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Gummo è il primo lungometraggio di Harmony Korine, già noto allora per la sceneggiatura di Kids dell’amico Larry Clark.
Il film prosegue e porta a compimento un modo di fare Cinema tipico degli anni ’90 statunitensi, indie e unico, non scevro comunque da diverse influenze passate e contemporanee, indigene ma soprattutto europee, su tutte il militaresco Dogma 95 danese e l’italiana poetica vitale di Pier Paolo Pasolini.
[Il trailer di Gummo]
Ci troviamo a Xenia, in Ohio, in cui tempo fa un uragano ha distrutto la città e la vita comunitaria (evento realmente accaduto), anche se poco sembra essere cambiato da allora.
Seguiamo la routine di un gruppo white trash attraverso gli occhi e le menti distorte di diversi ragazzini, due in particolare: l’esagitato Tummler (Nick Sutton) e il mite Solomon (Jacob Reynolds).
Gummo non ha trama, ma nega assolutamente anche la forma documentaristica: è più che altro una forma d’inconscio comunitario, la presentazione di uno stato d’animo, una deprimente constatazione, la stasi assoluta tra un passato (attraverso frammenti che intermezzano il film di vecchie Polaroid e di filmini in 16mm) e un presente identici, con la cieca distruzione dell’uragano che fa sempre da sfondo a una vita frastornata e confusa.
[Gummo, titoli di testa]
Il breve film si muove fondamentalmente su una studiata triangolazione perturbante che può essere riassunta da una delle prime frasi della pellicola.
Nel racconto che presenta i fatti del catastrofico uragano, la voce fuoricampo di uno dei ragazzini che a turno racconteranno la loro vita e presenteranno i loro pensieri, dice:
“Un uragano si è abbattuto sul villaggio.
In tanti sono rimasti uccisi, qui sono morti cani, sono morti gatti, case spaccate a metà, collane e braccialetti sopra gli alberi. I morti avevano le ossa che gli uscivano dalla testa, Oliver ha trovato una gamba sul letto.
Molti padri di famiglia sono morti durante il grande tornado, io ho visto una ragazza volare per aria, e gli ho guardato sotto la gonna.”
C’è già tutto il tenore del film: la cupa ironia, la morte, effettiva ma anche concettuale, e la pulsione sessuale.
Tre elementi continuamente ripresi e contaminati tra loro attraverso dei ragazzini, con le loro voci tristi e graffianti, tetre eppure così giovani, a rendere tutto ancora più weird e ansiogeno.
[Gummo: Nick Sutton e Jacob Reynolds nei panni di Tummler e Solomon]
Fil rouge visivo del film, invece, è la figura del gatto.
Coccolato ma molto più spesso ammazzato, ucciso per essere venduto a un ristorante guadagnando qualche spicciolo, torturato, lavato, perso e mai più trovato, il gatto riverbera la moralità dei diversi personaggi, simbolo della loro umanità rispecchiata nei suoi enigmatici occhi, culturalmente ponte tra due mondi, qui strumento sfuggente, come le sue movenze, di senso esistenziale.
A prendere il posto della trama c’è, allora, la presentazione di un numeroso gruppo di ragazzini (quasi tutti attori non professionisti) che diventa vera e propria narrazione dello stare al mondo nella deprimente, noiosa, violenta Xenia.
E così, tra i tanti, oltre a Tummler e Solomon, che uccidono gatti e sniffano colla, conosciamo le sorelle con le sopracciglia bianche che si preoccupano esclusivamente della propria sessualità, i fratelli scemi e muscolosi che hanno ucciso i loro genitori, la ragazzina abusata dal padre, quello omosessuale con la madre violenta che se la faceva con la sua babysitter, quello immorale che si occupa della nonna vecchia e malata e contemporaneamente tortura i gatti, la prostituta-bambina handicappata di una purezza sconcertante “usata” dal suo pappone, probabilmente il padre, per fare qualche soldo.
La ragazza autistica che tratta il suo bambolotto come fosse un bambino vero, fervente cristiana, che allo specchio si taglia felice le sopracciglia, chiudendo il cerchio.
