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I fumi del Natale appena passato mi stanno appannando ancora i pensieri e mi ritrovo solo nel mio salotto, seduto alla scrivania illuminata dal mio albero ad ascoltare, supportato bel paio di cuffie, i The War on Drugs.
Quando lo faccio di solito è perché sento di dover partire verso altri luoghi e solitamente questo significa scrivere, partorire idee, generare pensieri e vomitarli in un file di testo.
Siete invitati a unirvi a me e ascoltarvi Lost in the Dream del 2014 mentre vi lancio un pippone riguardo le classifiche dei film del decennio, perché per me sono una brutta gatta da pelare e sostanzialmente sono un gioco di società.
Sono fermamente convinto che le classifiche siano un gioco utile a suscitare delle discussioni, si spera positive, e un esercizio capace di portarci a riflettere sul recente passato e sul presente, allenando un’abilità che esercitiamo troppo poco, facendo dell’uomo un essere spesso incapace di leggere il tempo presente come si deve.
L’altra convinzione che va ad allargare le maglie della riuscita e del senso delle classifiche è spesso l’impossibilità di renderle oggettive.
Un difetto congenito che difficilmente può essere curato, poiché la critica, benché armata di strumenti e regole fluide a dettare i canoni di gusto e grammatica del linguaggio per immagini, si nutre soprattutto di quel torrente a riempire il canyon dei canoni oggettivi e che rappresenta la fresca fonte del nostro gusto, suggestioni e sensibilità in quanto spettatori e critici.
Senza una nostra idea di Cinema, senza il nostro palato applicato al linguaggio, il critico diventa uno scribacchino pedante, un professore che è stato uno studente della materia e che non ha avuto abbastanza perseveranza o coraggio per diventare a sua volta praticante dell’arte - sia ben chiaro che a volte il rancore subentra anche in personaggi che hanno un proprio gusto, ma odiano davvero il cinema e non lo sanno e camminando su quella sottile linea tra amore e odio sono finiti per il farsi trascinare dalla parte dell’odio, finendo per il vomitare costantemente bile su tutto ciò che li circonda.
Detto questo, racchiudere in 8, 10, 20 o 25 posizioni i film del decennio, diventa una brutta storia nella quale proprio non vorrei mai entrare, poiché se volessimo dare peso e sostanza al significato di “film del decennio” dovremmo prendere in considerazione una serie di canoni che vanno ben oltre l’entusiasmo del presente, evitando, come fanno molti inconsapevolmente, di infarcire le classifiche con i film più recenti o con quelli che hanno fatto più rumore.
Quando vai a stilare una classifica di un decennio, quindi un periodo storico che si va a identificare in stilemi di mode, usi, costumi, nevrosi sociali, paure e quant’altro, dando dimensione a un panorama storico, sei chiamato a identificare le opere più importanti per messaggio e impatto, disinnescando le passioni del momento per ricondurre il tutto alla pura essenza di ciò che è stato raccontato.
The Irishman mi ha colpito parecchio, ma credo sia entrato in molte classifiche proprio per il fuoco del momento.
Cosa ha davvero significato fare parte degli anni '10 del 2000, per un cineasta e come gli hanno permesso di segnare il suo presente e come quel graffio ha toccato noi spettatori?
Come siamo stati deformati dal suo passaggio?
Quell’opera è davvero un iconica presenza dentro il panorama del suo tempo?
Se l’idea di vincere Cronos e i suoi inganni non vi alletta abbastanza, allora per essere davvero universali, cosa che dovrebbe fare una classifica, si renderebbe necessario prendere in considerazione lo spazio.
Sì, perché leggendo le classifiche pare che il cinema sia arte esclusiva del mercato nordamericano ed eccezion fatta per Parasite, film che gode dell’esplosione della “scoperta” del cinema orientale, pare che l’Asia e la buona vecchia Europa non facciano cinema.
Vi faccio un breve, folle, esempio in base a quanto detto fino a ora.
Per quanto potente e pulita sia stata la ribellione al cinema ipercinetico, prolisso e sostanzialmente vuoto dell’intrattenimento pop degli anni '10 di Mad Max: Fury Road, nuovo sangue di un brand nato nel 1979, nel suo essere portabandiera dell’arte cinematografica allo stato più puro, è davvero uno dei film della decade?
Probabilmente sì, ma perché metterlo in cima rispetto ad altri?
[Hello Cinema my old friend...]
Quello stilema narrativo aveva già segnato i tempi.
