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Salò o le 120 giornate di Sodoma è stato l'ultimo film di Pier Paolo Pasolini prima della sua prematura morte.
L'opera esplicita già dal titolo il suo riferimento principale: Le 120 giornate di Sodoma, pubblicato nel 1785 - ma scritto anni prima - dal Marchese Donatien Alphonse François de Sade, poco prima di essere imprigionato alla Bastiglia, e mai terminato per via dei disordini scaturiti dalla Rivoluzione Francese.
[Il trailer di Salò o le 120 giornate di Sodoma per il restauro de "Il Cinema Ritrovato"]
De Sade, figura controversa fortemente legata all’ambiente libertino dell’epoca, con questo scritto crea quasi un “catalogo” delle perversioni sessuali, compiute da 4 personalità potenti ai danni di poveri ragazzi; suddiviso in 4 parti, ognuna con 150 racconti ripartiti in passioni semplici, complesse, criminali e omicide, per un totale di 600 perversioni, riprendendo la struttura boccacciana del Decamerone.
Nella sua organicità mostra tutta la “filosofia del vizio” (il sadismo) tipica di de Sade, mentre le tematiche più sociali sono soltanto accennate e accessorie.
Pasolini concentrerà proprio su queste le sue più forti attenzioni.
Il regista sceglie di agganciare il sadismo al fascismo, l’anarchia del potere secondo il regista non poteva che essere mostrata al meglio attraverso le vicende della Repubblica di Salò, in quanto in quel periodo sarebbe stato realistico, secondo l’intellettuale, organizzare qualcosa di simile a quello ideato da de Sade secoli prima.
[Salò o le 120 giornate di Sodoma: i 4 potenti e le 4 meretrici dal balcone della villa che sarà l'unica ambientazione dell'intero film]
La struttura del film, forse l’unico a presentare nei titoli di testa una bibliografia letteraria essenziale, sceneggiato dallo stesso Pasolini insieme a Sergio Citti e Pupi Avati (che sceglierà di eliminare il suo nome dai crediti) si suddivide in 4 sezioni (Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue) in cui 4 uomini potenti, un duca (Paolo Bonacelli), un monsignore (Giorgio Cataldi), un presidente (Aldo Valletti) e un magistrato (Umberto Paolo Quintavalle) dopo essersi imparentati tra loro sposando ognuno la figlia dell’altro si rinchiudono in una grande villa sorvegliata dalle SS insieme a una moltitudine di giovani ragazzi e 4 meretrici, 3 delle quali hanno la funzione di eccitare i potenti verbalmente, con dei racconti legati al sesso: la Signora Castelli (Caterina Boratto), la Signora Maggi (Elsa De Giorgi) e la Signora Vaccari (Hélène Surgère).
Resteranno lì dentro esattamente 4 mesi, a cavallo tra il 1944 e il 1945, dal 1° novembre al 28 febbraio.
Come si può notare, domina il numero 4, simbolo della morte.
[Salò o le 120 giornate di Sodoma: Il matrimonio-burla nel Girone delle Manie]
In termini visivi il film è a mio avviso impeccabile, strutturato ed equilibrato - grazie a dei Maestri assoluti come Danilo Donati ai costumi, Dante Ferretti alle scenografie e Tonino Delli Colli alla fotografia.
Questo va ad innestare uno straniamento, relazionandosi alla sublimazione del disgusto che presenta la storia; straniamento che ritroviamo in termini brechtiani anche nella recitazione, a tratti estremamente teatrale, degli attori professionisti e di quelli non professionisti, che è facile riconoscere in ogni film di Pasolini.
Se l’Antinferno mostra il rastrellamento e il sequestro di diversi giovani, in cui sono presenti continui rimandi a Charles Baudelaire e a Marcel Proust, e il Girone delle Manie ci scaraventa nell’orrore della rappresentazione di diversi atti sessuali totalmente privi di edonismo e gioia, quasi sempre incompiuti e grottescamente infantili, il Girone della Merda è la vera sfida visiva che Pasolini muove allo spettatore.
Scene disgustose costellate da dettagli orrendi mostrano il coraggio di Pasolini di rappresentare l’irrappresentabile.
Un nauseabondo e percettivo cul de sac narrativo e figurativo.
