Cosa accomuna i detective di ogni epoca storica e di ogni filone letterario o cinematografico?
Il poliziesco, il giallo, il noir fanno leva su un metodo sviluppato alla fine dell’Ottocento nell’arte, nella psicanalisi e nelle scienze umane, evidenziato da Carlo Ginzburg nel 1979: il paradigma indiziario.
Il paradigma indiziario è una modalità interpretativa basata sull’indizio e sul dato apparentemente marginale, un metodo che ricerca la soluzione nello scarto, nella serendipità, promuovendo l’idea di una conoscenza indiretta.
Nella maggior parte delle rappresentazioni letterarie e cinematografiche il detective segue un processo ben definito che parte dalla raccolta di tracce e indizi, attraverso un momento di induzione che gli consente di elaborare alcune ipotesi. A partire da questa ipotesi, attraverso la deduzione, l’investigatore interpreta gli enigmi cercando le prove; infine opta per un ragionamento di tipo abduttivo, processo logico tipicamente scientifico, per cui tende a escludere tutte le possibilità rimanendo con una soltanto che, inevitabilmente e per quanto assurda sembri, è per forza la soluzione.
Così fa Auguste Dupin, il detective ideato da Edgar Allan Poe, sin dalla prima opera in cui appare, I delitti della via Morgue, considerata la prima detective story della letteratura occidentale.
Questa la strada percorsa anche da Arthur Conan Doyle e il suo Sherlock Holmes, con il quale la conoscenza diventa realmente enciclopedica.
Nelle storie di Sherlock l’ossessione per il dato spinge il detective a uno sforzo che va oltre la comprensione del delitto: ogni dettaglio diventa allora motivo di indagine a livello visivo, compositivo e tattile.
Sherlock, come Dupin, vede ciò che gli altri non vedono ed esercita un ragionamento logico basato sull’eliminazione dell’impossibile.
[Lo stereotipo dell’interrogatorio all’inglese rielaborato da Bruno Corbucci nel poliziottescoSquadra antitruffa, attraverso la trivialità del più grande detective comico del nostro Cinema: Nico Giraldi]
Lo sviluppo della figura dell’investigatore coincide con la nascita del giallo (termine più appropriato per la lingua italiana, in relazione alla celebre collana Mondadori) e del poliziesco, declinazione specifica in cui le indagini sono affidate, appunto, a uomini appartenenti alle forze dell’ordine.
È impossibile fare un discorso appropriato sul personaggio-tipo protagonista di questa Top 8 senza considerare la sua origine e il suo territorio di consacrazione.
Il detective nasce nel romanzo poliziesco, un genere basato sulla ripetibilità di una formula ben precisa - l’inchiesta - che si è canonizzata nel tempo in una posizione di costante dialogo con la modernità e le invenzioni tecnologiche.
Più di 50 anni fa Tsvetan Todorov cercava di tratteggiare i confini di questo genere letterario, suddividendolo in tre particolari tipologie che trovano immediatamente riscontro nella riproposizione della formula sullo schermo: il romanzo enigma, il romanzo nero e il romanzo suspense.
Nel romanzo enigma il detective è infallibile e si muove all’interno di un’indagine che è fondamentalmente un lento apprendistato tra la scoperta del delitto e la risoluzione del caso.
È insomma il giallo classico à la Agatha Christie, caratterizzato da una struttura geometrica tradizionale e ambientato in uno spazio isolato e circoscritto in cui i sospettati fanno parte di una cerchia ristretta.
La formula enigma - o whodunit - si è spesso catapultata nella serialità televisiva con successo anche come prodotto di animazione (il detective Conan ideato da Gōshō Aoyama); d’altronde la ripetibilità della classica detective story sembra essere stata creata appositamente per una fruizione seriale e una modalità di consumo che appartiene genuinamente al mezzo televisivo.
[Dopo decenni e decenni di rappresentazioni, Hercule Poirot di Agatha Christie ha trovato in Kenneth Branagh il suoideale interprete contemporaneo]
Nel romanzo nero invece il racconto coincide con l’azione, perciò lo spettatore segue la trama grazie alla curiosità e alla suspense, mentre osserva il detective sperimentare la violenza rischiando la vita.
A questa tipologia appartiene la letteratura hardboiled, il giallo statunitense per eccellenza, in cui spesso l’investigatore privato utilizza metodi non meno violenti di quelli di un criminale.