Lo dimostra il The Rover di David Michod - con Guy Pearce e Robert Pattinson - che partendo da un tema molto simile nella sua anima, seppur non dotato della magnificenza per immagini che ha l’essenziale comunicazione di George Miller, porta a noi spettatori altre suggestioni e simili dilemmi umani e morali, dimostrando come l’opera di Miller era già stata archetipo segnante di una generazione.
Mad Max: Fury Road trovo che sia stupendo, un capolavoro del suo genere, opera d’arte a 24 fotogrammi al secondo ma ha segnato gli anni '10 solo per aver provocato e vinto sul nuovo cinema ipercinetico?
Già questo esempio, questa breve riflessione, richiederebbe lo spazio di una bella discussione a riguardo e capite da voi quanto diventerebbe complesso togliersi dall’impiccio di darvi una risposta - oggettiva non so fino a che punto - per stilare la suddetta classifica di campioni del decennio.
Un film che, su due piedi, metterei nella lista dei film del decennio è sicuramente Birdman (2014) di Alejandro G. Iñárritu.
[I am Birdman!]
Il regista messicano, in un solo colpo, ha messo in scena una sceneggiatura brillante attraverso un lungo, finto, pianosequenza che è poi diventato il pallino di molti registi e che ha fatto discutere critica, pubblico e addetti ai lavori.
Il film, viaggiando tra realtà e surrealismo, porta un racconto che non solo ha una tecnica di regia funzionale alla sua narrazione ma riportando in auge un attore grandioso come Michael Keaton riesce a inserirlo perfettamente in una sceneggiatura che è una critica feroce verso il presente degli anni '10 del 2000 e specchio di un tema universale per il personaggio archetipico in scena.
Iñárritu ha girato un film memorabile, che è stato di ispirazione per altri - molti sono tornati a parlare e dare attenzione al pianosequenza dopo quel film - e che ha polarizzato il pubblico riguardo una pandemia ideologica del racconto cinematografico ben inscritta negli anni '10: il cinecomic e la sua rilevanza.
Il “come” di Birdman porta in cima un canovaccio già visto, nella sua ossatura, e fa di Iñárritu un regista dalla voce essenziale nel panorama di un decennio che trova nel suo cinema una nuova firma autoriale.
Da questa prima, personale, opinione, nasce già una seconda analisi a farci riflettere su cosa dovrebbe avere un film per potersi ritagliare uno spazio in una lista esclusiva di film del decennio: essere memorabile, essere icona del suo tempo, essere baluardo di una via al racconto per immagini e magari generando cloni o un filone narrativo.
Se Birdman non ha generato molti cloni, che io sappia, o un suo filone narrativo, un genere archetipico che nel corso degli anni si è perso nel mare di wannabe è sicuramente quello della rom-com: la commedia romantica.
Se seguite il podcast di CineFacts.it e se avete partecipato agli eventi dal vivo organizzati da questo sito, saprete benissimo quanto Harry, ti presento Sally sia simbolo del filone e di come Meg Ryan ci abbia costruito una carriera, ritrovandosi incastrata nel ruolo dal 1989 fino ai picchi meno memorabili di C’è Posta per te - un film ora oltremodo anacronistico - o Kate e Leopold.
[La scena del finto orgasmo è diventata talmente famosa da diventare argomento di richiamo anche nelle rubriche di costume dei telegiornali o dei programmi di intrattenimento pomeridiano della tv italiana]
Il genere è diventato talmente abusato che anche il pubblico più quadrato, quello meno avvezzo a qualsivoglia forma di creatività umana, ha intuito la struttura dei tre atti che compone la trama di queste pellicole, annoiandosi mortalmente e trovando noioso il loro tono rassicurante.
A scardinare questo maledetto incantesimo di noia ci ha pensato Sofia Coppola che con Lost in Translation ci regala la rom-com degli anni '00.
Un film secondo me indimenticabile.
Un capolavoro agrodolce e scanzonato che sa di orientale proprio per i suoi languori e che mette lo spettatore in un elemento alieno, spiazzandolo non solo con dei personaggi idiosincratici ma anche con un luogo della vicenda non riconoscibile, sognato da molti e anticipazione di un posto che intere generazioni avrebbero esplorato negli anni '10.
Eppure lo stesso anno è uscito In the Mood for Love, un film meraviglioso per suggestioni e che avrebbe aperto assieme ad altri film il mercato orientale al grande pubblico americano ed europeo, spesso completamente fuori da ogni classifica.