[Salò o le 120 giornate di Sodoma: la Signora Vaccari (Hélène Surgère) intrattiene gli abitanti della villa con i suoi racconti]
Nel successivo pur terribile e brevissimo (10 minuti) Girone del Sangue la forza visiva e narrativa del film si attenuano per via di una vera e propria scelta linguistica che il regista infonde a questi ultimi minuti della pellicola.
Le indicibili torture vengono attuate esclusivamente nel cortile della villa, ma la macchina da presa resta sempre al suo interno. Le guardiamo, mediate da un binocolo, nelle soggettive dei quattro depravati protagonisti che non sono mai tutti insieme nel cortile, dividendosi tra il piacere della tortura e quello voyeurista.
È come se Pasolini non riesca, arrivato a questo punto, a sopportare la messa in scena del testo di de Sade, di continuare a mostrare con la sua tipica purezza, che sfuma il neorealismo, gli eventi narrati.
Si allontana, facendo allontanare anche lo spettatore.
Questo rende l’ultima parte più analitica, meno legata all’emozione immediata per trasformarsi in ragionamento.
In questa parte il dialogo è scarnito e le urla dei ragazzi che vediamo in scena non le sentiamo mai.
[Salò o le 120 giornate di Sodoma: il Presidente (Aldo Valletti in una scena del Girone del Sangue]
Tutto è ovattato dalla colonna sonora, ingombrante come mai prima d’ora nelle due ore di pellicola, gli austeri Carmina Burana che sublimano l’immagine, mantengono alto il pathos ma censurano in parte la sofferenza, la depravazione, l’immondo delle azioni in scena.
I quattro potenti, ontologici (rappresentano il potere in quanto tale, assoluto), “riducono a cose” le loro vittime, in una sorta di barocca depravazione, producendo nel film due figure retoriche, due artifici volti a creare l’effetto orrido: l’accumulazione (dei numerosissimi crimini) e l’iperbole, Pasolini vuole giungere al limite della sopportabilità dello spettatore.
Nel film troviamo una forte critica alla classe intellettuale, mettendo in mostra le nefandezze che può produrre una cultura alta e nobile senza che venga ibridata dalla spesso bistrattata cultura bassa e popolare, che il regista tanto amava.
Diverse parti hanno inoltre una connotazione fortemente politica, soprattutto quelle legate al concetto di anarchia del potere, ne è una chiara dichiarazione d’intenti la frase presente circa a metà del film: "Noi fascisti siamo i soli veri anarchici".
Pasolini però ci dimostra anche come un discorso intellettuale puro e aureo si possa fare attraverso il vomitevole, l’immondo, il sadismo, e se pur concettualmente ricorre a Roland Barthes e Pierre Klossowski, esteticamente riecheggiano Antonin Artaud e Georges Bataille.
[Salò o le 120 giornate di Sodoma: trio grottesco di potenti guardati dal quarto componente, attraverso il binocolo, dalla villa, nel Girone del Sangue]
La chiave di lettura dell’intera opera è presente nell’ultima scena: due giovani balilla accendono la radio e sulle note di una tipica canzone leggera degli anni ’40 si mettono a ballare, incuranti di quello che gli sta succedendo attorno.
Semplici, ma irrimediabilmente corrotti, sono ingranaggi della macchina dell’orrore, mostri a loro insaputa, non gli appartiene alcun senso di “giustizia”.
Pier Paolo Pasolini vuole dirci che malgrado le tante implicazioni intellettuali del film in fondo non c’è molto da capire se non la drammatica presa di coscienza di quello che Hannah Arendt ha definito “banalità del Male”.
Una riflessione sociale che utilizza il politico come strumento, così come utilizza l’esperienza repubblichina per parlare del contemporaneo. Il Male è semplice, mediocre e si nutre della nostra normalità, della nostra apatia, un’immagine in cui è assente la tipica misericordia di Pasolini.
L’attestazione, ormai irrimediabile, di una completa estraneità dell’individuo alla società aguzzina moderna, un totale scollamento tra pensiero e azione, una tendenza autodistruttiva mai così chiara nella Storia dell’umanità.
Ed era solo il 1975.
[articolo a cura di Fabio Giagnacovo]
Vi rispettiamo: crediamo che amare il Cinema significhi anche amare la giusta diffusione del Cinema.
1 commento
Terry Miller
1 anno fa
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