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Cosa vuol dire essere americani?
Indubbiamente tante cose, che nel bene e nel male convergono nella volontà comune di sentirsi parte di qualcosa, di un mondo che possa unire singoli popoli, etnie e religioni diverse da ogni parte del pianeta.
Il termine “americano” per certi aspetti è anche un termine vuoto, dal momento che l’America non è mai stata una nazione (in senso stretto) dotata di una propria storia millenaria, quanto piuttosto un crogiolo di culture differenti che hanno amalgamato tra loro le rispettive tradizioni, fino al punto da farla diventare, nel corso del tempo, il più grande assembramento di immigrati del mondo, con un unico grande destino da condividere.
Il concetto e il mito dell’America in senso lato, nascono idealmente con questa esigenza: è il tetto che accoglie tutti, e che facendolo definisce i propri tratti storici, quelli cioè di un paese di pellegrini provenienti da altri continenti e mossi dalla volontà di cambiare vita e far fortuna altrove.
Non importa che la volontà di cambiamento fosse dettata da esigenze di sopravvivenza (i predicatori vessati in fuga dall’Europa sin dal ‘600, i messicani che vogliono lasciarsi alla spalle la miseria e il degrado delle baraccopoli, ecc.) o da semplici ambizioni finanziarie (studenti, imprenditori, operai, ecc.), quello che conta è il desiderio di sentirsi parte dello stesso cielo, di un progetto sociale comune e di condividere presente e futuro.
L’America rappresenta dunque un ideale, un concetto, un’astrazione. La terra delle opportunità, delle rinascite, del riscatto, della libertà.
Almeno sulla carta.
La realtà è ben diversa, lontana anni luce dal mondo fatato che la macchina della propaganda ha sempre voluto mostrare.
La storia a stelle e strisce è sporcata di sangue sin dal XVI secolo, a causa delle guerre per l’abolizione di schiavitù e gli stermini dei nativi; con il passare dei decenni si sono alternate le crisi finanziarie, la bomba atomica, la guerra del Vietnam. E ancora a seguire, la questione razziale, la netta spaccatura interna tra provincia e città, il libero commercio delle armi, i contrasti nel medio-oriente, il deficitario sistema assicurativo sanitario.
Oggi non è semplice rinvenire un filo rosso che cerchi di unire un popolo vasto e variegato, che col passare degli anni risulta però sempre più diviso, disorganico, arrabbiato; quello che è successo nell’ultime elezioni presidenziali ne è stata la prova più evidente e oggi, a maggior ragione, l’America si ritrova confusa e sperduta, come una pecora staccata dal gregge e alla costante ricerca del proprio pastore.
L’esigenza di avere una guida, una figura sopra tutti in grado di confortare un paese così grande nasce proprio dal percorso storico che gli USA hanno dovuto affrontare.
Trattandosi di un’entità geo-politica nata dal nulla, senza un passato (escludendo la tragica storia dei nativi…), il cittadino americano ha sempre sentito il bisogno di appartenenza, grazie al tramite di una significativa figura di riferimento apicale, che fosse dunque una sorta di versione augustea in chiave moderna.
Forse è proprio nella natura di paese figlio di tutti e nessuno, che è insita l’occorrenza di compensare la mancanza di solide basi storiche e di un’unitaria identità culturale in cui rispecchiarsi e a cui guardare con l’esigenza di avere una presenza forte e autorevole, che possa essere in grado di riunire tutti attraverso un unico messaggio di speranza, di far sentire i cittadini al sicuro, di essere un primo in mezzo ai pari, in grado di sintetizzare e rappresentare al meglio le peculiarità che ogni razza, etnia o popolo ha via via importato su suolo americano negli ultimi quattro secoli.
Fatta tale premessa, cosa c’entrano in tutto questo discorso i “padri e figli” a cui si fa riferimento nel titolo dell’articolo?
La figura paterna in ogni cultura istituisce un legame con la tradizione, che implica il sentirsi parte di qualcosa; ed è per questo che nel popolo statunitense è insito questo bisogno di essere, ma soprattutto sentirsi figli di qualcuno, perché è quel loro stesso paese di appartenenza, orfano di un vero e proprio “padre”, ad aver sempre voluto e cercato una sorta di rivendicazione culturale.
Se una risposta precisa ed esauriente non è stata ricevuta dalla storia, è normale che la necessità di un metaforico bilanciamento sia come rimasto intrappolato nel DNA di una nazione intera.
