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Ci volevano Harmony Korine e il suo nuovo Baby Invasion per ricordarci che il Cinema è anche sperimentazione di un linguaggio e, perciò, di analisi.
Dopo Aggro Dr1ft, il regista di Spring Breakers torna alla Mostra del Cinema di Venezia con Baby Invasion, film (?) di un’ora e venti in cui viene elaborato il concetto stesso di opera di finzione, trasformando la visione dello spettatore in una sorta di esperienza virtuale senza la necessità di un visore VR.
[Harmony Korine e le sue creature di Baby Invasion]
Lo spunto narrativo è semplice, ma quanto mai decisivo: una sviluppatrice di un videogioco sparatutto (Baby Invasion) perde il controllo della propria creazione che finisce sul dark web.
In quel non-luogo virtuale la realtà cessa di esistere e trasforma i giocatori - e lo spettatore - in degli NPC con la faccia da bambini, liberi di compiere rapine verso i ricchi proprietari di ville: checkpoint a punti inclusi.
È così che Harmony Korine mostra un mondo che è un reality show di immagini figlie della contemporaneità, con tanto di chat à la Twitch e commenti in continuo rinnovamento posti sulla sinistra dello schermo, come se i reietti di Trash Humpers giocassero al fake gangsta rap di Spring Breakers.
Baby Invasion è prima di tutto un’opera libera da qualsiasi classificazione e di conseguenza è giocosa, anarchica e ama rendersi meme al punto da dichiararlo fin dall’inizio: “Questo non è un film, non è un videogioco. Questo è il presente”.
Il presente, dunque, come tempo da indagare e all'interno del quale perdersi, proprio perché indecifrabile e in costante evoluzione.
Una sorta di film-worldbuilding a cui potrebbero essere applicati paradossalmente delle espansioni, dei nuovi personaggi con cui dialogare e compiere nuove missioni.
Il punto, come già era stato per Aggro Dr1ft, non riguarda più la narrazione bensì ciò che le immagini sono in grado di offrire in termini di cartina tornasole della sperimentazione visiva.
Non c’è da sorprendersi perciò se assistiamo a un trip interdimensionale che pare essere uscito da 2001: Odissea nello spazio, dove al posto dei colori kubrickiani sono presenti sequenze videoludiche o, ancora, essere partecipi di vessazioni di persone reali con delle gif di neonati sorridenti sullo sfondo.
Un film - anche se è riduttivo definirlo tale - che è un pot pourri senza fine, una missione sotto acidi verso l’abisso della virtualità: non mi stupirei di vederlo nuovamente ed essere partecipe di un mondo popolato da personaggi completamente diversi.
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