Però nessuno di questi due rappresenta il cinema degli anni '10 e la rom-com: un genere svilito per tutte le ragioni sbagliate che sembra essere non rappresentato, dimenticando come l’uomo sia fatto anche di pulsioni sessuali, della necessità di innamorarsi, di sentirsi completo, di combattere quel terribile e disumano sentimento a trascinarlo verso il lato oscuro della vita, provando depressione e abbandono tra la moltitudine di un mondo caotico e pieno e spesso insensibile e intraducibile.
Eppure Spike Jonze ci ha donato Lei.
Un film a mio avviso meraviglioso.
[Se nutrite empatia per Joker e nessuna per il protagonista di Lei, vi prego di cercare uno psicologo il prima possibile, poiché probabilmente siete pericolosi per voi stessi e per chi vi circonda]
Un film che racconta un presente insensibile dove la solitudine è padrona di un essere umano sempre più preda dei peggiori umori e il cui potere dell’evoluzione tecnologica non gli ha davvero dato il conforto che sperava, acuendo il senso di abbandono che si illudeva di poter combattere aumentando i decibel del caos.
Jonze gira un film elegante, melenso ma non stucchevole e che fa molto male e che segna davvero lo spettatore, preso e trascinato, come aveva fatto Sofia Coppola, in una narrazione dove il luogo del racconto è alieno tanto quanto il tempo della vicenda, pur sciorinando sentimenti universali.
Lei è memorabile per la potenza del racconto, per il come e per il gusto con il quale Jonze inquadra e costruisce i momenti, dosando ogni elemento come un fine pasticcere.
Eppure qualcuno ricorda l’Oscar di Jennifer Lawrence per quel Il lato positivo che tanto mi aveva affascinato, ma che altrettanto si è poi fatto dimenticare poiché così uguale a tutto il resto?
Quell’instant movie, quel film così solido nel suo presente, per quanto buono, non è davvero un film del decennio, non credete?
Se vi trovate d'accordo con me è forse perché siete stati travolti da Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, un film dal respiro internazionale di un cineasta italiano che ha capito di dover tornare a parlare a tutto il mondo e non solo alle province, ai licei di Roma e alle problematiche delle coppie borghesi italiane che non somigliano davvero a nessuno e che spesso sono il nostro più grande sforzo nella creazione di un racconto fantascientifico - quelle famiglie non esistono, e se esistono sono eccessi di un paese che non sta proprio bene.
Un film che ha mostrato al pubblico americano e internazionale, che ad esclusione delle nazioni mediterranee ha davvero poca dimestichezza con l'avere a che fare con i sentimenti, cosa significa davvero fronteggiare gli umori complessi dell'amore adolescenziale, delle scoperte sessuali e cosa è davvero l'estate bucolica di una generazione che non ha mai avuto bisogno di eccessi per sentirsi bene.
Luca Guadagnino ha parlato la nostra lingua a un pubblico di venusiani, mostrando cosa può essere e cosa è il linguaggio del Cinema quando veicolato attraverso l'animo di un paese rompicato e accorato come l'Italia.
Chiamami col tuo nome è anche il cinema degli anni '10 perché non tratta le relazioni omosessuali, il sesso e i rapporti con i genitori con la superficialità dei tarallucci e vino dei buoni sentimenti da spottone messi spesso in campo dagli americani ma dona a personaggi anche distanti e austeri, come quelli dei genitori di Elio, un tono umano molto profondo e con il quale ci possiamo rivedere - raccontando anche un tipo di apertura che, come hanno scritto molti autori italiani nei loro romanzi spesso autobiografici, sembriamo aver perso per strada.
[Guadagnino ha anche il merito di aver inquadrato in modo magnifico la campagna del Nord Italia, un luogo che conosco molto bene e che è totalmente ignorato dal nostro Cinema]
E parlando di un cinema viscerale, complesso nella dicotomia dei suoi sentimenti, rispetto a molte opere binarie del cinema americano, sembra impossibile lasciare fuori This Must be the Place, film che regala al mondo il talento di Paolo Sorrentino e che, nonostante l'Oscar per La Grande Bellezza, rimane forse a mio avviso il film più d'impatto del regista italiano, quello che davvero ha lasciato un segno importante quando ha colpito il panorama cinematografico mondiale.
Altrettanto si potrebbe dire di Ballata dell'odio e dell'amore del regista spagnolo Alex de la Iglesia, confermando il talento di un regista la cui voce è unica e dirompente, andando a toccari nervi che autori figli di altri ambienti non hanno forse concezione.
