#CinemaeFilosofia
Come dimenticare la celebre saga dei Pirati dei Caraibi, capace di imprimere nella memoria del pubblico una stravaganza unica nel suo genere?
Dall’originalità delle interpretazioni alla fantasia nei costumi e nelle ambientazioni, la saga si è meritata un posto in prima fila tra i cultori dei film di avventura.
Il terzo episodio del franchise, memorabile per i suoi straordinari effetti visivi nonché per la colonna sonora, risulta interessante anche per un altro motivo: ciò che a una prima visione potrebbe sembrare un prodotto filosoficamente spoglio, si rivela invece estremamente fertile a un approccio più accurato.
Il macro-scontro tenutosi tra la comunità dei pirati e la compagnia delle Indie orientali fotografa infatti una dicotomia fondamentale per la Storia umana: laddove la prima incarna lo spirito dell’irrazionale, la seconda propone, di contro, la rigidità degli schemi della ragione.
[Il trailer di Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo]
Leggere Beckett con Max Weber
Secondo la visione del sociologo Max Weber, lo Stato moderno si presenta come ultimo approdo di un processo di razionalizzazione del reale, a scapito dei valori magici e rituali.
Se questo processo, nato nell’ambito del diritto, ha come primo effetto l’eguaglianza giuridica davanti alla legge, produce invece l’impersonalità dei rapporti umani come estrema conseguenza.
Questo perché è vero che la ragione strumentale, ossia la comprensione dei migliori mezzi per raggiugere i fini, è neutra e perciò sfavorisce l’arbitrarietà, ma è altresì vero che non fornisce indicazioni su quali fini vadano perseguiti.
Nel momento in cui la razionalità formale esula dall’ambito giuridico, abbracciando l’intera realtà, lascia il paesaggio sociale spoglio dai valori etici quanto dai sentimenti empatici.
Weber chiama questa possibilità, decisamente più reale ora che non nell’Ottocento, "gabbia d’acciaio", una condizione in cui predomina il pensiero pragmatico a danno dell’etica, fondata su un approccio irrazionale.
Se la ragione si limita a un congiungimento mezzi-fini, la scelta del valore morale da perseguire rimane esterna alle sue possibilità.
Si giunge a una completa equivalenza valoriale che il sociologo ribattezza "politeismo dei valori", dove qualsiasi scelta morale include un elemento arbitrario e irrazionale.
A sostegno di Weber interviene l’incursione sempre più minuziosa da parte delle neuroscienze all’interno del nostro processo decisionale; queste ultime dimostrano infatti che i nostri giudizi morali sono presi in egual misura sia dalla parte emotiva che da quella razionale-calcolante.
Tornando a Pirati dei Caraibi si può osservare come, già dalla prima scena, venga mostrata una metafora esplicativa rispetto a quanto detto fin qui.
Durante l’impiccagione dei pirati la sorte del cappio viene decisa a un ragazzo non più grande di tredici anni, il quale inizia a cantare intonando le note simbolo della comunità piratesca.
Il film inizia con il soffocamento dell’innocenza per mano di quella legge che avrebbe dovuto proteggerla.
Nel nuovo mondo pensato da Lord Catler Beckett (Tom Hollander), non c’è spazio per il candore del sogno: ci sono solo gli affari, il predominio strumentale delle risorse.
Tale prospettiva è confermata dall’antagonista stesso, che rivolgendosi a Davy Jones (Bill Nighy), capitano dell’Olandese volante e terrore dei mari, gli comunica sicuro che il suo mondo è finito, puntualizzando: "l’immateriale è ormai solo immateriale".
Il mare, per sua natura indomabile, viene sottoposto al controllo della Compagnia delle Indie orientali che, fuor di metafora, rappresenta il tentativo di imbrigliare la realtà, di per sé sfuggente alla comprensione umana, in catene razionali e calcolabili.
