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Utilizzare la propria firma invece che servirsi dell’account “redazione”, di per sé, indica automaticamente che l’autore sta esprimendo un pensiero personale, il quale non necessariamente coincide con quello della realtà per cui scrive.
Tuttavia, nonostante questa evidenza, ci tengo a ribadire che quanto state per leggere è una mia opinione.
So che in alcuni passaggi - conoscendomi - andrò di piccone, quindi non mi andava che quanto ho appena chiarito potesse essere frainteso, coinvolgendo la redazione di CineFacts.it in possibili polemiche che, eventualmente, andranno invece indirizzate solo al sottoscritto.
Bene, sgombrato il campo posso procedere.
Sono passati quasi 5 anni dall’arrivo di Netflix in Italia.
Era il 16 ottobre 2015 quando la compagnia di Scotts Valley entrò sgomitando nel panorama italiano dell’intrattenimento su schermo.
“Sgomitando”… che termine improprio.
All’epoca c’era ben poco da sgomitare.
Nel campo della distribuzione streaming, infatti, la società americana non aveva alcun competitor: la cosa più vicina a un concorrente poteva essere Sky che, però, era ed è tutt’ora un servizio differente, sia per il sistema di fruizione sia per i contenuti proposti.
[2015, Wired annuncia l'arrivo di Netflix in Italia]
Per quanto Netflix accolga nel suo grosso e accogliente seno clienti di ogni età, il vero target dell’epoca erano i giovani.
Le new generation cresciute con la serialità televisiva e prodotti cinematografici pop, veloci, colorati e facilmente ingurgitabili da chiunque, o quasi.
Al contrario del contesto americano, dove il cittadino era già abbondantemente abituato alla realtà dello streaming (Hulu e Prime Video negli USA sono partiti rispettivamente 1 e 2 anni prima di Netflix) e delle Pay TV via cavo, all’epoca, l’italiano poteva invece bazzicare solo fra il servizio pubblico RAI, Mediaset e La7 di Urbano Cairo.
I più fortunati - al massimo - riuscivano a godersi la programmazione della già citata Sky di Nostro Signore Onnipotente Rupert Murdoch.
Una situazione à la Kurt Cobain il 5 aprile 1994, capirete bene.
[Scusami, Kurt, lo sai che ti voglio bene... ma quando penso a soluzioni estreme a mesti contesti mi vieni in mente sempre tu]
Da qui è abbastanza facile capire cosa avvenne in Italia da quel 16 ottobre 2015: Netflix si mosse nel settore dell’intrattenimento televisivo con gli effetti che John Holmes aveva su giovani e minute vergini.
La detenzione dell’effettivo monopolio di settore, unito alla totale assenza di cultura del popolo italiano riguardo la fruizione streaming e a una fame atavica del pubblico rispetto a produzioni dotate di appeal, fecero in modo che la compagnia californiana passasse come un aratro sul campo, dissestando, smuovendo coscienze e cervelli a suo piacimento.
A completare il quadro ci pensò un settore marketing a dir poco brillante che, assieme a un’interfaccia eccezionale e a un buon catalogo, nell’arco di un anno o poco più, convinse molti, moltissimi, che se non si aveva un account Netflix si era degli irrimediabili sfigati, privati della possibilità di vedere delle cose fichissime, a dir poco imperdibili.
Ricordo bene quel periodo.
Se cercavo di imbastire una discussione sul tema, per quanto fosse ampio il campione (amici, conoscenti, sconosciuti sui social), provavo costantemente la sensazione di aver a che fare con degli automi privati del proprio libero arbitrio.
La proposta di produzioni che esulassero dal catalogo della grande N era sistematicamente (o quasi) rifiutata.
La comodità di avere “tutto” a portata di un click del telecomando, unita all’esasperazione della proposta di serie TV, aveva trasformato molti spettatori un tempo razionali in dei proseliti non pensanti incapaci di uscire da quel contenitore.
Nel descrivere la realtà di quei giorni sembra di esagerare, di raccontare - per restare in tema - una distopia in stile Black Mirror, ma in realtà non furono poche le Università che si misero a fare ricerca su questo fenomeno che si palesava a tutti gli effetti come una nuova forma di dipendenza.
Fra il 2016 e il 2017, secondo il modesto punto di vista di chi scrive, c’è stata un’impennata strepitosa di spettatori affamati di produzioni seriali: nella mia memoria quello è decisamente il biennio "Netflix - Serie TV".
Non c’era un cristiano che, ogni due per tre, non ti aggredisse con un
"Oh, ma hai visto §§§ su Netflix?! Pazzeeeesco!"