Il bisogno del figlio americano di avere l’approvazione di un padre riflette dunque quello di un grande paese nato sul sangue di innocenti, che in assenza di un punto di riferimento preciso ha fatto oggi del multiculturalismo ed eterogeneità sociale i propri tratti distintivi nel mondo, dopo una lunghissima adolescenza e uno sforzo collettivo che continua tuttora a persistere.
Probabilmente è anche per questo che l’Election Day è un giorno così importante negli Stati Uniti; lo sarebbe in ogni paese, ovviamente, ma per gli statunitensi in particolare l’elezione del presidente ha un significato morale ancor prima che politico, perché è il giorno in cui decidono di affidare la loro vita nelle mani di un uomo, dal quale si aspettano quel conforto e quella protezione figurata in grado di dare un senso all’idea di patriottismo e orgoglio nazionale per cui sono noti in tutto il mondo.
Le varie generazioni di americani sono cresciute condividendo quindi non un comune punto di partenza, bensì un ideale, una prospettiva, un preciso modo di vivere la vita e vedere il mondo; il famoso “American Way of Life”, del quale la preminenza della figura paterna ha sempre costituito una delle più rilevanti peculiarità.
Il cinema si è sempre occupato di rappresentare questo topic, tra i più interessanti della società americana: storie di figli cresciuti senza padre, alla costante ricerca di una sua figura surrogata; oppure di figli cresciuti sì accanto al proprio padre, ma con il continuo desiderio, o meglio esigenza di ottenerne l’approvazione e l’attenzione.
Molti film hollywoodiani hanno rappresentato il rapporto complicato tra le due figure, perché questo offriva e continua a offrire un ottimo pretesto per raccontare una storia di difficoltà, di passato tragico, ma anche di riscatto, di affermazione personale, contro un destino nefasto.
È uno degli elementi chiave del sogno americano: riuscire a raggiungere i propri obiettivi, nonostante le difficoltà (come può esserlo la mancanza di un padre) che la vita ti ha posto davanti.
Inoltre, il rapporto figlio-padre, metafora di un paese intero, costituisce anche uno dei motivi primari per spiegare la personalità e, ove presente, la natura problematica o nei casi più estremi criminale dell’uomo qualunque, partito dalla strada.
In The Departed, ad esempio, Martin Scorsese affronta il più vasto tema del Bene contro il Male (come recita il sottotitolo dell’edizione italiana) ponendo uno di fronte all’altro due giovani ragazzi insicuri, i poliziotti Colin Sullivan e Billy Costigan, che nel sottotesto del film sono entrambi alla ricerca continua di un padre, identificato nel boss Costello e nel capitano Queenan rispettivamente, e alle prese con uno scambio di identità, che costituisce il fulcro della storia.
Nel film Premio Oscar di Scorsese, tra l’altro, il parallelismo appare ancora più simbolico, vista la differenza di generazione, proprio a livello cinematografico, che intercorre tra “padri” e “figli”: i veterani dello schermo Jack Nicholson e Martin Sheen, protagonisti del cinema americano di ieri, passano idealmente il testimone a Leonardo DiCaprio e Matt Damon, protagonisti e star assolute del cinema hollywoodiano contemporaneo.
Sono comunque innumerevoli gli esempi di titoli in cui il tema del rapporto padre-figlio, reale o putativo che sia, ha un ruolo preminente: da Il petroliere a Come un tuono, da Terminator 2 - Il giorno del giudizio a Hell or High Water, passando anche per i tanto discussi cinecomic che in più di un’occasione hanno sfruttato questo topos per giustificare l’evoluzione necessariamente rapida dei personaggi protagonisti, molti dei quali cresciuti appunto senza una forte figura maschile di riferimento (Peter Parker), oppure vivendo il rapporto con il padre in modo travagliato (Tony Stark).
Nel recente volume 2 di Guardiani della Galassia, addirittura, la questione ha impatti rilevanti direttamente sull’intreccio del film (e per chi l’ha visto, sa a cosa mi riferisco).
Che dire poi dei Classici Disney, dove la frammentazione del nucleo famigliare tradizionale è uno dei pochissimi fili rossi che accomunano praticamente tutti i lungometraggi animati della casa di Burbank, senza alcuna distinzione temporale?
Il piccolo Simba costretto a vedere in diretta la morte di Mufasa, evento che lo porterà a crescere più in fretta del dovuto e a ereditare con orgoglio il suo posto regale nella savana; lo scavezzacollo Jim de Il pianeta del tesoro, che abbandonato dal padre vede nella figura di John Silver un forte punto di riferimento durante il suo viaggio intergalattico; Tarzan, che passa una vita intera cercando di ottenere l’approvazione del gorilla capo branco Kerchak, da sempre contrario all’idea di “adottare” un umano.