Come ci ricorda Weber, d'altronde, il primo passo della razionalizzazione sociale è la gerarchizzazione dei rapporti.
[L'impiccagione dei pirati nella prima scena di Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo]
Progresso razionale tra guadagni e perdite
Pirati dei Caraibi mostra il duplice effetto del processo di razionalizzazione: da un lato infatti le armi della ragione sono riuscite a sconfiggere quelle forme di controllo arbitrario e illiberale un tempo predominanti, dall’altro tuttavia, hanno dissolto le grandi ideologie che animavano la vita etica e politica.
Tutto ciò che conta all’occhio delle società contemporanee è l’efficienza; i valori come la giustizia, l’eguaglianza o addirittura la libertà, sembrano ora poco più che pretese infantili.
La scena chiave a tal proposito è il dialogo tra Jack Sparrow (Johnny Depp) e Hector Barbossa (Geoffrey Rush) davanti al gigantesco cadavere del Kraken: nonostante il pericolo rappresentato nel film precedente, il clima emotivo dei due pirati di fronte al mostro spiaggiato è triste, quasi nostalgico; entrambi hanno realizzato che la fine del dominio di Jones sui mari significa anche il declino del loro mondo.
"Il mondo è sempre uguale, è il resto che è più piccolo", la riflessione criptica di Jack può essere letta come la consapevolezza di una perdita. Una volta spodestate le grandi ideologie collettive, così come la fede religiosa, l’uomo si trova atomizzato, ridotto alla sua piccolezza. Se da un lato è indubitabile l’apporto positivo della rivoluzione razionale e del progresso, capace di annientare l’irrazionalismo repressivo, dall’altro il pensiero occidentale si è interrogato solo superficialmente sul vuoto che queste dottrine hanno lasciato alle loro spalle.
Allo stesso modo i nostri pirati saranno sicuramente grati a Beckett per aver ucciso il Kraken, che con il Leviatano di Thomas Hobbes condivide ben più che il solo nome e tuttavia si trovano ora a fronteggiare le conseguenze.
Barbossa è chiaro in merito quando propone al consiglio dei pirati di liberare Calipso (Naomie Harris): la dipartita della dea aveva sciolto i mari dal controllo della superstizione, ma al prezzo di "aprire le porte a Beckett", sinonimo della riduzione del mondo a termini di calcolo.
[Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo: dialogo tra Jack Sparrow e Barbossa di fronte al cadavere del Kraken]
Quando il fuori è povero, guardati dentro!
Le possibili reazioni alla progressiva meccanizzazione della realtà sono esemplificate da una parte da Sao Feng (Chow Yun-fat), pirata nobile di Singapore, e dall'altra da Jack e i suoi compagni.
Il primo difende una narrazione inevitabilista all’interno della quale il progresso, assieme alle sue mancanze, è letto come ineluttabile, un destino manifesto a cui non si può far altro che sottomettersi.
"Non c’è onore nello stare dalla parte del perdente, lasciarla per quella del vincente è l’unica scelta possibile"; così sentenzierà il pirata, che arriverà infatti a rinnegare i propri valori per adeguarsi alle logiche contrattuali di Beckett, rimanendone però, inaspettatamente, deluso.
Riconoscere una tendenza storica tuttavia non implica ad ogni costo l’impossibilità di battersi per migliorarla, ma come ritrovare un senso in un mondo distante dalle rassicurazioni magiche e religiose?
Quando si parla di disgregazione valoriale, la soluzione offerta da Friedrich Nietzsche sembra rimanere la più valida, quantomeno sul piano individuale: bisogna creare da sé i propri valori.
Quando il mondo appare misero, l’unico modo per trovare gli strumenti adatti a costruirsi uno scopo sembra essere scrutare dentro se stessi.
Pirati dei Caraibi propone, in primo luogo, l’accettazione del proprio smarrimento, la presa di coscienza della perdita di tutti i punti di riferimento.
