Il 2022 televisivo è stato incredibilmente prolifico e se qualcuno di voi si fosse trovato a soffrire una sorta di series fatigue, sentendo il peso di una montagna di appuntamenti dedicati al piccolo schermo, nessuno della redazione si sentirebbe di biasimarvi.
Netflix, Prime Video, Disney+, AppleTV+, NOW (che si fa carico dei contenuti di piattaforme non ancora presenti in Italia o in Europa) e la nuova arrivata Paramount Plus, hanno travolto il pubblico con centinaia di ore di contenuti, proponendo nuove produzioni tanto quanto finali di serie o nuove stagioni di show immancabili per molti spettatori.
Noi stessi, per quanto indomiti e appassionati, abbiamo fatto fatica a seguire tutte le proposte e a farne le spese è stato soprattutto chi è stato più timido nel fare il proprio ingresso sul panorama dello streaming.
Paramount Plus, difatti, nonostante abbia sul suo catalogo una quantità di opere TV interessanti (Mayor of Kingston, 1883, From, Tulsa King, Tokyo Vice, Circeo o The Offer), ha secondo noi sbagliato nel veicolare i propri contenuti allo spettatore, esordendo sullo scenario con poca convinzione e raccontandosi molto male e con molte lacune.
Per fare un esempio, l’attesissima Tokyo Vice è disponibile, per oscure ragioni, solo in italiano.
Al tempo stesso alcune opere televisive hanno rotto le convenzioni dei formati e persino una serie pop come Stranger Things ha dilatato enormemente il tempo di fruizione, con episodi la cui durata oscilla in un intervallo tra i 64 minuti della puntata più breve, i 75 minuti medi della stagione e il picco massimo di 150 minuti (a nostro avviso infiniti e drammaticamente ridondanti) del finale di stagione.
La televisione del 2022 non ha solo prodotto molto, ma indipendentemente dal genere ha chiesto al pubblico molta attenzione e molto del suo tempo.
Prima di arrivare però a quelle che sono state secondo noi le serie TV più interessanti del 2022 è importante darvi una regola di base: come di consueto su queste nostre classifiche troverete solo esordi, quindi le prime stagioni delle serie TV.
Per questa ragione si renderà necessario fare alcune menzioni d’onore in questa sezione della Top 8.
Partendo obbligatoriamente da Better Call Saul e dalla sua conclusione che, come capita molto di rado sul piccolo schermo, non solo ha offerto un grandioso finale di serie ma è anche riuscita a superarsi con un linguaggio che sul piccolo schermo, soprattutto per quanto riguarda le opere pop di largo impatto, difficilmente si dedica con tanta perizia a raccontare per immagini piuttosto che ammorbare lo spettatore con labirintici dialoghi atti a spiegare ogni cosa, obnubilandone le minime capacità cognitive.
Per quanto riguarda le commedie nessuna serie come Only Murders in the Building è riuscita a tornare per non deludere il suo pubblico, portando su Disney+ una seconda stagione formidabile sia dal punto di vista del giallo che della commedia, consacrando ufficialmente Steve Martin, Martin Short e Selena Gomez come I Tre Amigos 2.0 (se ne faccia una ragione Chevy Chase).
After Life, serie TV del comico britannico Ricky Gervais, ha fatto commuovere e ridere il pubblico di tutto il mondo e nonostante una production value molto semplice e una regia che una volta avremmo definito “televisiva”, apre il 2022 concludendo meravigliosamente un racconto accorato e onesto riguardo il nostro rapporto con la vita, con la morte e con l’assenza di qualcosa che ci dia conforto di fronte all’idea dell’oblio.
Spaziando su altri generi diventa obbligatorio citare per la fantascienza l'ottimaInverso - The Peripheralsu Prime Video, dagli showrunner di Westworld, per il crime Black Bird su AppleTV+ che racconta la storia vera del serial killer Larry Hall e per il fantasy House of the Dragon di HBO - da noi disponibile su NOW e Sky - il prequel di Game of Thrones che ci ha appassionato al punto da dedicargli un podcast speciale e The Sandman su Netflix, tratta dal fumetto omonimo di Neil Gaiman.
Ma sembra adesso opportuno chiudere questa introduzione e arrivare al dunque: le migliori serie uscite nel 2022 secondo CineFacts.it.
