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Hong Kong, 1963: il signor Chow, giornalista, e la signora Chan, segretaria in un’agenzia di trasporti, ciascuno con il proprio coniuge, lasciano Shanghai in un periodo storico tumultuoso e si trasferiscono nello stesso giorno a Hong Kong, affittando una camera in due appartamenti contigui dello stesso palazzo.
Grazie a una narrazione discreta, ellittica, fatta di non detti, scopriamo in breve tempo insieme a loro che i rispettivi consorti sono amanti.
I due cominciano a condividere le loro solitudini finché questa vicinanza non si trasforma in una tenerezza e un amore reciproco che rimarrà, tuttavia, inappagato.
Liberamente ispirato al romanzo Un incontro di Liu Yichang, In the Mood for Love è il settimo lungometraggio di Wong Kar-wai, uscito nel 2000.
Il regista è ricondotto tradizionalmente alla corrente della Second Wave del Cinema di Hong Kong, una generazione di registi che pone al centro della narrazione quella città da sempre divisa tra Oriente e Occidente, così come l’anima dei suoi abitanti.
[Un frame da In the Mood for Love]
Quando si parla di In the Mood for Love si parla innanzitutto di amore, ma subito dopo di tempo.
La civiltà occidentale moderna ha una concezione lineare del tempo secondo cui la storia di ogni singolo individuo (così come dell’umanità tutta) ha un inizio e una fine precisi.
La vita scorre come un fiume le cui acque non sono mai le stesse.
Ma presso altre culture, come quelle orientali, prevale un’idea circolare secondo la quale il tempo è scandito da eventi che si ripetono ciclicamente.
Non vi è un inizio né una fine, ma il perpetuo ripresentarsi di cicli di vita.
Entrambe queste concezioni racchiudono un nucleo di verità, ma l’accento è posto su aspetti diversi: il progredire nell’una, il ritornare nell’altra.
Nel Cinema di Wong Kar-wai il tempo è centrale.
I rotondi orologi da parete continuamente inquadrati scandiscono lo scorrere di giorni sempre uguali, caratterizzati dal ripresentarsi di stesse situazioni, stessi gesti, stessi posti, stesse conversazioni: le partite a Mah Jong della padrona di casa, le mattinate in ufficio di Chan e Chow tesi a svolgere le stesse operazioni, le strade buie di Hong Kong in cui ci immergiamo, il mercato di strada presso cui i due protagonisti si recano ogni sera a comprare la cena.
Gli eleganti e rigidi cheongsam (abito tradizionale cinese) della signora Chan, ogni giorno diversi, costituiscono l’unico elemento che indica il passare dei giorni.
Wong Kar-wai riflette la concezione ciclica del tempo orientale, che nella sua pellicola si arricchisce di un significato ulteriore: il tempo della storia tra la signora Chan e il signor Chow non è oggettivo, ma soggettivo, è il tempo del ricordo, ciclico per eccellenza in quanto destinato a tornare perennemente.
Un tempo trasfigurato la cui oggettività è distorta da una memoria che conserva i volti cari e cancella quelli secondari, che amplifica alcuni eventi a discapito di altri rendendoli quasi immobili, eterni.
E così la storia viene ricostruita attraverso ellissi temporali, successioni a-cronologiche degli eventi, ralenti che enfatizzano quei fugaci attimi in cui le anime dei due protagonisti si incontrano.
[In the Mood for Love: Chan e Chow si incrociano durante una serata insieme agli altri inquilini e ai coniugi]
L’uso che il regista fa della musica è peculiare: Wong Kar-wai non teme il silenzio, anzi, la gran parte della pellicola non ha una colonna sonora.
Il silenzio è predominante e già questa scelta non è casuale, perché l’assenza di musica per lunghi minuti consente allo spettatore di percepire chiaramente la natura dei rapporti umani rappresentati e lo stile con cui si è scelto di tratteggiarli.
Le relazioni tra i personaggi sono fatte di un silenzio gravido di parole non dette e brevi conversazioni di circostanza, che celano ben altre parole più significative. Spiamo i protagonisti dai pertugi in cui il regista nasconde la cinepresa, rendendoci dei voyeur distratti che sbirciano le vite altrui senza mai riuscire a cogliere i momenti cruciali in cui avviene effettivamente qualcosa.
Scrutando i protagonisti e osservando i loro movimenti, infatti, abbiamo la chiara percezione che i fatti rilevanti accadono fuori scena.
“Come si avverte il tempo nell’inquadratura?
(da Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema, A. Tarkovskij, Ubulibri, 1988, pag. 111)
[In the Mood for Love: Chan e Chow passeggiano di notte nelle strade di Hong Kong]
Tuttavia anche la musica ha una parte fondamentale all’interno della narrazione di In the Mood for love.