In fondo si tratta sempre di scremare gli impulsi, di sottrarre il momento e di guardare a qualcosa che ti germogli dentro, che lasci una cicatrice nella decade, che crei un solco, che ti faccia innamorare in eterno o che ti terrorizzi a vita, come hanno fatto con me Halloween o Alien da bambino o come ha fatto il Get Out - Scappa di Jordan Peele.
Un horror che è gli anni '10 del 2000 e che meglio di molti altri film di denuncia, di indignazione e di genere, racconta la decade e la battaglia verso la cura di ferite apparentemente curate.
[Quella scena... quella maledetta scena... quanta terrificante bellezza]
Quindi, nuovamente, cosa sono i film del decennio?
Perché di Get Out ne ho visti pochi e il genere è spesso fuori dai giochi tanto quanto la rom-com, e di rimbalzo sorge forse il dubbio che si renda necessario andare di genere in genere, poiché non c’è davvero modo di dire che un film romantico come Lei, seppur intaccato da altri generi, sia meno meritevole di un dramma dai forti temi sociali o esistenziali.
Parlando di horror, di genere e di anni '10, si sente quasi il bisogno di ricordare la lotta per la parità iniziata a Hollywood e se di operazioni commerciali terrificanti ce ne sono state talmente tante da poter costruire un secondo colosseo, di film di puro talento come il Babadook di Jennifer Kent ne abbiamo avuti davvero pochi.
Un film importante anche solo per come ha infastidito il commentatore del web, il webete di mentaniana definizione che ha deciso da sé cosa è horror e cosa non lo deve essere, sentendosi a disagio verso un film che non ha bisogno di eccessi per creare un disagio e che ha riaperto la discussione su cosa sia film di genere in un mondo dominato da franchise con le porte che sbattono.
E di porta che sbatte in porta che sbatte, la modernità ci ha talmente consumato da riporre le nostre speranze di un buon horror nel talento nero carbone di Robert Eggers, che tra The VVitch e The Lighthouse ha regalato agli anni '10 due tra i film horror più importanti del secolo corrente, rimettendo al loro posto le priorità della messa in scena del cinema di genere, usando le paure ancestrali dell’uomo come leva emotiva a metterci rannicchiati in un angolo.
[Quell'uomo ha un talento naturale per il racconto orrorifico per immagini e padroneggia il manico del racconto di genere proprio perché lo ha compreso davvero]
E se volessi fondere le viscere dell'emotività e la paura delle figure folcloristiche, io parlerei di A Ghost Story, film con Casey Affleck e Rooney Mara che è essenziale non solo per come il regista David Lowery costruisce ogni frame, ma anche per le modalità con le quali ci porta una storia di fantasmi che è LA storia di tutti i fantasmi e LA storia della vita e della sua energia all'interno dell'universo, dando senso a un mito terreno, sfruttando ogni suggestione e complessità esistenziale e veicolandole non con la complessità della parola, ma delle immagini.
Eppure, per quanto mi abbia inquietato The Lighthouse, per quanto la voglia di fuga da un presente orrorifico ingenuo e che vorrebbe creare storie dell’orrore su Tik Tok, nessun film mi ha lasciato così traumatizzato dalla visione come Animali Notturni, che secondo me è il capolavoro di Tom Ford.
Poche altre pellicole hanno saputo raccontare l’animo umano corrotto dalle idiosincrasie delle idiozie superficiali della società moderna come Animali Notturni.
Un film che non ha cloni, che non ha filoni, ma che ha una pulizia narrativa rara, delle prove attoriali inarrivabili, un passo nel racconto come solo pochi grandi hanno saputo tenere, misurando i tempi della narrazione così bene al punto da creare un costante e crescente senso di desolante e raggelante terrore, facendo di ogni elemento parte essenziale.
Tom Ford ha capito il Cinema e ha usato Animali Notturni per scagliare una delle più grandi critiche all’ambiente dell’arte, della moda e della ricca borghesia americana.
Niente è più terrificante di Animali Notturni e niente è più in frantumi dei due personaggi protagonisti, se non la psicologia di Louis Bloom, il protagonista di Nightcrawler - Lo Sciacallo, thriller che ha segnato il pubblico e la critica, consegnando agli anni '10 uno psicopatico di primo piano, popolando quella stanza asettica, squadrata e imbottita di velluto popolata dai più grandi raccapriccianti sociopatici della Storia del Cinema.