La piattaforma streaming di Apple è largamente sconosciuta al pubblico e, grazie anche all’encomiabile (ovviamente sono ironico) lavoro della critica, viene quasi unicamente associata a Ted Lasso.
Tuttavia, come vedrete anche in questa classifica, i motivi per scoprire il servizio dell'azienda di Cupertino sono molti e le opere sono spesso contraddistinte da una production value di altissimo livello sotto ogni punto di vista.
Quest’anno ha esordito Pachinko, serie creata da Soo Hugh basata sul romanzo di Min Jin Lee del 2017, che racconta i due estremi generazionali di una famiglia coreana emigrata in Giappone: la gioventù della matriarca tra Corea e Sol Levante a cavallo tra il 1920 e il 1931 e il nipote, un rampante yuppie in una Tokyo nel pieno del boom economico del 1989.
La narrazione di Pachinko, gestita meravigliosamente dalla showrunner Soo Hugh, crea paralleli tra la capofamiglia e il nipote, esplorando le scelte morali che hanno influenzato il futuro della famiglia e quelle in atto che ne cambieranno il presente.
In particolar modo Pachinko è una storia di migranti che racconta cosa abbia significato per i coreani lasciarsi alle spalle l’occupazione della propria terra da parte dei giapponesi, quali orribili forme di razzismo il popolo nipponico ha esercitato e i crimini che ne sono conseguiti.
Il tutto parlando di amore e risentimenti che riverberano tra il tempo e le generazioni.
Pachinko è scritta con grazia, girata con maestria e recitata splendidamente da un cast che vi conquisterà a partire dai titoli di testa e forse aiuterà molti di noi a ritrovare in questa storia le connessioni dimenticate del proprio albero genealogico e della propria storia, perché l’Italia e gli italiani sono ancora oggi un popolo migrante, e troppo spesso tendiamo a dimenticarlo.
Chi scrive è fortemente legato all’idea di trattare l’animazione come strumento di storytelling e come genere a sé, piuttosto che una branca minore del racconto per immagini.
Per questa ragione anche quando si parla di televisione non posso che gettare uno sguardo alle serie animate e mettere in risalto chi ha saputo lasciare un segno.
Sono anni inoltre che blatero come il gaming sia destinato a divenire il nuovo medium di riferimento per gli adattamenti televisivi e cinematografici e, a ulteriore conferma, se il 2021 è appartenuto alla grandiosa Arcane, il 2022 è di Cyberpunk: Edgerunners, prodotta dallo Studio Trigger in collaborazioone con Netflix.
Lo studio di animazione giapponese lavora con CD Projekt Red, studio di sviluppo polacco dietro Cyberpunk 2077, per consegnare al pubblico questo anime autoconclusivo che ci porta tra le vie più sudicie dell'opulenta e decadente Night City.
Una storia cruda e crudele, dove gli ultimi non hanno speranza, i santi non esistono e la morte porta gloria ai grandi criminali come fossero martiri, rockstar o eroi di un Far West neo-noir futuristico.
Lo Studio Trigger fa una magia e lavorando con il proprio segno visivo, molto particolareggiato, abbraccia lo stile di Cyberpunk, utilizzando anche i limiti di budget tipici delle produzioni anime a puntate per costruire momenti, dare valore a certe scene e smarcarsi da soluzioni pigre che spesso sminuiscono queste opere.
Cyberpunk: Edgerunners è stata così appassionante da risollevare le sorti del titolo dal quale nasce, portando (o riportando), per una volta lo spettatore al videogame e non il contrario.
Credo che in questo 2022 chiunque, a fine visione, abbia speso molto tempo ad ascoltare in loop “I really want to stay at your house”.
La serie TV spy/thriller tratta dai romanzi di Mick Herron arriva sulla piattaforma di Apple a inizio aprile con la prima stagione e proprio a inizio dicembre rilascia una seconda stagione, con una nuova storia.
Peculiare, non è una cosa che si vede spesso ma è sintomo di quanto lo show sia maledettamente convincente.
La serie parla delle avventure di un gruppo di agenti della Slough House, un purgatorio amministrativo dedicato a quegli agenti del MI5 (servizio segreto interno del governo britannico) che ne hanno combinata una piuttosto grossa ma, loro malgrado, non meritano il licenziamento.