Quasimodo de Il gobbo di Notre Dame, costretto a scontrarsi con l’autoritario Frollo, che aveva accettato con riluttanza di crescere il bambino deforme come fosse suo figlio; e così via, gli esempi non mancano.
Vorrei concentrarmi in particolare su due film, relativamente recenti, in cui questo concetto viene al meglio stigmatizzato e che, seppur in maniera diversa, affrontano storie di antieroi, uomini instabili e imperfetti, che cercano a fatica di trovare un proprio posto nel mondo e che nel farlo si ritrovano affiancati da una seconda tipologia di individui, che in qualche modo possano idealmente sostituire la figura di un padre, che i primi non hanno mai avuto.
Al centro di entrambi i film vi è quindi una coppia di protagonisti, individui di età ed estrazione sociale diversa, che si completano a vicenda e che rappresentano dunque le due facce della medesima medaglia.
Essi sono i risultati antropologici di un tessuto socio culturale che riflette la storia intera degli Stati Uniti, permeata dagli opposti: il lavoratore e il criminale, il ricco e il povero, il benefattore e il bisognoso.
Il primo titolo a cui mi riferisco è Foxcatcher, storia vera dei fratelli e lottatori professionisti Mark e David Schultz, entrambi medaglia d’oro nella lotta greco-romana alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 e prossimi ai campionati mondiali.
La loro preparazione atletica subisce una svolta quando entra in scena un fanatico miliardario con la passione per il wrestling di nome John du Pont, che si offre di diventare il nuovo allenatore di Mark, promettendogli quell’onore che a suo avviso gli Stati Uniti non gli hanno mai concesso a dovere dopo la vittoria olimpica.
Mark accetta e viene invitato a vivere nella tenuta famigliare di John, Foxcatcher, un tempo usata per la caccia alla volpe e per far correre i cavalli, e adesso adibita a moderno centro sportivo. Sarà l’evento che cambierà drasticamente le vite dei tre uomini…
Nel film del bravo Bennett Miller, vincitore del premio come Miglior Regia al Festival di Cannes, sono riscontrabili alcuni tratti essenziali già ravvisati nel suo lungometraggio d’esordio, Truman Capote: atmosfera cupa, fotografia spenta e riprese realizzate per lo più in luoghi chiusi e dai colori predominanti tendenti allo scuro; una metafora della tragedia che si consumerà nel corso del racconto.
In effetti, il principale merito del film è proprio quello di trasmettere allo spettatore una costante sensazione di angoscia e pessimismo, e di lasciare addosso una certa tristezza durante lo scorrere dei titoli di coda.
L’assenza anche del più debole barlume di positività e la non proprio raggiante ambientazione contribuiscono a creare un clima di tensione, che riflette l’animo tormentato dei protagonisti.
I tre personaggi hanno sfaccettature molto diverse tra loro e le lunghe sequenze sono indirizzate a farci osservare ogni minimo dettaglio dell’inquadratura, in modo da mettere bene a fuoco la loro fisionomia e la loro personalità.
Mark Schultz, il secondo dei fratelli, è psicologicamente il più fragile e insicuro; nonostante la medaglia d’oro a Los Angeles, Mark ha vissuto l’intera esistenza all’ombra del fratello maggiore, David.
Tanto il primo ha lo sguardo assente ed è fondamentalmente un uomo solo, senza amici e senza affetti, tanto il secondo ha un carattere forte, vive una vita tranquilla ed è sposato con una bella donna.
Naturalmente, il personaggio che più di tutti impone la propria presenza e rimane ben impresso è il terzo uomo, il patriota e guerrafondaio John du Pont, egregiamente interpretato da un inedito Steve Carell, qui al suo primo ruolo drammatico importante in carriera. Il sogno di John, innamorato fin da piccolo del wrestling ma impossibilitato a praticarlo a causa del veto imposto dalla madre, è quello di diventare un allenatore famoso in tutto il paese e di portare la squadra americana di lotta libera ai giochi olimpici del 1988.
Il personaggio viene presentato come un soggetto inquietante e paranoico, che prova estremo piacere nell’avere costantemente i riflettori su di sè e che pretende di essere considerato un mentore e un esempio per i più giovani, per potersi sentire appagato in un’esistenza altrimenti vuota, schiacciato dal peso del suo cognome.