[Amy Adams non ha vinto riconoscimenti che il film, probabilmente, detesterebbe. Ma ha dato prova di essere una delle più grandi attrici viventi e della sua generazione]
Tutto quanto ho discusso fino ad ora è dimostrazione di come il Cinema, pur rimanendo lo stesso nel suo cuore e nella sua grammatica, ha anche visto alcuni cambiamenti e rinnovamenti.
Se c’è chi ha usato il dinamismo saggiamente, come Birdman, altri hanno usato il dominio della CGI per creare qualcosa di dannatamente credibile e non puro spettacolo e con il Gravity di Alfonso Cuarón e il caciarone Pacific Rim di Guillermo del Toro abbiamo alcuni rappresentanti, opposti, di un Cinema che ha usato il passo tecnologico con la sapienza di chi impiega uno strumento senza eccedere, dandogli un ruolo funzionale e non stupidamente invasivo, facendo quello che James Cameron, in buona parte, ha sempre fatto con le proprie opere.
Due film che hanno fuso il passo tecnologico alla sapienza della messa in scena e che hanno preso le ingerenze di una CGI che spesso invecchia il Cinema - tra qualche anno molti film Marvel saranno inguardabili e anzi alcuni lo sono già - per dargli nuova linfa e tornare a meravigliare lo spettatore, pur offrendo un intrattenimento differente nelle due scelte ma significativo, aderendo comunque all’idea di entertainment e coinvolgimento che richiede il pubblico.
Parlando di coinvolgimento, Christopher Nolan diventa l’autore che più ha polarizzato la recente Storia del Cinema e, andando in direzione opposta a quanto appena detto, ritornando a un Cinema muscolare quindi fatto per la maggiore di effetti speciali artigianali, con Inception e Interstellar ha portato oltre la sua poetica a ragionare sulla manipolazione del tempo e della realtà, portando lo spettatore in un Cinema estremamente verboso e cervellotico, prendendo il posto dei mind-fuck movies come Strade Perdute e ingaggiando con lo spettatore discussioni riguardo il significato di questi film.
Significato che, vi ricordo, nel rispetto dell’ideale portato avanti da uno degli eroi dello stesso Nolan, ovvero Stanley Kubrick, non è universale e spesso sta all’occhio dello spettatore - perché è così che si coinvolge lo spettatore: lasciando il non detto e il mistero a suo appannaggio.
[In un cinema sempre più digitale e convinto di poter usare un iPhone, Nolan si lega alla pellicola e all'IMAX per il suo cinema di effetti pratici e digitali, consegnando al pubblico mondi densi e credibili e mai instant movie]
Nolan ha a suo modo assecondato la voglia di imbolsite complicazioni di cui il pubblico sembra affamato, segnando inequivocabilmente gli anni '10 con Interstellar, un film che ha messo sul piatto la discussione riguardo l’eredità di Kubrick e la poetica di Nolan, affermatosi ormai con un segno che appartiene unicamente a lui.
E parlando di tempo si rende assolutamente necessario tornare a parlare di come i film segnino un decennio e di come lo facciano quando appartengono a stilemi narrativi nuovi - Nolan - e di come gli artisti si ribellino a quelli che ritengono eccessi e rigurgiti di un sistema davvero troppo ingenuo e vuoto.
Potrei a questo punto citare Zack Snyder e Michael Bay o la serialità multiverso dei film Marvel Studios, che ha il merito di aver salvato gli incassi di Hollywood, di aver ricreato lo Star System - non so se sia un merito - e di aver riportato l'entusiasmo massificato di esordi eccellenti come quello di Star Wars nelle sale cinematografiche.
I film di supereroi dei fratelli Russo, e mi riferisco quindi ad Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame, hanno indubbiamente polarizzato l'attenzione del pubblico, dei media e di Hollywood stessa, portando altre major e altri progetti, tra le tante cose, a investire in progetti enormi e dal cast corale di richiamo.
E quindi sorge spontaneo chiedersi: anche questi film appartengono alla classifica dei film del decennio?
La reazione avuta dagli autori verso questo cinema tronfio di niente e spesso tanto infantile nei suoi messaggi è stata incredibilmente amata dal pubblico che, senza rendersene conto, continua ad amare Snyder e il suo yang ma critica aspramente il nolaniano filone del film strabordante di pensieri, verboso e spesso ritenuto incongruente verso se stesso.
Allora Nolan decide di segnare nuovamente gli anni '10 con Dunkirk, un film che andando all’essenza del racconto per immagini, pur continuando a parlare del tempo, mette in primo piano ogni singolo frame della pellicola, il sound design, la musica, i volti dei suoi protagonisti e il cosa raccontato attraverso gli elementi.