Il purgatorio è decisamente peggio e questi “Slow Horses” sono capitanati da Jackson Lamb, uno straordinario Gary Oldman doppelgänger dell’elegante spia de La talpa: scoreggia, beve come un assassino, fuma senza ritegno, ha i calzini bucati, mangia come una bestia e tratta i suoi “Slow Horses” come pezze da piedi.
La prima e la seconda stagione, che si risolvono entrambe in 6 episodi, sono stupende e oltre a consegnarci uno dei migliori spy del piccolo schermo ci regalano uno dei migliori personaggi della TV, in totale antitesi con le spie palestrate e laccate dei vari adattamenti di Tom Clancy.
Slow Horses è l’ennesima gemma offerta dal catalogo AppleTV+.
Disney+ è l’altra piattaforma di questo 2022 ad avermi particolarmente sorpreso per la varietà del catalogo e per quanto poco spinga i suoi cavalli migliori.
In nome del cielo, di FX e Hulu, è uno di questi campioni: serie limitata, adattamento di un romanzo true crime riguardo un terrificante duplice omicidio.
Siamo nel 1984 in una cittadina di una comunità mormone, più nello specifico la LDS Church, La Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, e il detective Jeb Pyre, interpretato da uno stupendo Andrew Garfield, indaga sul tremendo omicidio.
L’indagine diventa a tutti gli effetti una scusa per esplorare l’origine di questa chiesa, i dogmi di questa fede cristiana così radicata e rigida, mettendo fortemente in crisi la fede del protagonista e la sua concezione del mondo che lo circonda.
In nome del cielo non fa leva sul gusto fincheriano, un po’ voyeuristico, spinto verso il pubblico da Mindhunter in avanti, ma cerca, nell’ottima costruzione di un thriller, di portare lo spettatore in un ramo della fede cristiana che probabilmente suonerà lontano ed estraneo, ma che mette sul piatto quanto la religione, fallendo nel dare conforto, è divenuta invece lo strumento perfetto e incontestabile per giustificare i peggiori istinti dell’uomo e l’esercizio di un potere andato troppo oltre.
Abbandonando invece chi sentiva il bisogno di una guida.
Una serie appassionante, ben gestita in scrittura dallo showrunner Dustin Lance Black, dominata dall’interpretazione di Andrew Garfield (affiancato da Sam Worthington, Daisy Edgar-Jones e Wyatt Russell), dall’ottima production value, dalla regia mai sciatta e dalle molte intuizioni di messaggio e scrittura (figlie probabilmente del materiale originale) come il personaggio del detective Bill Taba (Gil Birmingham), satanasso di Las Vegas nonché nativo americano che crea la necessaria dissonanza per portare avanti i contrasti ideologici e le idiosincrasie di quella società.
Vi ricordate di averlo mai visto alle prese con una spy story violenta, dove non vengono risparmiate scene di lotta corpo a corpo, sparatorie, appostamenti, inseguimenti e strategie?
The Old Man è la serie TV che ci mostra un lato mai visto del caro, vecchio Jeff: è un lato inaspettatamente credibile - anche alla luce del linfoma che lo ha colpito due anni fa - dove l'attore riesce a dar vita a un personaggio che viene raccontato episodio dopo episodio.
Dan Chase è un ex agente della CIA, uno di quelli in grado di gestire qualsiasi situazione complicata dove il confine tra la vita e la morte è sottilissimo e dove ogni decisione va presa rapidamente, lucidamente e avendo già ben chiara ogni plausibile conseguenza.
Sono passati molti anni da quando Dan ha deciso di allontanarsi da Langley, ma il suo passato bussa alla porta e dovrà farci i conti per sperare di poter continuare a vivere un'esistenza fatta di rinunce, di fughe, di sotterfugi e nascondigli.
Accanto a quella di un sontuoso e rude Jeff Bridges nella serie brilla l'interpretazione di John Lithgow, altro "grande vecchio" interprete che veste i panni di un pezzo grosso dell'FBI, amico, compagno, collega e pericoloso conoscitore del passato di Dan Chase.
The Old Man è una serie per la quale è perfetto l'aggettivo "crepuscolare", dove le informazioni vengono centellinate e dove lo spettatore è messo costantemente nella condizione di non avere idea di cosa succederà nei minuti suuccessivi, proprio perché non conosce tutti i dettagli: così come la vita e il passato del protagonista, anche gli eventi e i legami tra i personaggi ci vengono mostrati un pezzo alla volta, per darci modo di ricostruire il puzzle lentamente e renderci conto ogni volta di quanto le cose stiano andando sempre peggio.