[Gummo: Chloë Sevigny nei panni di Dot]
Menzione speciale per il ragazzino che indossa il cappello rosa con le orecchie da coniglio (Jacob Sewell): solitario e silenzioso per tutto il film, è l’elemento più misterioso di Gummo, quando suona la fisarmonica nel bagno pubblico prima lentamente e poi velocemente per poi tornare a suonarla lentamente, pare divenire metafora filosofica di ciò che stiamo vedendo, in un nietzchiano eterno ritorno senza alcuna forma di progressione, appesi al pendolo di Arthur Schopenhauer tra noia e dolore.
Quando fa esplodere la sua acerba sessualità con le due sorelle in piscina lo diviene ancora di più, mostrandoci il fugace e superficiale attimo di felicità che tocca ciclicamente il nostro pendolo. Tutti i ragazzini di Gummo abitano in case fatiscenti e infestate da insetti, estremamente sporche e disordinate, caratterizzate da un’accumulazione compulsiva che rispecchia lo stato mentale dei loro abitanti.
Se i ragazzini sono tutti estremamente decentrati da loro stessi e dai loro sentimenti, i loro genitori, e più in generale gli adulti, hanno un atteggiamento demenziale e sconcertante, come possiamo ben vedere nella festicciola che organizzano tra loro, talmente illogica da risultare disgustosa o dall’atteggiamento della madre di Solomon, che balla il tiptap con le scarpe enormi del defunto marito e un attimo dopo punta la pistola sulla tempia del figlio intimandolo di sorridere.
[Gummo, pranzo/bagno di Solomon]
Nelle riprese semi-amatoriali, tremolanti e di bassa qualità di Gummo si delineano davanti a noi famiglie disfunzionali e gruppi comunitari mossi da un odio essenziale nei confronti dell’esistenza.
La loro vita è scevra da qualunque forma di sacralità. Tutti i personaggi, nessuno escluso, appaiono come delle vittime dell’esistenza, incapaci di sfuggirne.
Non a caso a un certo punto assistiamo a una tragedia mentre sentiamo la voce di Tummler dire:
“Caro mondo, sono confuso dalle oscure elucubrazioni del mio cervello.
Ho cercato, ho cercato in tutti i modi di farcela in questo schifoso mondo, ma credo che il primo errore sia stato quello di nascere.”
Salvo poi scoprire che era solo un pensiero, e ascoltare un altro ragazzo parlarci di quanto fosse meraviglioso vivere, nell’unheimlich esasperato della messa in scena.
Questa rabbia inconscia nei confronti delle proprie vite va a caratterizzare tutti i personaggi di Gummo di una totale assenza di empatia nei confronti degli altri esseri umani, così come nei confronti dei gatti.
Se l’uragano è una metafora esistenziale, il loro atteggiamento per reagire ad esso è totalmente anti-vitale, è sempre superficiale, poco nitido, senza alcuna prospettiva, auto-distruttivo e costellato di piaceri fugaci che non portano alcuna gioia.
[Gummo: Jacob Sewell nei panni del ragazzo con le orecchie da coniglio]
Una vita, la loro, profondamente disordinata, senza alcun assetto e senza alcun senso.
Immagine di questa disgregazione di senso è la famosa scena in cui Solomon si fa il bagno in una vasca sporchissima, mentre mangia ad intervalli gli spaghetti al pomodoro e un torroncino al cioccolato e la mamma gli lava i capelli.
Salsa di pomodoro, cioccolata e shampoo si mescolano sul suo viso e le sue mani, mentre è a mollo in quella melma marrone.
Regna un caos estremamente disturbante sul suo corpo così come nella sua testa.
Gummo, nel suo complesso, è rispecchiato dalla sua colonna sonora, metà death metal, metà fatta di canzoncine allegre e filastrocche distorte.
Ha in sé un profondo genius loci statunitense, ma lo travalica nell’essenza di quello che ci mostra e ci trasmette: è un flash fotografico, un film condensato in un secondo, un momento di iperventilazione dei nostri polmoni, la sacralità dell’immondo (lo spirito immondo per eccellenza è il demonio e non a caso compare nel film diverse volte la figura del Baphomet), il sacer della vita quotidiana, tra sacro e lordura, tabù e intoccabilità.
Segreto celato e osceno rifiuto.
[articolo a cura di Fabio Giagnacovo]
Vi rispettiamo: crediamo che amare il Cinema significhi anche amare la giusta diffusione del Cinema.