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Repulsione - Recensione: Roman Polanski e la disamina dell'androfobia

Roman Polanski conduce un enigmatico, controverso viaggio nella psiche tormentata di una giovane donna sola, che si conclude nel détour della sua follia

 

 

 

 

 “ She’s a bit strung up, isn’t she?
- She’s just sensitive. ” 

 

Ci deve essere stato qualcosa, nel mezzo degli anni ’60, ad aver attirato l’attenzione di alcuni grandi cineasti verso il topos a della giovane donna fragile e mentalmente disturbata.

 

Nell’arco di 3-4 anni, giganti del calibro di Michelangelo Antonioni, Luis Buñuel e Roman Polanski partoriscono pellicole come Il Deserto Rosso (1964), Bella di Giorno (1967) e Repulsione (1965), appunto.

Film rimasti avvinghiati per sempre alla coscienza cinematografica collettiva quando vengon mosse le corde della donna in difficoltà, asociale, incapace di trovare in se stessa una bussola esistenziale capace di donarle una stabilità emotiva che pur cerca.  

 

Qui di seguito intendo accennare all’ultima delle opere citate: Repulsione, di Roman Polanski. 

 

 

 

Si tratta del primo lavoro in lingua inglese e della prima collaborazione con Gérard Brach del longevo regista franco-polacco, che decide di ambientare la tortuosa vicenda psicologica della protagonista Carol in una Londra caotica, trafficata, colma di sguardi e individui immediatamente percepiti come ostili, forieri di una qualche minaccia non ancora identificata.

 

Dico “percepiti” con intenzione: tutto lo sviluppo del film è saldamente ancorato alla percezione soggettiva da parte della protagonista delle persone e degli oggetti che la circondano.

 

Perfino lo scorrere del tempo, una volta penetrati nel dominio della sua delicata sfera psichica, perde valore e riferimenti, venendo risucchiato nell’orizzonte di incubo perpetuo che Carol vive quotidianamente.  

 

 

[Yvonne Furneaux e Catherine Deneuve in una scena del film]

 

 

La chiave di volta di Repulsione risiede indubbiamente nella sessualità.

 

Ogni elemento al suo interno è collegato, tramite artifici simbolici più o meno evidenti, al vortice terrificante della carnalità più bieca e animale, che ha come conseguenza inevitabile la paura e la repulsione totale dell’altrui genere.  

 

Sotto questa lente, ad esempio, osserviamo che Carol lavora in un’istituzione mono-gender (un salone di bellezza), vive da sola con la sorella e la finestra del suo appartamento dà su un convento, al quale lei sembra guardare con desiderio, come a bramarne la sicurezza e la protezione.

Coerentemente, gli unici momenti nei quali il ritmo cala e la montante tensione psicologica della protagonista viene mitigata, sono quelli in cui assistiamo ai brevi dialoghi tra le due sorelle, o a fugaci scambi di battute tra colleghe.

 

Tutto il resto è costantemente permeato dall’alternarsi irrequieto di sensazioni di disgusto, per ciò che concerne le scene con la presenza di figure maschili, e di paura, malessere, nausea, in un crescendo di solitudine e incapacità di comunicare che rievoca fortemente il concetto francese di ennui.  

 

L’ascesa alla follia della giovane interpretata da Catherine Deneuve inizia proprio da qui, quando una delle sue comfort zones psichiche viene minata dall’interno, da un presunto alleato: la sorella Helen (Yvonne Furneaux) ha infatti una relazione clandestina con un uomo sposato.

 

I suoni della passione della coppia contribuiscono alle notti insonni di Carol, ritratte magistralmente da Polanski tramite ciò che definirei senza remore cinema puro: rumori grotteschi e rappresentazioni gotiche di allucinazioni stupratorie si susseguono senza tregua; porte abbattute con violenza, braccia che spuntano rapaci dalle mura, imboscate selvagge, trambusti di passi sempre più incalzanti, sempre più vicini.

