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Nel giorno della scomparsa del grande Max von Sydow, propongo un ricordo personale del mio passato e una riflessione sul presente.
Svezia, dicembre 2018:
Mi trovavo a Lund, un paesino sperduto nella regione di Skåne, dove ho passato quasi sei mesi della mia vita.
Una tranquilla cittadina studentesca del sud della Svezia, dove ho potuto assaporare per un breve periodo una cultura affascinante, molto diversa dalla mia e non di facile comprensione, ma che mi ha dato tantissimo.
Era una sera freddissima, come potete immaginarvi, e mi trovavo nella piccola piazza del centro dove erano state disposte delle candele per celebrare l’arrivo nel Natale, molto sentito in quelle zone.
Contrariamente a quanto potete immaginarvi, a Lund era molto frequente iniziare a parlare con gli estranei che ti trovavi accanto.
Iniziai così una simpatica conversazione con una vecchietta del luogo, molto gentile e dall’inglese impeccabile, a cui chiesi della tradizione di posizionare le candele in quel modo.
Dopo qualche minuto, l’argomento si spostò sulla cultura svedese.
Le dissi che amavo molto il cinema di Ingmar Bergman e avevo visto molti dei suoi film.
Lei si stupì, ma era evidentemente felice.
Mi riferì che proprio a Lund era nato uno dei suoi attori feticcio, e mi chiese se ne avessi mai sentito parlare: Max Von Sydow.
Eccome se lo conoscevo!
Ma lei lo conosceva ancora meglio: abitavano nella stessa via, lì vicino alla piazza principale.
Si offrì di accompagnarmi per mostrarmela.
Mi raccontò che non avevano mai parlato tanto, perché lui era un po’ più grande di lei, ma se lo ricordava bene.
La famiglia di Max von Sydow era molto benestante, suo padre insegnava in Università - la stessa dove il professor Isak Borg si è recato per ricevere il Giubileo ne Il Posto delle Fragole - e avevano dato un’educazione molto rigida al piccolo Carl, non ancora Max.
Lui però era un’anima artistica, irrequieta, voleva viaggiare.
Mi disse che si ricordava bene quando se ne andò a Stoccolma per studiare arte drammatica.
Tornò in Skåne per lavorare nei teatri, girando qua e là tra Malmö e dintorni, dove incontrò Ingmar Bergman, che lo rese immortale.
Lei non lo aveva più visto da allora.
Non aveva più tanto pensato a lui fino a quel giorno, mi confessò.
Mi chiedo se stia pensando a Max von Sydow di Lund oggi, quando ha saputo che ci ha lasciati.
Mi chiedo se le sia tornata in mente quella breve camminata e quella conversazione con lo studente italiano amante di Bergman.
Io di sicuro me la ricorderò per sempre.
Proprio nel periodo in cui il nostro Paese, per non dire il mondo intero, si sta relazionando in un modo più intenso con la tematica della morte, trovo affascinante che proprio l’interprete di Antonious Block de Il Settimo Sigillo se ne sia andato.
Colui che aveva sfidato la Morte in una partita a scacchi capace di far impallidire le sfide Karpov - Kasparov, affrontando in prima persona il morbo che aveva messo in ginocchio il mondo più di 800 anni fa.
Un mondo ridotto alla follia e alla miseria, tra uomini che tentano disperatamente di espiare i propri peccati autoflagellandosi e altri che provano a godersi ogni singola goccia di vita rimasta.
Max von Sydow incarnava l’emblema del dilemma esistenziale di fronte a uno scenario quasi apocalittico, dove la razionalità scientifica ancora non era potuta arrivare per spiegare tanta miseria e sofferenza.
“Vorrei confessarmi ma non ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto.
Ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare.
Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili.
Vi scorgo immagini di incubo nate dai miei sogni e dalle mie fantasie.”
Il dubbio non riguarda soltanto l’esistenza di Dio.
Si rivolge all’umanità tutta, incapace di affrontare la propria esistenza se non con irrazionalità e terrore, arrivando a mettere sul rogo una ragazza accusandola di essere l’artefice della diffusione del morbo o autopunendosi per i peccati che avrebbero convinto il Cielo a mandare quel castigo.
La nostra società si trova ancora in un momento di crisi, per fortuna molto meno grave di quello che attraversò l’Europa medievale, ma ancora capace di mettere in discussione il nostro posto nel mondo, il nostro rapporto di esseri umani con la Vita e la Morte, la caducità della nostra esistenza, che può essere sconvolta in poco meno di un mese da un essere microscopico che si diffonde con una rapidità impensabile.
Proprio in questo momento, mi piace ripensare a una bellissima frase de Il Settimo Sigillo, pronunciata con enfasi teatrale da Max von Sydow a testa alta, guardando un punto lontano dinnanzi a sé, con una forza che raramente il grande schermo è riuscita a trasmettermi:
"Questa è la mia mano, posso muoverla, e in essa pulsa il mio sangue.
Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo.
E io... Io, Antonius Block, gioco a scacchi con la Morte."