Dashiell Hammett e Raymond Chandler sono gli esponenti principali del filone: il primo è l’inventore di Sam Spade, il detective protagonista de Il falcone maltese.
Cinico e senza scrupoli nei rapporti umani e professionali, il "private eye" di San Francisco dai modi duri e dall’indiscussa rigidità morale irrompe sullo schermo cinematografico con il volto, il corpo e la voce di Humphrey Bogart nell’ormai celebre Il mistero del falco di John Huston.
Nonostante le poche apparizioni Spade è divenuto uun personaggio centrale nello sviluppo del genere, influenzando anche lo stesso Chandler nella costruzione di Philip Marlowe, un detective freddo e brutale, incline al ragionamento silenzioso e alla contemplazione, amante delle donne, del whisky e degli scacchi.
Immerso nei bassifondi metropolitani tra delinquenza, corruzione e dark ladies, Marlowe è diventato icona nel Cinema sempre grazie a Bogart per la sua interpretazione ne Il grande sonno di Howard Hawks e successivamente a Elliott Gould ne Il lungo addio di Robert Altman.
[Humphrey Bogart ne Il mistero del falco: Sam Spade è il tipico detective noir, abile nell'arte dell'inganno e in costante bilico tra il bene e il male]
L’ultima distinzione secondo Todorov è inscrivibile nella definizione di romanzo suspense, risultato dell’ibridazione tra enigma e nero con detective vulnerabili e integrati nell’ambiente, oppure con detective non-detective, personaggi che in qualità di testimoni oculari di un delitto si improvvisano investigatori per provare la propria innocenza.
Qui la formula si apre ai generi e gli esempi cinematografici si sprecano, tuttavia in questo senso il thriller hitchcockiano ha sicuramente un impatto fondamentale che investe in primis il Cinema nostrano. Le caratteristiche tipiche del detective iniziano ad adattarsi sempre più a esigenze narrative specifiche, focalizzate sul coinvolgimento emotivo e soprattutto sulla costruzione della tensione.
La visione poi diventa centrale: è la presenza di un testimone oculare, con la sua inevitabile fallacia, a scatenare l’indagine.
A volte l’indagine implode e si suddivide in continui tentativi di decifrazione, distribuendo la funzione del detective ai vari personaggi coinvolti nell’azione, come ad esempio ne La ragazza che sapeva troppo di Mario Bava.
Ne L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento, invece, il detective interpretato da Enrico Maria Salerno non è protagonista, ma si presenta grazie alle sue competenze scientifiche, alla sua abilità nell’arte dell’interrogatorio e viene aiutato da un testimone che lotta contro sé e contro gli altri per riuscire a ricordare ciò che ha visto.
Il Cinema più contemporaneo non fa altro che rielaborare la formula classica dell’inchiesta, costruendo detective che sono spesso il risultato di una commistione tra i tratti caratteristici dell’investigatore e le coordinate di genere.
Qualunque sia la loro collocazione, i detective della letteratura e del Cinema sono mossi da un’ostinata ricerca della verità e dalla necessità di far trionfare la giustizia.
Oltre il paradigma indiziario, che è poi il metodo attraverso il quale raggiungere tale obiettivo, è forse questo l’elemento comune più lampante tra i protagonisti dei numerosi gialli, thriller, noir e polizieschi.
Grazie agli Amici di CineFacts.it che hanno scelto questo tema per la Top 8 del mese, la redazione ha cercato di mettere in risalto alcuni dei più interessanti investigatori apparsi sullo schermo fino ad oggi.
Tagliente, distaccato, iconograficamente consueto, Mark McPherson potrebbe apparire come un'incarnazione tra le tante di un archetipo talvolta risoltosi in funzione puramente narrativa, collante à la Jerry Thompson di Quarto potere.
Gettato nelle pieghe raffinate di Vertigine, il personaggio interpretato da Dana Andrews si rapporta tuttavia in maniera cruciale con un'istanza narrante che non trova - al di là dell'ingannevole voice-over - un portavoce diegeticamente ben individuato.
Alle ombre che proiettano sul tenente tibia-d'argento attributi tradizionali subentrano presto le avvisaglie di uno sconvolgimento remoto, un'eco che incresperà appena la celluloide, dopo un punto di rottura stilisticamente urlato.