[Dunkirk è tutto quello che gli hater di Nolan, se ha senso dar loro rilevanza, hanno rimproverato al regista di non saper fare: credo abbia vinto lui]
Dunkirk nell’essere il contrario degli anni '10, nell’essere più Mad Max che Marvel, diventa il film che rimette sul piatto il racconto di guerra - 1917 di Sam Mendes ne dimostra la voglia tanto quanto il terribile Roland Emmerich e il suo Midway - che riporta in primo piano lo spettacolo di quello che succede sullo schermo quando è denso e pieno di catarsi, sbugiardando il troppo delle complessità per monologo.
Ma allora la descrizione delle suggestioni del tempo presente sono davvero portanti?
Sembrerebbe di sì, soprattutto quando fai delle provocazioni e Drive di Nicolas Winding Refn sembrerebbe dirci che il languore e l’azione pulp e il ritmo letargico di personaggi con poche parole e molti sguardi alla Humphrey Bogart, quando inseriti in una storia archetipica e classica che per nulla descrive il presente, sono più potenti di un qualsiasi film di Quentin Tarantino rilasciato tra il 2010 e il 2019.
Dimostrando oltretutto come dal 2011 di Drive al 2019 a chiudere la decade sembra sia passato un tempo lunghissimo, considerando come il plauso del pubblico ricevuto dal film si sia spostato verso gusti opposti.
Vale più del pop estremizzato, della ricerca di caratteri epocali, dell’estetica, delle linee di dialogo sagaci, della spasmodica ricerca alla memorabilità della tempra dei caratteri.
Drive è, come Mad Max e Dunkirk, l’essenziale del cinema portato in cima e veicolato attraverso il film d’azione, il film di criminali e rapine, dimostrando che Cuore Selvaggio è ancora possibile.
[In Drive le relazioni tra i personaggi passano per il Cinema e quindi per una comunicazione non verbale, che con le parole gioca quando serve. E poi che cast, ricordate quanti talenti enormi in questo film?!]
Il Cinema sornione di N.W. Refn non è eccezione ma diventa regola quando a contrapporsi a spie declinate in commedia, eccessi action o drammi dal livido 007 di Daniel Craig, arriva Tomas Alfredson con La Talpa a ribaltare tutto, firmando una storia di spie che sembra una partita di scacchi filmata con la pulizia di un maestro del ritmo e del gusto estetico per l’inquadratura.
Un film dove l’azione, quando c’è, è misurata, non eccede e diventa brutale elemento di tensione, dando una scossa per poi abbassare il ritmo - come ogni storia di spie dovrebbe fare.
Ma parlando di spie, di guerre invisibili seppur sotto lo sguardo di tutti, gli uomini nuovi di Hollywood sono senza dubbio Denis Villeneuve e lo sceneggiatore e regista Taylor Sheridan, che con Sicario firmano un film epocale.
Niente fa così male come la colonna sonora di Jóhann Jóhannsson, niente trasmette un senso di crudo terrore come la lotta ai Cartelli e niente è così elegante e rappresentazione di morte come il personaggio di Benicio del Toro.
Non merita forse di essere uno dei film del decennio, il film che ha dato così tanta densità a un tema caldo degli anni '10 come la lotta ai cartelli che si combatte negli Stati Uniti al confine con il Messico?
[Sarò forse ingenuo, ma Soldado di Stefano Sollima è forse altrettanto bello, per motivi simili eppure diametralmente opposti rispetto a Sicario. E personalmente uno dei film diretti da un regista italiano più magistrali di sempre]
Un torrido argomento che ci guida inevitabilmente ai sigari masticati da Clint Eastwood negli spaghetti western e che parlando di Taylor Sheridan e western, sembra quasi impossibile dimenticare come la scrittura di Sheridan sia stata essenziale per riportare in cima il genere, regalandoci dei neo-western come solo Joe Lansdale ha saputo fare nella sua letteratura.
Se Hell or High Water non vi ha convinto, lo farà forse I Segreti di Wind River, scritto e diretto da Sheridan e che mette sul piatto gli archetipi del western, il tema delle minoranze delle riserve indiane e di come gli Stati Uniti continuino a denigrarle e abbandonarle, e di come in fondo gli USA e le loro realtà rurali siano fondamentalmente ancora sotto il pugno di leggi da selvaggio west, dimenticate dalla legge, anche quella federale, lasciando al cowboy, al cacciatore, all’uomo d’onore, il compito di regolare un mondo senza regole.