Elegante nella messa in scena e nella fotografia, coraggiosa nel plot che non lesina colpi bassi alla politica statunitense e al modus operandi dei suoi servizi (più o meno) segreti in Medio Oriente, con interpretazioni imperdibili non solo da parte dei due giganti citati, The Old Man è un gioiellino passato praticamente sotto silenzio, ma che vi consiglio di recuperare al più presto.
Personalmente sto facendo il conto alla rovescia per la stagione 2 dal momento in cui sono partiti i titoli di coda dell'ultima puntata della stagione 1.
Dopo le terribili esperienze di The Book of Boba Fett e Obi-Wan Kenobi, le aspettative nei confronti della nuova serie TV di Lucasfilm dedicata all'universo di Star Wars erano scese sotto il livello degli acquitrini di Dagobah.
Vero è che Andor si portava dietro il buon nome di Rogue One, il film prequel di Guerre stellari che in questi anni è sempre stato un esempio di "prodotto ben fatto" ambientato nella galassia lontana lontana, ormai subissata di sequel, reboot, prequel, sidequel, serie TV e di animazione. Oltre al buon nome la serie conta sulla presenza di Diego Luna, uno dei protagonisti del film che qui ritroviamo alle prese con l'Impero.
Probabilmente però nessuno si aspettava di vedere una serie simile: Andor è forse la cosa più adulta, matura e intelligente che sia mai stata scritta sotto il brand di Star Wars, trilogia originale compresa.
La storia è delle più semplici: come nasce la ribellione? Cosa fa scattare la scintilla che mette in moto decine, centinaia, migliaia di uomini e donne che reagiscono a una dittatura?
Come ci si può mettere d'accordo per rovesciare un Impero, da dove si parte, come ci si muove?
Andor parte da queste premesse per mostrarci tutti i livelli di potere e le varie "caste" che popolano l'universo ideato da George Lucas ormai quasi mezzo secolo fa: ci sono i semplici lavoratori che faticano come operai alla catena di montaggio, ci sono i commercianti, c'è l'élite di privilegiati che ha stretti rapporti con la politica, c'è il potere assoluto e ci sono tutti coloro che per il potere lavorano, messi allo stesso livello degli operai.
C'è di base una profonda insoddisfazione che serpeggia ovunque nella serie: l'Impero non è contento delle reazioni di chi fatica a farsi soggiogare, i popoli non sono contenti di coloro che vogliono soggiogarli.
Andor è una serie TV affascinante e coraggiosa, un ottimo esempio di cosa il mondo di Guerre stellari può regalare oltre a The Mandalorian: non è scontato nel 2022 scrivere e realizzare una serie "di Star Wars" senza i Jedi, senza i Sith, senza le spade laser e senza la Forza, senza neanche lo spazio per le battutine o il classico personaggio che fa da comic relief.
Fanno da contraltare a queste mancanze un'incredibile umanità, dei personaggi veri e credibili con delle motivazioni e dei valori forti, un mondo dove ogni morto è autenticamente sentito e si ha il tempo di piangerlo e di rifletterci sopra.
La serie si prende molto sul serio, ma lo fa con cognizione di causa, d'altronde qualcuno tempo fa disse che "la rivoluzione non è un pranzo di gala".
Il network FX ci ha spesso regalato serie TV di alto livello: il brand di casa Fox passato a Disney nel 2022 ci ha portato sui piccoli schermi un'altra perla intitolata The Bear.
La serie TV mescola il dramma con la commedia e racconta la storia di Carmen, un giovane chef che interrompe la sua promettente carriera nell'alta cucina per tornare nella natìa Chicago a gestire una paninoteca dopo il suicidio di suo fratello maggiore.
Ovviamente il locale è lercio, impresentabile, sudicio, chi ci lavora lo fa controvoglia, senza organizzazione e totalmente alla giornata.
In The Bear ci sono tutti gli ingredienti - pun intended - per una grande serie, nonostante le dimensioni del racconto siano quasi intimiste e le location appena un paio: dal protagonista in giù ogni personaggio è caratterizzato alla perfezione dai primi minuti in cui appare sullo schermo, le dinamiche tra loro sono chiare e l'obiettivo finale limpido.