Incaricato di indagare sul presunto omicidio di Laura Hunt, Mark resta progressivamente incastrato tra i tentacoli di questa femme fatale distante, che incombe nella forma di un quadro come Alice/Joan Bennett nel coevo La donna del ritratto.
Da semplici osservatori o sospettati, coloro che erano vicini a Laura si trovano trasportati in una sottile ridefinizione di ruoli che ha in Mark un perno ambiguo.
Superando un piano strettamente narrativo che accordi indistintamente fiducia a ciò che affiora fattualmente, ma senza giungere all'opposta delegittimazione che talora scaturisce dall'onirico, Mark non si distingue in superficie dalle altre incarnazioni dell'archetipo.
È solo assecondando le crepe disseminate qua e là che la pellicola rivela una sotterranea messa in discussione che, oltre a consentire un discorso autoriflessivo, moltiplica (apre? annulla?) il significato di tutto il rappresentato.
Se il potenziale attacco a un ideale di razionalità che guiderebbe il genere è sicuramente un punto di interesse, specie inquadrando Preminger nella schiera di cineasti europei trapiantati a Hollywood, è però soprattutto il gioco che intercorre tra le varie materializzazioni delle istanze narranti ad ammantare Laura - il titolo originale del film e la donna in sé - di un fascino irresistibile.
Nel 1965 Jean-Luc Godard era nel pieno del suo fermento artistico e tra Bande à part e Il bandito delle 11 decide di mettere in scena un film atipico, in cui la sua voglia di piegare il linguaggio cinematografico alla sua poetica raccontando antieroi si riversa in un genere che toccherà solo una volta: la fantascienza.
Il film in questione è Agente Lemmy Caution: missione Alphaville, un film in cui una Parigi nel pieno della trasformazione urbana degli anni '60 diventa Alphaville, teatro di un futuro distopico, asfissiante e rarefatto; in questo contesto si muove il detective interpretato da Eddie Constantine, che aveva già prestato il volto a Lemmy Caution, nella tipica maschera antieroica del detective noir.
Un noir che dialogando con la sua versione più classica, grazie anche all’ispirazione al personaggio inventato da Peter Cheyney - anche autore di Slim Callaghan - si tinge di contrasti e silenzi in cui l’agente Caution rappresenta l’oscurità della perdizione, del dolore e della razionalità, mentre la femme fatale Natacha von Braun (Anna Karina) è la scintilla pura che può rivoluzionare Alphaville: il tutto è amplificato da un bianco e nero mai così contrastato e protagonista nel Cinema di Godard.
Lemmy Caution è un agente duro e cinico, che indossa un lungo cappotto nero, fuma sigarette senza sosta e non esita a usare la violenza quando necessario.
È un antieroe classico e senza compromessi, che osserva rigidamente il suo codice morale e che si muove attraverso il mondo di Alphaville con un obiettivo preciso.
Come in ogni noir che si rispetti è un uomo complesso, misterioso, solitario e segnato dalla sofferenza; proprio in questa costante tensione la sua morale si scontra con le sensazioni che Natacha provoca in lui e la sua ricerca di senso e ordine non basta a fargli digerire la rigida realtà di Alphaville.
Lemmy Caution, pur nelle sue contraddizioni, è quindi un rivoluzionario, un ribelle, un uomo che per seguire il suo istinto e la sua morale è pronto a rovesciare l’ordine delle istituzioni di cui fa parte.
Un uomo che sembra immobile nella sua rigidità ma che diventa simbolo della messa in discussione dei meccanismi di controllo, della deumanizzazione della società moderna e dell’alienazione sociale in tipico stile godardiano.
L'investigatore Jimmy "Popeye" Doyle è quanto di più lontano dai numerosi stereotipi del detective possiate immaginare.
Lontano dall'aplomb britannico di Sherlock Holmes e dei suoi epigoni e sprovvisto di ogni patinata sofisticazione che ha contaminato il genere negli anni a venire, il protagonista de Il braccio violento della legge interpretato da Gene Hackman è caos puro.
Le sue modalità di indagine sono nevrotiche, ripetitive, rabbiose.
La somma di queste caratteristiche lo conduce spesso in vicoli ciechi: più che mosso da un autentico amore per la verità e la giustizia, questo spigoloso detective newyorkese sembra mosso da una naturale propensione alla violenza e da un sentimento di vendetta.