Non un film di vendetta, non un film reazionario, ma un film colmo di fragilità e potente nelle vie del suo racconto, essenziale per capire come il neo-western sia poetica fondamentale del Cinema statunitense e di come si possa declinare.
Un film che risponde alla domanda
“Cosa fa di un uomo un uomo, signor Lebowski?”, non è forse degno di stare in questa classifica così epocale?
Una nota a margine, parlando di neo-western e Joe Lansdale, andrebbe fatta per Cold in July, film di Jim Mickle con Michael C. Hall, Sam Shepard e Don Johnson.
Un film di vendetta che mette davvero il freddo nelle ossa e che merita di essere visto e rivisto.
Cosa fa di un uomo un uomo, ci siamo appena chiesti.
L’uomo è un animale strano.
E spesso usa le storie per veicolare i suoi dubbi e quando i suoi dubbi sono i peggiori, si sente di dover creare una metafora al fine di portarli nel modo più efficace possibile al pubblico e la fantascienza, un genere che per molto tempo è rimasto in soffitta e che anche grazie a Cuarón e al suo Gravity è ritornato in auge, riesce a servire molto bene lo scopo.
La domanda ora è: sarà forse Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve a meritare il titolo di film di fantascienza del decennio?
Sarà forse il sequel di un flop al botteghino del 1982 divenuto poi cult, nel suo involontario rimettere in scena la medesima storia commerciale, a prendere il titolo?
Blade Runner 2049 è davvero un film simbolo degli anni '10 del 2000 e sposta i temi del primo film verso qualcosa che per noi è molto più familiare, usando una grande allegoria per parlare dell’uomo e delle sue incertezze, facendolo attraverso un cinema pulito e sontuoso.
Sarà abbastanza o forse meriterebbe più riguardo Ex Machina, l’ancestrale Under the Skin di Jonathan Glazer o Arrival, ancora di Villeneuve?
Quale di queste allegorie fantascientifiche meglio trasmette le preoccupazioni riguardo l’incomunicabilità in un decennio sovraccarico di brutta comunicazione, il senso di fragilità di un essere umano fallibile, mortale e solo e la mancanza di fiducia verso un futuro che vuole dominare tutto ciò che ci rende umani?
Un futuro che in genere ci aiuta a ragionare soprattutto quando è distopico, parola sempre più in voga, e in tal senso John Carpenter è stato uno dei maestri e il suo segno ha viaggiato così tanto da portarci uno dei grandi film di Bong Joon-ho: Snowpiercer.
Ma l’uomo tante volte vive anche di lisergiche distrazioni e in tal caso Vizio di Forma, Il grande Lebowski sotto acidi di quel genio di Paul Thomas Anderson, è decisamente il Mistery della decade, il film che più ci ha fatto sentire stonati e sopraffatti dalla visioni.
Ma anche il tanto denigrato Under the silver lake, nel suo citare il passato del noir e del mistero, riportando Viale del tramonto e Mulholland Drive in una dimensione tutta nuova, meriterebbe di essere considerato per la medaglia al mistery-mind fuck del decennio - un film distribuito in maniera criminale per via dell'enorme flop al botteghino e a causa di una promozione davvero scarsa.
E stonarsi, significa ridere e si ride per cercare rifugio dalle lacrime che spesso ci vogliono sopraffare e spesso si ride attraverso la crescita, attraversando una tempesta di ormoni e convinzioni che non comprendiamo, scontrandoci con i nostri genitori o i nostri demoni, affrontando quindi il prodotto di altre decadi e un giorno la decade designata alla crescita dei nostri figli affronterà noi.
Un tema universale che diventa magnificenza con Lady Bird, conferma di un talento puro come quello di Greta Gerwig, donna che promette di ribaltare Hollywood per il verso giusto.
Lady Bird non merita forse di stare in cima alle commedie della decade?
Non è forse importante premiare un autrice che ha destrutturato il ritmo della commedia in tre atti per riconfigurarla in qualcosa tra l’indie da sundance e il cinema d’autore ben riconoscibile nel pensiero di un regista?
In tal senso, sarebbe anche opportuno citare Booksmart - aka La rivincita delle sfigate - un film che non ha solo ben raccontato le tanto vituperate nuove generazioni e le loro idiosincrasie, apparentemente progenia del male e che si ribellano con un irritante “ok boomer”, ma che nel farlo ha messo in campo il gusto per la regia, allontanandosi da tutte quelle commedie della nuova generazione americana che hanno sempre messo in secondo piano la regia.