Il percorso di discesa all’interno dello scrigno di Davy Jones, assimilabile all’inabissamento nella parte più intima del sé, inizia infatti con il trovarsi dispersi.
Barbossa dice che "Perdersi è l’unico modo per trovare un luogo che sia introvabile, altrimenti tutti saprebbero dove trovarlo", dove scovare la forza creatrice del fanciullino nietzschiano risulta difficile al pari di spingersi ai confini del mondo.
Sprofondare dentro se stessi richiede però il coraggio di confrontarsi con la propria irrazionalità, con la propria dissennatezza.
Così come l’iceberg sommerso di Sigmund Freud, lo scrigno è un luogo insondabile dai mezzi della ragione, come non mancherà di sottolineare Joshamee Gibbs (Kevin McNally): "Un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini".
Da Dio perché la fede non sembra trovare spazio nel nuovo mondo, dagli uomini perché pochi di noi sono abbastanza audaci per fare i conti con la parte più recondita della natura umana, fatta di istinti incontrollabili e dolori soffocati.
Per diventare Dei di se stessi il passaggio per la follia sembra obbligato.
[Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo: la ciurma capitanata da Barbossa prima dell'ingresso nello scrigno]
Tracciare una rotta
Il famigerato capitan Jack Sparrow fa la prima apparizione proprio all’interno dello scrigno.
L’ambientazione ha un che di onirico, a sostegno dell’intuizione che quando si discende in quel luogo bisognerà confrontarsi non solo con strane creature marine, ma anche con la profondità del proprio inconscio.
La nostra mente, prima di esplicitarsi in azioni, rappresenta il regno del possibile, dove ogni alternativa è teoricamente valida.
Come già scriveva Søren Kierkegaard, esistere è scegliere tra queste possibilità.
Jack viene presentato inizialmente non come un singolo personaggio, ma come l’interazione di una molteplicità di versioni: siamo all’interno del suo delirio, dove le diverse opportunità non si sono ancora sostanziate in una via unitaria.
È questo il processo che attende coloro che ricercano in se stessi la propria verità: in assenza di indicazioni si deve decidere chi si vuole essere, condannando le altre strade a non essere battute.
Il verbo “decidere” deriva infatti dal latino e significa, nella sua accezione letterale, “tagliare via”, a indicare il carattere unidirezionale della scelta che, una volta presa, comporta la morte di tutto ciò che sarebbe potuto essere, in favore di ciò che sarà.
Il nostro pirata, sicuramente anche per compiacere la presenza scenica di Johnny Depp, sceglierà di essere capitano, rinunciando di buon grado ai propri alter ego, diversificati in uno spettro che va da uno strano uomo-gallina al semplice mozzo. L’avventura all’interno dello scrigno permette di cogliere un’ultima indicazione, proposta nell'iconica scena del ribaltamento della Perla Nera. Il processo di rovesciamento della nave è simile a ciò a cui andrà incontro l’individuo dopo la lunga ricerca: un atteggiamento inverso rispetto al conformismo in cui era impregnato in precedenza.
Invece di ricercare un significato all’esterno nel meccanismo sociale, riducendosi inevitabilmente a vivere da ingranaggio, bisognerà forgiarselo da sé.
Coloro che ammireranno il cambiamento da fuori non potranno che concordare con la rivoluzione osservata da Jack: "Ora il sopra è il sotto".
[Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo: Jack nello scrigno di Davy Jones]
In soccorso alla libertà
A ridestare la speranza è principalmente il finale: la comunità dei pirati, riunitasi a consiglio, si trova a fronteggiare un nemico estremamente più numeroso e ben armato.
La superiorità di risorse materiali di Beckett pare non lasciare alcun dubbio, il finale sembra già scritto. Ciò che deciderà le sorti dello scontro però non sarà la maggiore forza militare, quanto la maggiore forza d’animo.
L’orazione di Elizabeth Swann (Keira Knightley) alla propria ciurma non appena eletta re dei pirati, infonde proprio questa sicurezza: l’apparente onnipotenza della compagnia dovrà affrontare "Uomini liberi… e libertà!".