"Popeye" prende tutto piuttosto sul personale e quando dopo numerose insoddisfazioni professionali scopre un losco traffico di stupefacenti tra la mala newyorkese e quella marsigliese - il titolo originale del film è The French Connection - se ne lascia del tutto ossessionare.
Ad affiancarlo nella ricerca del misterioso Alain Charnier, interpretato da un ottimo Fernando Rey, c'è il suo collega Buddy Russo (Roy Scheider), con cui condivide metodi non ortodossi e fallimenti.
Jimmy Doyle, personaggio che valse a Hackman il suo primo Premio Oscar, rappresenta una visione deformata dell'esecuzione della legge.
Una visione del mondo in cui la repressione violenta supera di gran lunga la regolamentazione delle dinamiche sociali, in cui il fine vale in maniera netta e maldestra ben più dei mezzi. Anche quando non viene raggiunto.
A rendere possibile la perfetta riuscita di un'opera così carica di implicazioni anche di natura morale c'è la regia illuminata di William Friedkin, che con mano ferma, nessuna carica retorica e una sensibilità spiccata per la tensione e le scene d'azione dirige uno dei capi d'opera della Nuova Hollywood, ridefinendo la concezione del poliziesco statunitense.
Burny Mattison, David Michener, Ron Clements e John Musker, 1986
Ci sono diversi film di animazione in cui l’investigazione fa da protagonista - Le avventure di Bianca e Bernie o Zootropolis sono quelli di maggior successo - e tra primi in assoluto abbiamo il memorabile Basil l’investigatopo, tratto dai romanzi per l’infanzia di Eve Titus intitolati Basil of Baker Street, a loro volta ispirati al più famoso e importante investigatore della letteratura di genere: Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle.
Il film si apre con un mistero: il padre della topolina Olivia Flaversham viene rapito da una losca figura.
Poco dopo, il dottor David Q. Topson incontra per caso la piccola Olivia e decide di aiutarla a trovare il “grande topo detective” chiamato Basil.
I due incontrano quest’ultimo e gli spiegano l’accaduto, ma Basil si convince ad aiutarli solamente quando capisce che dietro il rapimento c’entra la sua nemesi: il famigerato professor Rattigan.
Basil rappresenta - come si può intuire dal personaggio da cui è ispirato - il più classico degli investigatori: minuzioso e attento, intuisce sempre come muoversi e come gestire una situazione anche nei momenti in cui tutto sembra perduto; in pochi attimi si fa strada tra i più infimi dettagli e, grazie a delle mosse astute, anticipa con facilità l’avversario.
Ovviamente anche il suo nome non è un caso, bensì un vero e proprio omaggio all’attore Sir Basil Rathbone, famosissimo per aver interpretato più volte proprio Sherlock Holmes.
Al suo fianco non può mancare un fedelissimo compagno, il dottore David Q. Topson (ovvero il DottorWatson di Doyle), empatico e caritatevole, che contribuisce nell’affrontare il professor Rattigan (corrispettivo di Moriarty), affascinante, intelligente quasi quanto Basil ma accecato dall’invidia e dalla sete di potere.
Nonostante la pellicola ai tempi non abbia riscosso particolare successo, Basil l’investigatopo rappresenta un punto chiave per la Disney che verrà, grazie all’aggiunta per la prima volta non solo di una lunghissima scena in CGI (il combattimento nel Big Ben) ma anche di una scena interamente cantata da un personaggio in stile musical hollywoodiano.
Gettnado le basi per la fase che adesso è nota come “Rinascimento Disney”.
Il liceale Brendan Frye (Joseph Gordon-Levitt) decide di indagare sull'omicidio della sua ex, morta poco dopo averlo contattato in cerca d'aiuto.
Gli indizi lo condurranno verso un giro di droga gestito dal misterioso Pin, portando così il ragazzo a infiltrarsi all'interno della sua organizzazione criminale per scoprire chi l'abbia uccisa e perché.
Ispirandosi ai romanzi hard-boiled e ai classici del Cinema noir, Rian Johnson debutta alla regia di un lungometraggio con una detective story ambientata però in una scuola superiore dei giorni nostri, servendosi quasi esclusivamente di interpreti a malapena maggiorenni.
Brick - Dose mortale non è però inquadrabile nei canoni di un semplice teen drama a tinte gialle: il suo protagonista, così come gli altri personaggi che popolano questo mondo, si comportano e parlano come se fossero usciti da una storia pubblicata sulle prime riviste pulp, creando così un cortocircuito comico che restituisce un effetto a tratti straniante.