Questa interviene in momenti precisi con brani intradiegetici (ovvero provenienti da fonti interne alla narrazione, come una radio o una televisione) che rappresentano la variegata realtà di Hong Kong negli anni ‘60: si va quindi dalla ballata cinese Huayang nianhua, la canzone indonesiana Bengawan solo, a canzoni di origine latina come Quizás quizás quizás o Aquellos ojos verdes.
A queste, poi, si aggiungono le composizioni originali di Michael Galasso che svolgono un ruolo extradiegetico di commento alle immagini e, come tali, hanno uno spazio limitato per le ragioni sopra esposte.
Ma c’è un brano che domina incontrastato su tutti ed è il notissimo valzer Yumeji’s theme scritto dal compositore giapponese Shigeru Umebayashi per un altro film intitolato, per l’appunto, Yumeji, diretto da Suzuki Seijun e uscito nel 1991.
Non si tratta di un tema originale, eppure è riuscito a connotare tanto profondamente il film di Wong Kar-wai da diventare un tutt’uno con esso.
Ciò che tutti sappiamo del valzer è che si tratta di un ballo a due eseguito a coppia chiusa (ovvero a stretto contatto) consistente in un unico passo: un volteggio.
Quando pensiamo al valzer immaginiamo grandi sale illuminate da candelabri dorati, acconciature ardite e sontuose gonne che volano su pavimenti marmorei, ma in realtà la sua origine è probabilmente popolare, dato che i balli a coppia chiusa erano considerati scandalosi per le classi sociali più elevate. Una vera e propria danza sovversiva, dunque, che in breve tempo (tra ‘700 e ‘800) contagiò anche gli ambienti più aristocratici, non senza polemiche.
Un ballo profondamente erotico e inevitabilmente associato nell’immaginario collettivo al sentimento amoroso, il valzer, che con il suo continuo volteggiare provoca uno stato di vertigine, di euforia, di ebbrezza.
L’intero lungometraggio non è altro che una danza a due a ben vedere, in cui non a caso gli altri elementi del triangolo (o meglio del quadrato) non compaiono mai se non di spalle o come voci senza volto.
Il valzer di Chan e Chow di In the Mood for Love è un leit-motiv che scandisce gli incontri casuali eppure rituali di una storia scandalosa perché adulterina, ancora più scandalosa perché totalmente pura.
[Due momenti di In the Mood for Love in cui Chan e Chow si incrociano al mercato di strada]
Ogni volta che sentiamo quel pizzicato di archi il tempo si congela.
Osserviamo le linee sottili che disegnano la silhouette della signora Chan aggirarsi per le vie scure e claustrofobiche della città, tra i vapori delle cucine e il clamore dei passanti, e il signor Chow fumare assorto una sigaretta alla luce di un lampione.
Non abbiamo fretta di veder accadere qualcosa, sappiamo già che non succederà nulla, che quello è solo un attimo insignificante, ma dilatato fino al parossismo nella mente di colui che ricorda (e di cui noi assumiamo il punto di vista) e che indugia nella memoria, scrutando ogni sfumatura, ogni luce, scandagliando ogni espressione dei volti protagonisti di quell’attimo.
Il ritornello è strettamente connesso a quel sentimento e, come il profumo delle madeleine di Marcel Proust scatena il ricordo dell’infanzia, così quel tema rinnova ogni volta l’emozione del momento ormai passato e custodito dalla memoria.
Torniamo alle sorgenti di esso.”
(da Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema, A. Tarkovskij, Ubulibri, 1988, pag. 145)
[La scena finale di In the Mood for Love]
Tra le composizioni di Michael Galasso merita una menzione particolare quella posta a commento della scena finale in cui il protagonista affida al tempio cambogiano di Angkor Wat il suo segreto.
Questo brano si riaggancia a Yumeji’s theme, riprendendone il tempo ternario e il pizzicato di archi su cui si snoda una melodia al violoncello, contrappuntato da un altro violoncello.
Esso tuttavia risuona più drammatico: più scuro è il timbro degli strumenti, più cupe le armonie.
La storia tra Chan e Chow di In the Mood for Love è viva, ma solo nel ricordo.
Tutto rimane sospeso, indistinto, inafferrabile e quindi, come scrive Giacomo Leopardi, profondamente poetico perché “quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza […] perché il poetico si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago”.
Chow affida il suo segreto a una fenditura scavata nelle mura del tempio, un pertugio che ci ricorda la prospettiva attraverso cui abbiamo spiato la sua storia, forse un’allusione al mezzo cinematografico, unico effettivo custode della sua storia.
Poi sigilla il buco con della terra.
Il suo amore vissuto nel silenzio, al silenzio viene riconsegnato.
[articolo a cura di Maria Socci]
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