Il film di Olivia Wilde è la direzione che la nuova commedia deve seguire quando racconta il presente, facendo di Wilde e Gerwig il linguaggio essenziale da sintetizzare e riarrangiare per il futuro della commedia al cinema.
Eppure, come abbiamo già detto, di cambiamenti si muore e si risorge.
E nulla è così anti-regole e opposto di un manuale di regia come La Favorita di Yorgos Lanthimos che nel raccontare una storia in costume estremamente sopra le righe, diventa pop nel suo non inquadrare mai come ci si aspetterebbe, deformando il racconto d’epoca, ridicolizzando la pomposità, il vizio e il disgusto e tenendo lo spettatore incollato a un film inaspettato e probabilmente impossibile da riprodurre se non plagiandolo in toto.
E se volessimo continuare riguardo la commedia, potremmo entrare nel sottogenere del demenziale, potremmo toccare il mockumentary di Taika Waititi What we do in the Shadows, essenziale per ogni filmmaker indie come La Casa di Sam Raimi è stato a suo tempo.
Potremmo toccare Ave, Cesare! dei fratelli Coen che, nel filone dei film che omaggiano Hollywood, sono arrivati con la forza dirompente di una commedia sofisticata eppure demenziale in certi passaggi.
A questo punto, sono confuso e stremato.
Le informazioni si avvicendano nella mia mente in un traffico insostenibile e così mi ritrovo nel bel mezzo di Shibuya, sospinto e rigettato da mille influenze, da decine di considerazioni e anni e uscite e tutto si fa ridondante e i titoli fischiano e molto altro ci sarebbe da includere, perché nulla funziona meglio al cinema, per tutto l’ampio pubblico, dell’animazione.
E l’animazione del decennio è forse Your Name., un film che è tanto accorato quanto ancorato nel suo presente, come detto in principio, o è forse Spider-Man: Un nuovo universo, un film che prende il cinecomic e lo fa meglio di chi quel genere lo ha cavalcato per un decennio, anche se non pienamente questo decennio.
Il lungometraggio Sony ha creato una nuova tecnica, ha preso la CGI e il disegno e ne ha fuso i concetti con il fumetto per portare al pubblico Spider-Man come nemmeno Marvel è riuscita a raccontare, trasmigrando dalla carta allo schermo la giusta catarsi dell’eroe, i giusti messaggi e utilizzando una tecnica che gioca con i frame, che comunica ai ragazzini tanto quanto agli adulti, mettendo protagonista Miles Morales, l’incarnazione più anni '10 di Spidey.
Non è forse questo il film d’animazione del decennio?
O forse sarebbe opportuno parlare di Wes Anderson e del suo L'isola dei cani o di Anomalisa di Charlie Kaufman o di quell'enorme eredità d'animazione che è Si alza il vento di Hayao Miyazaki?
Cosa c'è stato di più straordinario, accorato, elegante e struggente di quel testamento animato che è Si alza il vento?
Quale opera cinematografica animata ha saputo parlare dell'ossessione, della vita e del lascito di singoli individui sul mondo, palpabile o meno che sia, e di quanto per questi sia prima di tutto importante il loro egoistico rincorrere un sogno?
Quale altra animazione che non sia Si alza il vento riesce a essere così dannatamente seria pur avendo larga parte degli effetti sonori realizzati a bocca dai foley artist?
E ditemi: preferite un mondo con o senza le piramidi?
Il dubbio rimane e la tela del ragno che mi sono costruito si è ingarbugliata e mi ha ingarbugliato e non riesco a uscirne, ritrovandomi con l’enorme certezza che, forse, fare una classifica del decennio è possibile ma richiede un laborioso studio e che al tempo stesso sia impossibile, perché c’è troppo da dire e da vedere.
Nella lista non sono rientrati film che non ho ancora visto e che, sicuramente, non conosco e non ho nemmeno toccato in modo approfondito nessuno dei generi.
Perché la voglia di parlare di John Wick e The Raid all'interno del genere action e quanto importanti siano stati è tanta, ma sicuramente mi porterebbe a deragliare verso una montagna di altri film, come il maledetto L'uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, Paterson di Jim Jarmusch, Il Filo Nascosto di Paul Thomas Anderson o Whiplash e La La Land, film che ci hanno consegnato il talento da record di Damien Chazelle.
Venendo a voi, miei cari lettori: come si stila una classifica dei migliori film della decade e cosa li rende migliori?
Non ne ho un’idea ben chiara, ma quello che posso assicurarvi di aver capito è che là fuori il Cinema è vivo, pulsa e ci racconta ancora piuttosto bene.