Un mondo totalmente misurabile infatti non lascia spazio all’imprevedibilità, unico terreno dove può germogliare il seme dell’autonomia, il valore chiave che dovrà essere difeso dalla pretesa di intendere la realtà come una macchina di calcolo.
Le nostre comunità sembrano interrogarsi sempre meno sulla giustizia morale, la quale, nell’ossessione della produttività, ha poche speranze di fiorire. Il luogo di contatto sociale è la rete diretta da algoritmi numerici, mentre le piazze e le strade rimangono fredde e inospitali; l’ambizione personale invece, se non assimilata da obiettivi di arricchimento economico, è derisa, letta similmente al miraggio di un disperato.
Già Immanuel Kant ammetteva che la libertà non si prestava a dimostrazione, andava presupposta con un atto di fede e, dal canto loro, le neuroscienze insistono sulla sua illusorietà.
Il mondo contemporaneo vede ormai ragazzi nati nel digitale, con sempre meno fantasia, ma con un aumento del pensiero logico. L’evoluzione umana sembra poter essere letta, a questo punto, come una progressiva transizione dall’animale alla macchina, dove la grande esclusa è la fede.
Ciò che rivendica il terzo capitolo dei Pirati dei Caraibi è il nostro diritto di dirci liberi, capaci di innalzarci con le ali del pensiero ben oltre i limiti imposti dalla certezza di calcolo.
La perfezione d’altronde è parente stretta dell’anonimato.
Le ultime parole di Beckett sono in questo senso emblematiche: mentre la sua nave va a fuoco sospira tra sé e sé, quasi a volersene convincere: "È solo una questione d’affari".
L’intera vita dell’antagonista è vissuta alla stregua di una trattativa commerciale, in modo impersonale e distaccato; non è un caso che l’unico momento in cui vediamo il suo volto distendersi d’emozione è in punto di morte.
La pellicola testimonia che la volontà umana è forte abbastanza da combattere la meccanizzazione onnicomprensiva della realtà e che pochi uomini liberi valgono più di molti in stato di assuefazione.
Le dinamiche del contratto economico mal si adattano ai rapporti umani più genuini, dobbiamo perciò lottare per la nostra possibilità di fantasticare, illuderci ed eventualmente fallire.
Le vicende dei pirati inscenano un elogio al coraggio e dimostrano che, anche quando tutto sembra perduto, un atto di eroismo è sempre possibile.
Così come per Kant la legge morale trovava realtà nella visione dell’altro, così il soggetto contemporaneo può ravvivarsi nella luce degli occhi altrui. Anche Jack infatti, inizialmente affascinato da una fuga solitaria, capisce infine che la collettività dei pirati è l’unica rotta in grado di salvarlo.
Riprendendo le parole della sociologa Soshana Zuboff, si potrà costruire un futuro migliore "Navigando nei mari dell’incertezza sulle nostre navi fatte di promesse condivise".
Non è casuale che gli antropologi riconoscano l’uomo come tale quando inizia a seppellire i morti: la nostra umanità nasce quando si manifesta la credenza.
Ciò che spetta a noi dopo la morte di dio è riorientarla verso una speranza instancabile nell’amore e nella libertà: solo questo permetterà di concedere colore al grigiore che, oltre alle nostre città, sembra aver conquistato anche il nostro cuore.
C’era un tempo in cui ad animare gli uomini era il sogno di una comune salvezza, raggiungibile tramite la bontà e la fiducia reciproca.
Per chiudere con le parole di Elizabeth: "Vogliamo davvero che quest’epoca giunga al suo tramonto?"
CineFacts non ha editori, nessuno ci dice cosa dobbiamo scrivere né come dobbiamo scrivere: siamo indipendenti e vogliamo continuare ad esserlo, ma per farlo abbiamo bisogno anche di te!