Gli archetipi e i tòpoi del genere ci sono tutti: la vecchia fiamma, la femme fatale, il fedele aiutante, la figura autoritaria con cui trattare ma della quale non fidarsi, il nemico intelligente e affascinante con annesso braccio destro tutto muscoli e niente cervello.
Così come ricatti, false piste, doppi e tripli giochi, una lunga lista di sospettati e gli immancabili colpi di scena.
Lo stesso Brendan Frye, lungi dal risultare un prototipo del futuro Benoit Blanc, è un investigatore tormentato, cinico, disincantato, con la risposta pronta, senza peli sulla lingua e che non rinuncia mai a una scazzottata.
Il suo sarà anche il corpo di un ragazzo ma ha l'anima di un Philip Marlowe, di un Dick Tracy o del J.J. Gittes di Chinatown.
Una quindicina d'anni prima di Cena con delitto - Knives Out, Johnson si presenta al pubblico con un'opera che prova a riadattare il genere risultando al tempo stesso sia un tributo sia un tentativo di de-costruire quel filone dei film gialli nel quale la violenza non si limita agli omicidi, ma contraddistingue tutto l'ambiente nel quale si muovono i vari personaggi.
Nightmare Detective - Il cacciatore di sogni e il sequel Nightmare Detective 2 rappresentano l'incursione di Shin'ya Tsukamoto nel genere poliziesco.
Tra investigazioni, inseguimenti e killer dai poteri paranormali capaci di uccidere infilandosi negli incubi altrui, non mancano i temi tipici dell'autore giapponese: l'autolesionismo e il sadismo, il parallelismo tra le ferite e le malformazioni del corpo e i traumi più reconditi dell'animo umano, l'alternanza tra l'inconscio e la realtà che si innesta su due livelli, quello psicanalitico e quello sociale, legato a doppio filo con le idiosincrasie della società giapponese.
Il protagonista dei lungometraggi è Kyōichi Kagenuma, conosciuto come "detective dell'incubo": il giovane ha la capacità di intervenire nei sogni altrui, ma non ne trae appieno giovamento.
Il ragazzo infatti è sfiancato psicologicamente e fisicamente dalle proprie capacità paranormali, è debole e infelice, incline alla depressione.
Le indagini nei meandri onirici altrui rappresentano per Kyōichi la possibilità di affrontare i traumi del suo stesso passato, tra cui la morte prematura di sua madre, e di compiere un percorso di crescita e autocoscienza.
Kyōichi ha un'estetica dark e sciatta, è un superuomo soffocato ineluttabilmente nella catastrofe industriale, si muove sullo sfondo di una metropoli asettica in cui la tecnologia è strumento di morte, in particolare i cellulari, la cui funziona comunicativa trascende le caratteristiche tecniche.
La sua figura si contrappone a quella di Keiko, una detective risoluta e ambiziosa, spesso osteggiata in quanto donna in un contesto a prevalenza maschile.
L'investigatrice avrà bisogno dei poteri del "detective dell'incubo" per risolvere una serie di misteri intorno a dei violentissimi suicidi.
Nonostante le differenze tra la personalità e l'estetica di Keiko e Kyōishi entrambi sono affascinati dal suicidio, dalla possibilità di un'eternità di vuoto in cui le aspettative della società non hanno spazio e i dolori del passato non possono più imporsi sul presente.
Forse solo un regista come Paul Thomas Anderson poteva adattare per il Cinema Vizio di forma, il romanzo psichedelico partorito dalla penna di Thomas Pynchon.
Manifesto di un’epoca e del suo decadimento - siamo nel 1969, in piena controcultura - Vizio di forma traspone lungo le sue pagine, e attraverso gli occhi del detective privato Larry “Doc” Sportello, un mondo allucinato in perenne bilico tra lo Stato di polizia e la piaga dell’eroina.
Guardando al modello altmaniano de Il lungo addio, Paul Thomas Anderson crea un racconto corale che smarrisce gradualmente le proprie coordinate annegando nella mente di “Doc”, sempre più annebbiato dai fumi dell’erba.
Probabilmente se Rick Dalton di C’era una volta a… Hollywood avesse incontrato Sportello lo avrebbe definito senza mezza termini un "Hippie del cazzo”.
