ha raccontato che oltre al DoP portoghese per le riprese in studio (Rui Poças) e al DoP asiatico previsto per il viaggio in Asia (Sayombhu Mukdeeprom), si è trovato a collaborare a causa del lockdown e delle frontiere chiuse in Cina con un terzo DoP (Gui Liang), mai incontrato di persona]

 

 

L’imprevisto si è aggiunto poi alla scelta, sin dall’inizio, di girare in pellicola 16mm tanto in studio quanto in esterni, senza attenersi a criteri di verosimiglianza e giocando invece con il passato e il presente (anche con la colonna sonora!), la realtà e l’artificio, per lasciare emergere i contrasti illusori del meccanismo Cinema. 

 

Grand Tour risulta infatti caratterizzato da riprese del presente effettuate nelle citate location asiatiche e riproduzioni in studio afferenti all’estetica degli stessi luoghi, ma in un contesto temporale completamente differente: scene ambientate un secolo fa si alternano a visioni in stile documentaristico legate al mondo contemporaneo e i contesti in cui sono inseriti i protagonisti appaiono come palesi riproduzioni, visioni contraffatte di un’epoca passata, tra hotel coloniali, treni deragliati e foreste di bambù. 

Il montaggio segue poi questo flusso divertito attraversando i limiti della finzione e sfidando il rapporto tra Cinema e reale. 

 

Per questo motivo, Grand Tour è prima di tutto una straordinaria riflessione sul meccanismo cinematografico, sull’illusione di realtà e sulla contrapposizione tra verità e finzione.

Gomes mostra il mondo reale, dà la possibilità allo spettatore di collocare il racconto in uno spazio codificato, poi però inserisce voci fuori campo in lingue diverse per ogni paese incontrato dai protagonisti, voci che esprimono sentimenti e azioni che non corrispondono a ciò che esattamente viene permesso di vedere sullo schermo; fa parlare i suoi promessi sposi  inglesi in portoghese, scelta da intendersi come la più anti-colonialista dell’intero lungometraggio; lascia infine lo spettatore in balìa della propria immaginazione, delle proprie raffigurazioni mentali che sono nient’altro che la benzina dei sogni, di un fantasticare che è caratteristico dell'infanzia. 

Il completamento del reale per Gomes è proprio l’immaginario e più precisamente il mondo parallelo che nasce nella mente di ognuno di noi.

 

Di fronte all’indefinito siamo spettatori profondamente stimolati, parte attiva della narrazione e dunque portati a immaginare i personaggi in scena anche laddove non sia attestata la loro presenza.

 

 

[Gonçalo Waddington in una scena in studio di Grand Tour]

 

 

Lo scopo di Miguel Gomes in Grand Tour non sembra però soltanto quello di indurre chi guarda a una riflessione sul rapporto tra realtà e finzione, stimolando la sua immaginazione oltre i limiti del possibile. 

 

Sullo schermo vanno in scena lo spettacolo del mondo, le forme di rappresentazione scenica, i sistemi di trasporto, i luoghi di raccoglimento e convivialità locali e turistici. 

In questo teatro di luci e colori, natura e architettura, Edward e Molly vagano mossi da sentimenti diversi ma comunque raramente consapevoli di ciò che accade loro intorno. La terra che calpestano è inizialmente estranea e così vi capitano esclusivamente per raggiungere i propri scopi.  

Man mano che il viaggio continua, Edward smette di fuggire nascondendosi nel mondo e comincia ad aprirvisi, riflettendo sul sentimento nutrito nei confronti della sua futura sposa. 

 

Allo stesso modo, Molly, sempre più determinata a raggiungere il fidanzato, inizia a prendere seriamente coscienza della propria condizione. Lungo l’itinerario perciò le immagini, pur rimanendo le stesse, vedono cambiato il proprio significato in base allo stato emotivo dei protagonisti: con Edward da caotiche esse si fanno pacifiche, assumendo un tono malinconico, con Molly appaiono dapprima buffe e allegre e si trasformano poi in cupe e orrorifiche.

 

Edward e Molly sono infatti inizialmente rappresentati come i protagonisti di un’insolita screwball comedy (Molly ha non a caso una buffa e caratteristica risata), come se Clark Gable decidesse di fuggire da Claudette Colbert anziché fingersi suo marito in Accadde una notte, lasciando così il film sprovvisto delle scene di coppia.

 

 

[Crista Alfaiate in una scena in studio di Grand Tour]

 

 

Oltre ad essere un viaggio nel tempo e nello spazio, Grand Tour è perciò anche un viaggio nelle emozioni di Edward e Molly, nelle loro sfaccettature più complesse che sormontano ben presto il loro semplice statuto di codardo e di testarda, una volte che le immagini cominciano ad entrare in risonanza con i loro mondi interiori.

 

In questo modo il film permette allo spettatore di mettere in relazione, da un punto di vista emotivo e antropologico, visioni e prospettive difficilmente comparabili: in fondo cos’hanno in comune due neo-sposini in crisi nel XX secolo e un uomo abbandonato a un pianto di dolcissima e disperata commozione, dopo aver interpretato una sua versione di My Way di Frank Sinatra al karaoke di chissà quale ristorante sperduto in Asia? 

Per Miguel Gomes c’è un intero mondo che li accomuna.

 

Grand Tour è perciò, a mio avviso, un film straordinario e imperdibile. Un falso e paradossale documentario sull’amore, quello che anima l’essere umano e quello che il regista prova nei confronti del Cinema. 

 

Non è soltanto un viaggio: è un luogo in cui storie e destini del presente e del passato si incontrano, perdendosi e ritrovandosi nel paradosso delle immagini.

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