Lo show smonta del tutto quell'allure che negli ultimi anni ha ricoperto la gastronomia in televisione: i grandi chef stellati qui vengono dipinti - brevemente - come dei montati psicopatici e tutto quello che riguarda la cucina viene mostrato per ciò che è realmente, ovvero una fatica immane, uno stress mostruoso, orari impossibili e una vita invivibile se non da chi sente dentro di sé una passione irrefrenabile, quasi una missione che lo porta a far da mangiare per gli altri.
La macchina a mano è frequente, così come il montaggio frenetico e una fotogrrafia volutamente sporca, piena di oggetti e architetture che impallano i volti sudati, le espressioni allucinate di chi vive dentro a un casino che definire "bettola di quartiere" sarebbe già un complimento enorme.
The Bear sfrutta la tematica della cucina per parlarci di ossessione e di rimorso, di aspettative su di sé e sugli altri, di sogni e di incubi, di come sia utile aprirsi verso il prossimo e farsi domande e di come invece sia un vicolo cieco provare a sbarcare la settimana ripetendo sempre gli stessi errori, sperando che per miracolo a un certo punto succeda qualcosa di diverso.
Ansiogena come un film dei fratelli Safdie, autentica come un documentario, scritta alla perfezione e interpretata magnificamente.
Senza dubbio una delle migliori serie TV di questo 2022.
Se qualcuno vi proponesse di scindere la vostra coscienza in due parti, dove una è dedicata solo al lavoro e l'altra solo alle attività extra lavoro... accettereste?
La risposta immediata da parte di tutti coloro ai quali ho posto la domanda è stata "Sì, certo!".
Ma c'è una trappola.
Perché se è vero che una parte di noi non andrebbe mai a lavorare per starsene a casa, in vacanza, a cena con gli amici o con il partner, godendo dello stipendio e dei benefit annessi, ci sarebbe l'altra parte di noi che lavorerebbe e basta.
Niente riposo, niente cene, nessun tipo di rapporto personale se non con i colleghi: la nostra vita inizierebbe nel momento in cui si passa il badge per entrare a lavoro e terminerebbe quando lo si passa per uscire, senza niente in mezzo; godremmo dei benefici del riposo, ma non andremmo mai a dormire e soprattutto non potremmo mai spendere i soldi guadagnati lavorando: l'ufficio sarebbe l'unico ambiente in cui vivremmo la nostra vita.
Ci andrebbe bene, quindi? Cosa penseremmo noi di quella parte di noi stessi che ci ha ficcati in un incubo simile? Vorremmo uscirne, ma come?
La parte di noi che non lavora non tornerebbe mai indietro sulla decisione presa...
Il concept di Scissione è una delle cose più originali che abbia visto negli ultimi anni di televisione: geniale nella sua semplicità, apre a una serie infinita di domande ed è esattamente così che si muove la serie nel suo sviluppo; domande su domande da parte di chi vive "fuori", i cosiddetti "outies", ma soprattutto da parte di chi vive "dentro" l'ufficio, gli "innies".
La messa in scena che ricorda i prodotti Apple (e forse non è un caso) per quanto sia geometrica, asettica, impostata e con una cura maniacale per la composizione dell'inquadratura è solo uno degli elementi che rendono Scissione una serie TV assolutamente da non perdere, dove tutto dalle musiche alle atmosfere, dal montaggio alla fotografia contribuisce a instillare un'inquietudine fastidiosa sotto la pelle, quella sensazione che si ha quando si sta per guardare qualcosa che sappiamo in anticipo che ci farà inorridire, ma che proprio non riusciamo a evitare.
Al cast è ovviamente richiesto di interpretare due personaggi insieme, uno fuori e uno detro l'ufficio, e tutti rispondono in maniera impressionante, a partire dal protagonista Adam Scott e da Patricia Arquette fino ai noti John Turturro e Christopher Walken, passando per i perfetti Britt Lower e Zach Cherry.
Un incubo distopico che ci sbatte in faccia una realtà che non vorremmo mai vivere, in mano a multinazionali che nemmeno si capisce di cosa si occupino, tra dati da controllare, numeri da scartare e pecore da tosare.
A mio avviso la migliore serie TV del 2022, a partire dai titoli di testa in animazione che senza parole catapultano immediatamente nel mood dello show.