Al centro della storia vi è ancora una volta la fragilità psicologica dell’uomo americano e il bisogno di un’intera nazione di avere una figura paterna che la guidi e la aiuti a superare gli ostacoli della vita, qui identificata nella figura dell’allenatore-maestro; “Io sono una guida per gli uomini e regalo all’America sogni e speranze”, dice du Pont, destinato a diventare il nuovo precettore del fragile Mark, sostituendo il fratello David nel ruolo di padre putativo.
Il ritmo è compassato e i dialoghi sono ridotti all’osso, ma è tutto calcolato per fornire mistero agli sviluppi della trama e per far assimilare allo spettatore i delicati equilibri che si vengono a creare fra i tre uomini; si sta come in costante attesa di un qualcosa che deve accadere da un momento all’altro.
E per uno che non conosce la storia vera, dalla quale è tratto il film, il colpo di scena finale pesa come un macigno ed è brutale nella sua repentina esecuzione.
Foxcatcher è una fredda parabola sui lati oscuri del sogno americano, un viaggio nella tragedia e nella follia umana messa in atto con una regia professionale e al servizio di tre attori in stato di grazia: il già citato Carell, che ci ha sempre abituato a personaggi buffi in titoli altrettanto leggeri è bravo quanto irriconoscibile, Channing Tatum ci mette il fisico e Mark Ruffalo si dimostra ancora una volta un eccellente attore da spalla (vedi anche i precedenti casi di Zodiac, I ragazzi stanno bene e Shutter Island).
Assolutamente straordinario il lavoro di make up applicato a tutti e tre i volti degli interpreti.
Il sottotitolo italiano “Una storia americana” è assolutamente superfluo, ma non è privo di significato, perché quella che Miller ci mostra è la metafora di una nazione che sente il bisogno inconscio di avere un punto di riferimento, che non sempre si dimostra all’altezza.
Quando sei carente di protezione, di guida e di fiducia, ti senti in dovere di buttarti nelle braccia di chiunque dimostri un minimo di interesse nei tuoi confronti e che susciti un’immediata empatia.
È il bisogno inconscio di avere qualcuno accanto che creda in te, che ti supporti e che ti protegga, da tutto quanto ci possa essere di pericoloso al di fuori delle mura domestiche, che per il cittadino americano medio costituiscono non solo il bene fondamentale e cardine di ogni nucleo famigliare (in maniera anche maggiore rispetto alla mentalità europea), ma rappresentano anche metaforicamente la linea di separazione tra il bene e il male (e se avete mai visitato la provincia americana, vi sarete accorti di come per strada non giri praticamente nessuno).
In ogni caso, non sempre gli esiti si rivelano fortunati, come ci mostra il finale del film di Miller, bello quanto amaro.
Se il rapporto che si viene a creare tra l’atleta Mark e l’allenatore DuPont già rispecchia in maniera efficace il concetto del figlio-padre metafora di un paese intero, quello tra i due protagonisti di The Master, capolavoro targato Paul Thomas Anderson, assume ancora di più se possibile connotati metaforici.
Non è un caso che abbia scelto questi due titoli, in cui la personalità dei personaggi che si muovono è frutto dei due mondi che più di tutti, forse proprio insieme al cinema, rappresentano gli Stati Uniti nel mondo: la competizione sportiva e la guerra.
L’atleta Mark, vincente ma tormentato, appartiene alla stessa cerchia del reduce di guerra Freddie Quell, che vive il rientro in società con un tale malessere da non riuscire più da solo a ricominciare a vivere con serenità e lucidità.
Il ritorno a casa per il marine Freddie non è semplice, ed è chiaro che non lo sarebbe per nessuno; ma lui, animo sensibile, sembra anche nascondere un segreto, che lo dilania nell’anima.
Costretto alla fuga a causa di un incidente che l’ha visto come protagonista (e colpevole) Freddy raggiunge San Francisco, dove si imbarca di nascosto sulla nave usata da Lancaster Dodd, leader di una misteriosa organizzazione.
È qui che avviene il primo incontro tra i due uomini, che cambierà le rispettive vite.
Non entro nel merito delle ipotetiche ispirazioni della pellicola, se in fondo questa sia o meno la storia vera sussurrata di Scientology, non importa; quello che mi preme è mettere in evidenza il modo straordinario con cui PTA racconta la nascita e lo sviluppo del rapporto ambiguo quanto intimo tra i due protagonisti maschili, che rende The Master uno delle migliori opere del nuovo secolo.
Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix, entrambi nominati agli Oscar ed entrambi premiati a pari merito alla Mostra di Venezia con la Coppa Volpi sono assolutamente perfetti nel dare fattezze a due personaggi agli antipodi, che si compensano a vicenda in maniera sublime: il ruolo di uno esiste in virtù del ruolo dell’altro.