 

 

[Catherine Deneuve posa nel ruolo di Carol. Il telefono (scollegato) costituisce uno dei simboli dell'assoluto isolamento della protagonista]

 

Dopo appena quaranta minuti di Repulsione la fatica di condividere lo stato psicologico della protagonista si fa sentire, anche solo temporaneamente e attraverso il filtro sicuro dello schermo.  

 

La prima vittima del climax della follia di Carol è il fidanzato Colin (John Fraser), che con ingenuità e caparbia segue a corteggiarla, senza aver i mezzi per riconoscerne la tragica androfobia; ineluttabile e ai limiti del linguaggio horror il secondo omicidio, questa volta ai danni del padrone di casa venuto a riscuotere l’affitto (anch’egli eloquentemente connotato come meschino, dotato d'intenti predatori).

 

La mente di Carol è sulla via della disintegrazione, e di pari passo il giovane Polanski ci serve un quadro di decadimento, persecuzione e violenza.

Il finale di Repulsione trancia di netto le speranze moralistiche dello spettatore (in particolare degli anni ’60), dismettendolo con analitica freddezza e forse addirittura seminando un indizio sulle radici del male.  

 

Polanski condisce il suo primo angoscioso film anglofono costellandolo di simboli appartenenti all’immaginario grottesco e deforme che riprenderà poi nel capolavoro Rosemary’s Baby (1968), e che in generale saranno destinati a segnare per sempre la semantica filmica dell’horror psicologico.

 

Ne fanno parte i rasoi affilati, i riflessi distorti prodotti da un bollitore d'acciaio, le immagini trasfigurate dallo spioncino della porta dell’appartamento; o ancora la carne putrefatta di un coniglio, lasciato per giorni alla mercé degli insetti, o i “tentacoli” di alcune vecchie patate, abbandonate a germogliare... come la mente di Carol a degenerare. 

 

 

[La carcassa di un coniglio, abbandonata a marcire]

 

A contribuire alla suggestione surreale/onirica che prevale durante tutto il racconto di Repulsione, vi è l’abile fotografia del grande Gilbert Taylor (BSC), direttore della fotografia inglese noto ai più per grandi successi come Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964) e Guerre Stellari (1977).

 

L’uso mirato di focali lunghe e zoom, di camere a spalla, una quantità ragguardevole di soggettive e luci visibilmente innaturali, riescono a trasmettere la claustrofobica sensazione di intrappolamento percepito dalla protagonista, veicolando una costrizione ansiogena e disturbante.

 

Filmato in European ratio (15:9, qui un approfondimento), il bianco e nero 35mm che ne risulta è sporco, granuloso, imperfetto, alimentando sul piano sensoriale (su cui il film insiste molto) le sensazioni di disgusto, di perversione e morbosità.

L’uso della musica e del montaggio sonoro è modico ed efficace, e si alterna a lunghissimi silenzi contemplativi che sembrano cullare nella propria paranoia la fragile Carol.  

 

La “repulsione” del titolo non sta solo a descrivere lo stato mentale della povera protagonista, ma delinea anche la crescente ostilità che viene a crearsi nello spettatore, incapace di trovare un equilibrio tra l’empatia per l’insopportabile condizione di Carol e le sue folli azioni omicide.

 

Il risultato (non nuovo a Polanski) è un prodotto controverso, enigmatico, che da quasi sessant’anni non smette di inorridire e suscitare le sensazioni per cui è stato concepito. 

 

 

[L'orrore e la paura si mescolano nelle allucinazioni della protagonista Carol]

_____________________________________

 

 

Anni dopo, Roman Polanski ha dichiarato che Repulsione non voleva essere uno studio rigoroso della patologia psicosessuale, ma un richiamo alla consapevolezza che, celati nella frenesia della quotidianità, i semi della crisi nervosa crescono indisturbati.

 

Sicuramente, io credo, questo suo ritratto in celluloide riesce a rendere un po’ più palpabile le condizioni di una malattia che, anche mezzo secolo dopo, è troppo spesso trascurata.

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