Ogni qual volta provavi timidamente a far notare che, per quanto valida (captatio benevolentiae), la limitazione di un’offerta relativa a un contenitore virtuale dotato di tot. titoli fosse limitante, era facile beccarsi facce sdegnate e accuse di snobismo intellettuale.
Ma il mio oppormi al sistema di Netflix - non in maniera cieca e sistematica, ci mancherebbe - era accostabile a una semplice metafora, assimilabile al mio modo di vivere la fruizione di prodotti audio/video: se posso vado a fare la spesa in boutique diverse, con prodotti di elevata qualità, dove posso scegliere su un campionario ampio e variegato.
Non compro solo all’ingrosso in un ipermercato dove sì, certamente posso trovare dei gioielli, ma dove è anche facile incappare anche in tantissima bigiotteria.
Contenuti pregevoli e ciarpame: prodotti spesso accumunati da temi e generi, somministrati al pubblico per soddisfare le “mode” del momento (film sudcoreani a catalogo post Parasite: can you hear me?).
[Bright: una delle prime co-produzioni di Netflix. Non propriamente riuscita...]
Netflix aveva creato una schiera di zombi decerebrati incapaci di guardare al di là del proprio naso (non ricordo se qualcuno dei non-morti di Jim Jarmusch rantolasse: “Neeeetfliiiix”… nel caso ci sarebbe stato benissimo).
Ma la colpa di chi era? Di Netflix?
Neanche per sogno.
Sicuramente la mancanza di coraggio nel proporre materiale variegato, che potesse spaziare dall’autorialità a produzioni meno conosciute, unita a una politica distributiva deleteria che incoraggia la pigrizia dello spettatore - motivandolo a stare a casa invece che ad andare in sala - avevano instradato molti abbonati verso quella mulattiera da gregge al pascolo.
Ma se dobbiamo cercare il vero colpevole, come spesso accade, basta guardarsi allo specchio.
Dall’altra parte della barricata, al contrario, incominciarono a proliferare i partigiani del Cinema, gloriosi cazzoni fondamentalisti in lotta perenne contro l’impero del male di Netflix.
I pugnaci idioti cinematografici, loro, gli oltranzisti di Aleksandr Sokurov, Béla Tarr e Shin'ya Tsukamoto (terzetto che adoro, bene inteso), sempre pronti a sparare merda e stupidaggini su Netflix, a prescindere dai miglioramenti del catalogo proposti dalla compagnia streaming californiana.
Netflix è l’anti-Cinema.
Netflix è la morte del Cinema.
Su Netflix c’è solo merda.
Netflix non produce nulla di buono.
Netflix uccide l’arte.
A breve mi aspetto di leggere anche:
Netflix uccide e stupra bambini.
(Sì: in quest’ordine, perché così è più greve).
[Un gruppo di giustizieri redarguisce un maledetto netflixfag somministrandogli un dolce scarica di ultraviolenza cinematografica. D'essai, ovviamente]
Ora.
Chi scrive non ha particolarmente in simpatia (eufemismo) la politica distributiva di Netflix.
L’idea che l’ultimo, splendido, film dei fratelli Coen non abbia visto la luce del proiettore mi fa abbastanza imbestialire.
Così come il fatto che Roma di Alfonso Cuarón o The Irishman siano stati in sala per pochissimi giorni (nel primo caso) o in un numero sparuto e imbarazzante di cinema italiani (nel secondo) la reputo niente di meno che una bestemmia.
Trovo deleteria la politica del 'vendi ad ogni costo' che ha portato alla 'frankensteinizzazione' prima e alla distruzione poi di un prodotto inizialmente interessante come La Casa di Carta.
Sono il primo che patisce il canagliesco spirito con cui Netflix, ambiguamente, affranca le sue ‘produzioni originali’, insinuandone la paternità anche quando, in realtà, si tratta semplicemente di materiale distribuito sulla piattaforma.
Mi infastidiscono i numeri delle visualizzazioni gonfiate a colpi di “120 secondi = uno spettatore” e diffusione di tali numeri da parte della stessa azienda…
Domani mi faccio un filmino, nudo, mentre pesco pesci di gomma dalla mia vasca da bagno, poi lo carico su una piattaforma privata e dico che in 48 ore lo hanno visto tredici milioni di persone.
Troppo facile così, dai…
Ma, c’è un “ma”.
Si rischia di essere intellettualmente disonesti se non si è in grado di ammettere che Netflix, in mezzo a un discreto quantitativo di schifezze, da anni distribuisce moltissimi prodotti di qualità, facendo sì che, anche solo per sbaglio/curiosità/algoritmo, uno spettatore possa scoprire film e serie TV eccezionali.
