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"Questo è il film di Cate" dichiara Todd Field, eppure Tár è lapalissianamente un film del suo regista, nonostante sia stato scritto in funzione di Cate Blanchett e passi - giocoforza, già solo considerando lo screen time - per la sua credibilità.
A sedici anni da Little Children, il suo lungometraggio precedente sovente accostato ad American Beauty, Field indaga nuovamente sugli iati tra pubblico e privato, tentando di inglobare nel discorso una serie di tematiche tanto contemporanee quanto, in fondo, universali.
[Il trailer di Tár]
Tár è uno studio "sulla figura della prima donna della Storia a divenire direttrice di una delle più importanti orchestre tedesche": Lydia Tár è per l'appunto affermata, colta, potente, ma è anche una figura dall'armadio zeppo di scheletri.
Sceneggiatore oltre che regista, Field ne racconta la vita a ridosso di un momento professionale di rilievo, procede illustrando e intrecciando dimensione pubblica (sebbene quel contesto lavorativo, come sarà poi chiaro, sia protetto) e privata della protagonista: a congiungere esplicitamente i due livelli è la compagna di Lydia, primo violino; l'interazione tra loro andrà intensificandosi, finendo per costituire il motore drammaturgico dell'opera.
L'apertura proietta subito un'ombra sul resto, preannunciando un conflitto la cui obliqua emersione risulta essere fondamento della narrazione: sprovvisto di un intreccio fattualmente forte e ciononostante giocato principalmente proprio sul piano della sua dilatazione e del suo mascheramento, Tár lavora sui mezzi toni e sulle variazioni minime delle sfumature emotive, prendendosi i propri tempi.
Visto il contesto borghese - la notazione è rilevante perché l'intrusione del non-borghese segnerà un passaggio significativo - le schermaglie nella diegesi sono dirette solo di rado, Field sembra traslare proprio questo differimento continuo sul piano della relazione con lo spettatore: qualcosa è suggerito, altro è desumibile con maggiore o minore approssimazione; tuttavia, quello che pare essere il cuore del film vive perlopiù attraverso battiti ovattati o mancanti.
Il versante formale fornisce linfa a quella proiezione umbratile, finendo invero per adagiarsi, almeno in parte, su di una serie di soluzioni che tradiscono fin troppo chiaramente l'intentio auctoris.
Field conferma la propria abilità nel gestire la messinscena, fa sfoggio di un profilmico curatissimo e, abbinandolo a un filmico altrettanto preciso, guarda alle estetiche di autori come Stanley Kubrick e Michelangelo Antonioni, a quei geometrismi e quelle atmosfere: assieme alla gestione del ritmo ciò ammanta il film di uno strato di incertezza (di mistero, così com'è un mistero la Quinta di Mahler), traccia crepe in potenza laddove si sabota la chiusura stilistica.
Gira bene Tár come oggetto filmico, al netto di un segmento conclusivo meno convincente sul piano della tenuta narrativa e di altre sbavature, ma il meccanismo non è davvero al servizio di quanto la ricerca estetica lascerebbe presagire.
Questa sembrerebbe voler affrancare il discorso dal livello del solo intreccio - comunque stimolante solo fino a un certo punto -, e in effetti Field tocca nodi scoperti di sicuro interesse, perlomeno se presi di per sé: oltre che di arte (di cui si discute con autoriflessività solo saltuariamente), il film parla di politicamente corretto, di Me Too, di dinamiche di potere nell'ambiente lavorativo e/o familiare, di opinione pubblica, di mass media.
[Cate Blanchett e Todd Field presentano Tár a Venezia 79]
Nulla supera però davvero il grado, pur legittimo, di pretesto: la rapidità e la superficialità con cui gli argomenti sono affrontati sono difatti comprensibili osservando il loro operare in rapporto alla progressione della trama e alla risposta emotiva prescritta al "lettore modello".
È in un'anonima cascata di capelli rossi, in una persona ripresa di spalle, che si rispecchia Tár, in questo deliberato atto di destabilizzazione, un colpo forse fin troppo sicuro.
Malgrado alcune linee narrative (come quella riguardante i condomini) o squarci come quelli onirici paiano poco efficaci, Tár è certamente un film godibile, anche grazie all'interpretazione di una Cate Blanchett che mette nel mirino quella che sarebbe la sua prima Coppa Volpi; cionondimeno, a mancare è una consistenza autoriale che era naturale aspettarsi, soprattutto considerando le precedenti prove di Field e le sue aspirazioni evidenti (difatti la sua mano si sente parecchio: ecco perché l'opera è inequivocabilmente sua).
Passare dal dominio del ben fatto a quello del capolavoro è affare di pochi, ma tendere nei risultati verso il secondo, agire sul piano davvero estetico, è requisito indispensabile per poter conquistare un premio con merito a Venezia e lasciare una traccia.
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