Eppure non possiamo fare a meno di seguire questo detective privato che per amore - la sua ex ragazza Shasta si è presentata a casa sua in cerca d'aiuto - finisce in una vicenda più grande di lui, in una Los Angeles che è un sottobosco pieno zeppo di personaggi stralunati e misteri irrisolvibili.
Con il passare del tempo per Larry “Doc” Sportello ogni cosa assume connotati sempre meno chiari, non solo per il quantitativo di droghe che assume, ma soprattutto perché si sente fuori posto, fuori epoca.
Il suo personaggio è figlio della letteratura hard boiled, perciò molto vicino al detective Philip Marlowe, protagonista de Il lungo addio e dei romanzi di Raymond Chandler.
Sebbene, quindi, “Doc” possa presentarsi come poco professionale in realtà il suo valore da un punto di vista di etica del lavoro è incontestabile, come asserisce durante il film “Bigfoot”: “Nonostante i problemi coi capelli e l’uso di droghe, non ho mai pensato di te che fossi meno che professionale”.
Larry rimpiange i tempi dei grandi detective privati e Paul Thomas Anderson, attraverso questo sentimento nostalgico di un Paese che non esiste più, costruisce un film che è una rilettura del neo-noir di Robert Altman, mettendo probabilmente il punto conclusivo a questo genere.
Da Seven in poi i detective al cinema sono diventati sempre più drammatici, possibilmente accompagnati da secchiate di pioggia e maledetti da disturbi personali e mentali non da poco.
Passando invece per la TV, dopo True Detective la voglia di incupire questa figura, possibilmente chiudendola nella scatola del genio depresso dal suo stesso decadente sguardo alla realtà, è divenuta quasi una regola. Abbandonati i lividi Jake Gittes e Philip Marlowe del Cinema noir, sempre più di rado sono arrivati sul grande schermo detective legati alla tradizione di questo genere, pur lasciando spazio alla sporadica comparsa di personaggi scapestrati come Doc Sportello o Benoit Blanc.
Quando appare sullo schermo un detective impacciato e sopra le righe ogni fibra del mio corpo vibra di felicità perché, per quanto sia innamorato del noir e del mistery, trovo tremendamente affascinanti le derive che ammiccano alla commedia.
Quando nel 2016 arrivò al cinema The Nice Guys di Shane Black, apparve come un miraggio, San Pietro sopra la traversa o un sogno lisergico troppo bello e stroboscopico per essere vero.
Siamo nel 1977: a Los Angeles ci si preoccupa per gli elevati picchi di smog, "little girls from Sweden dream of silver-screen quotation” come cantano i Red Hot Chili Peppers e quella della pornografia è una crescente industria che nutre uno star system molto diverso da quello di Viale del tramonto.
In questo scenario si muovono Jackson Healy (Russell Crowe) e Holland March (Ryan Gosling), due detective privati molto diversi tra loro, eppure perfettamente rappresentativi di due versioni alternative dell’archetipo del personaggio.
Entrambi decaduti e trasandati, ma se quello di Crowe è decisamente un duro quello di Gosling, a discapito della sua intelligenza, riesce costantemente a mettersi in imbarazzo; uno è risoluto e pesante, l’altro è disordinato e impacciato, una sorta di Buster Keaton intossicato dall’alcol e dalla disperazione. I due detective di Shane Black sono maledettamente divertenti e in un mondo un po’ troppo morboso e appesantito dai detective incastrati nel loro ruolo di poeti maledetti, sono esattamente la panacea contro la surreale voglia di inutili drammi.
The Nice Guys è una detective story che avrebbe meritato più fortuna al box office. Un film che regala a Russell Crowe uno dei suoi migliori personaggi, che dimostra la versatilità di Gosling, capace di passare dai toni di Nicolas Winding Refn a quelli jazzistici del Cinema sopra le righe di Shane Black, e che si prende l’attenzione dello spettatore con azioni rocambolesche e situazioni surreali.
4 su 8 ... che scarso !!! Comunque manca il grandissimo Joe Hallenbeck 😉
Un (come sempre) grandissimo grazie a tutta la redazione per l'ennesima Top8 MERAVIGLIOSA
Terry Miller
1 anno fa
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Claudio Bertelle
1 anno fa
Un (come sempre) grandissimo grazie a tutta la redazione per l'ennesima Top8 MERAVIGLIOSA
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