Da una parte c’è Freddy, personificazione di un’America ancora ferita dal secondo conflitto mondiale (la storia è ambientata nel 1949), che sente il bisogno inconscio di essere salvato, di trovare una forte figura che si occupi di guidarlo, che gli faccia superare il trauma della guerra e lo faccia reintegrare nella società; dall’altra l’enigmatico Lancaster, simbolo del potere e della conoscenza, messi a disposizione per un fine ben preciso.
La figura di Freddy costituisce per Lancaster un terreno fertile per poter sperimentare e in seguito pubblicizzare l’efficacia del trattamento antropologico descritto nel suo libro culto, “The Cause”, che riprende il nome della setta di cui il personaggio di Hoffman è a capo.
L’inquieto Freddy appare dunque come la cavia perfetta, l’animale da studiare in gabbia, da curare prima e da liberare poi.
La sua ipotetica guarigione costituirebbe, per Lancaster e sua moglie Sue (la sempre immensa Amy Adams), una delle testimonianze del successo di The Master, tale è l’appellativo con cui è conosciuto il leader presso i suoi proseliti, che possa quindi zittire scettici e detrattori dell’organizzazione, e lanciare il suo nome nel panorama mondiale.
Tutti e due gli uomini hanno allora qualcosa da dimostrare, in primis a se stessi, per cercare un proprio posto nel mondo.
Non importa che allo spettatore rimanga il dubbio sul perchè effettivamente le strade dei due uomini alla fine si separino, o del perchè Freddy decida di andar via, perchè l’intento ultimo del regista è quello di traslare sul grande schermo il cuore oscuro di un paese senza speranza che rispecchia i tempi contemporanei, in cui non è rimasto più nulla in mezzo ai due estremi della corda sociale.
È per questo motivo che The Master costituisce uno dei tasselli più fulgidi della filmografia di Anderson, da sempre maestro assoluto nel sublimare i due essenziali componenti del peccato originale a stelle e strisce; se con il precedente Il petroliere l’oggetto d’indagine era il denaro, qui è il potere della religione nella sua accezione più ampia a diventare strumento di disvelamento dell’ipocrisia americana.
La relazione che si viene a creare tra i due protagonisti del film è di attrazione e repulsione, come nella miglior tradizione dei rapporti instaurati tra un maestro e un allievo, tra un padre e un figlio, ed è orchestrata talmente bene dalla mano talentuosa del regista, che rischia quasi di far passare in secondo piano l’altra grande qualità dell’opera, ovvero la sua bellezza visiva, resa possibile dal glorioso formato 70mm, dalla raffinata fotografia di Mihai Malaimare e dalla perfetta ricostruzione d’epoca, sia nella scenografia che nei costumi.
Il miliardario e megalomane Du Pont e il disadatto e tormentato Mark, tanto quanto il carismatico e influente Lancaster e l’afflitto Freddy rappresentano rispettivamente le due facce della stessa medaglia, dello stesso tessuto sociale statunitense, dello stesso paese.
È per questo che il loro incontro, nella vita reale come nella finzione cinematografica costituisce il pretesto perfetto per analizzare una società che come già detto sopra, vive sin dalle sue origini di estremi e assoluti: ricchezza e povertà, Wall Street e Main Street, grattacieli e campagna, metropoli e provincia, repubblicani e democratici, successo e follia.
Foxcatcher e The Master, seppur diversi nel contenuto e nella forma, riflettono dunque l’esigenza dell’uomo americano, vero o di finzione, spettatore o protagonista, di avere un appiglio a cui aggrapparsi, una mano invisibile che lo possa condurre lungo il percorso di un’esistenza, quella statunitense, che più di tutte le altre è fondata su dogmi perentori e predefiniti, ma in equilibrio precario, che tanto possono rassicurarti quanto turbarti, sollevarti quanto abbatterti: Dio, patria, famiglia.
Mark Schultz e Freddy Quell ne sono la più limpida e tragica testimonianza.
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3 commenti
Valentino Palazzo
6 anni fa
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Pierluca Parise
6 anni fa
Ho proprio scelto consapevolmente di impostare l'articolo in questo modo; il fulcro del discorso è di tipo storico-sociale, e per supportare il mio punto di vista (sull'America contemporanea e il rapporto padri-figli) mi soffermo su due film in particolare, cioè The Master e Foxcatcher, la cui analisi si inserisce appunto in un discorso di più ampio respiro.
Solo per chiarire ;)
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Pierluca Parise
6 anni fa
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