Si incorrerebbe nel negazionismo più becero se non potessimo aprire il catalogo e riconoscere che, nel genere documentario, poche piattaforme possono dare del vero filo da torcere a Netflix.
[Documentari? Documentari belli su Netflix ne abbiamo? Magari di autori alle prime armi?]
Sarebbe alquanto stupido sostenere che, in seguito al proliferare di competitor in Italia e in tutto il resto del mondo, Netflix non stia correndo ai ripari cercando di produrre di tasca sua, variando l’offerta come non aveva mai fatto, finanziando autori come Alex Garland, Martin Scorsese, Vincenzo Natali, Fernando Meirelles e altri ancora.
Cineasti che, come nel caso di Scorsese, senza l’appoggio finanziario di Netflix magari non avrebbero potuto girare i film che avevano in mente.
"Sì, ma poi producono 6 Underground e tanto altro sterco", direte giustamente voi.
Sì, lo so, ragazzi.
Ma stanno tentando di differenziare il repertorio che mettono a catalogo, spesso anche in maniera coraggiosa come nel caso di Love, Death & Robots.
E alle mosche, si sa, piace tanto anche la merda (chiedo scusa a Mr. Michael Boom Bay).
Che non lo stiano facendo per bontà d’animo o spirito mecenatistico ma in quanto motivati dal bruciore del pepe al culo messogli da una concorrenza spietata è naturale ed evidente.
[Pssss! Ehi! Ehi, voi! Lo sapete che lo fanno tutti per denaro? Sapete che la setta di registi e produttori che fanno Cinema per il gusto di generare arte fottendosene del soldo è sempre stata terribilmente rara e ormai quasi estinta? Sssshhh! Non ditelo a nessuno, sennò si viene a sapere!]
La guerra dello streaming, in Italia, è aperta e impazza più che mai, con Prime Video, Disney+, Infinity, Apple TV+ che si danno battaglia per dividersi il mercato.
Da questa situazione, noi, gli spettatori, abbiamo solo da guadagnare… ma dobbiamo farlo in maniera intelligente, senza creare tifoserie da stadio e godendo di tutto ciò che di positivo la libera concorrenza potrà portarci.
Netflix non è la Salvezza, l’Unica Luce in fondo all’oscurità e non è neanche il male assoluto.
Se non ci staranno bene le sue politiche produttive e distributive non dovremo far altro che disdire l’abbonamento o mostrare il nostro dissenso per una mancata proiezione in sala del prossimo film di Scorsese con una bella protesta sui profili social della grande N.
Se saremo in tanti, vedrete, ci ascolteranno.
Basta toccarli nel portafogli o scatenare una bella shitstorm.
I precedenti positivi ci sono e incoraggiano.
Rendiamoci conto che il potere lo abbiamo noi.
[Tra episodi pienamente riusciti e altri meno, Love Death & Robots resta una splendida iniziativa]
Siamo noi che spostiamo gli equilibri, che decidiamo dove spendere i nostri soldi, quale nave abbandonare e su quale salire, ben consapevoli che, comunque, il luogo preposto per vedere film è - e deve restare - la sala cinematografica.
E il nostro tempio non si tocca.
Al clan dei Netflixfag, per fortuna oggi più debole di un tempo, e a quello dei fondamentalisti cinematografico-cerebrolesi anti Netflix, ahimé sempre numerosissimi, si potrebbe aggiungere quello composto dai geni che sostengono che tutto ciò che è streaming sia spazzatura, un male da combattere a prescindere, e che nessuna piattaforma offra un buon repertorio.
Ma, francamente, a questi disadattati del pensiero razionale non voglio concedere alcuno spazio: uno che blatera che il catalogo di Prime Video sia povero ha solo bisogno di essere aiutato da uno psicologo, non di essere commentato in un articolo.
[Fare marketing con gli hater. Solo Netflix può riuscirci. Forse sono davvero dei geni del male]
Il mio appello è accorato e sentito: seguiamo e supportiamo le produzioni di buona qualità, qualunque sia la loro provenienza, evitiamo di schierarci in tifoserie becere, integraliste e armate di paraocchi, cerchiamo tutti di alimentare il pensiero out of the box evitando di cadere vittime di una pigrizia che ci incateni solo a una (o più) piattaforme streaming.
Facile, no?
Noi non siamo cinefili snob integralisti né fanatici incatenati ai cataloghi delle piattaforme streaming, perché amiamo il Cinema in ogni sua declinazione.