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La mia vita ad Albuquerque - Tra Breaking Bad ed El Camino

Breaking Bad: un universo espanso che ha l'aspetto di un mostro strano, feroce e verace, pronto a trascinarci fino in fondo alle sue tragedie, i suoi orrori e miserie

L’annuncio dell’imminente uscita di El Camino: A Breaking Bad Movie su Netflix, oltre a generare hype a carrettate, non poteva far altro che spingere gli appassionati di Breaking Bad a un immediato rewatch della serie in previsione dell’avventura in formato cinematografico di Jesse Pinkman.


Se poi si volesse aggiungere il carico da 90, qualcuno potrebbe addirittura aver avuto l’insana idea di assistere di nuovo all’articolata parabola di James McGill, disegnata con eccezionale bravura da Bob Odenkirk nello show AMC Better Call Saul.

 

L’universo espanso di Breaking Bad è un mostro strano.

 

Una creatura fatta di polvere rossa, dollari, sangue, blu meth e personaggi tanto complessi quanto assurdi, capaci di tenere lo spettatore incollato al divano coinvolgendolo in binge watching violentissimi, anche quando si tratta di seconde o terze visioni.


Proprio come nel caso del sottoscritto che, per essere pronto per Il Cammino (questa la traduzione dall’ispanico “El Camino”) di Jesse, si è lanciato in una frequentazione assidua – quasi un trasferimento, a onor del vero – nella desertica Albuquerque.

 

 

 

 

Al di là di metafore più o meno ardite, l’utilizzo dell’immagine di uno spettatore “traslocato” nella città del New Mexico non è né azzardata né fuori luogo: il percorso narrativo concepito dalla brillante mente di Vince Gilligan, infatti, ha un’elevatissima capacità di immergerci nelle dinamiche che vedono protagonisti Walt, Saul e tutti i personaggi delle due serie.

 

L’universo espanso di Breaking Bad è un mostro strano.

 

Neanche il tempo di accomodarci sul divano che, pronti via, ci ritroviamo dalla parte sbagliata della pistola impugnata da mister White, fuori di sé e in mutande, nel bel mezzo del deserto.

 

Il primo seme di mais non è esploso nella padella che rosola in cucina e già siamo trascinati nel vortice di frustrazione e disperazione di un uomo brillante costretto a un lavoro umiliante, alle disposizioni mortificanti di una moglie pressante e alle difficoltà di un figlio portatore di handicap.

 

Poi… la mazzata.

Il cancro.

 

"Mr. White… mr. White… do you understood what i’ve just said to you?" 

"Yes. Lungs cancer. Inoperable."


…e quella maledetta macchia di senape sul camice dell’oncologo.

 

 

[La macchia che ci fece capire da subito che tipo di serie fosse Breaking Bad]

 

 

E allora via, niente “pausa pipì”: dobbiamo accomodarci in macchina con Hank (Dean Norris), il cognato compagnone, per assistere all’origine del piano di Walt per lasciare un gruzzoletto alla famiglia dopo che il tumore se lo sarà divorato.

 

La retata nel meth-lab rudimentale, le scommesse e gli sfottò fra Gomie e Hank e un maldestro (e giovanissimo) Jesse Pinkman/Aaron Paul che piove dal tetto dopo una sveltina.


Da una scintilla nefasta ha origine un Big Bang costellato di personaggi sopraffatti dalle loro ossessioni, paure, menzogne e dagli eventi che li vedono coinvolti in prima persona.

Una vera e propria matassa di situazioni, omicidi e tragedie: un groviglio complesso che più che condurli a un’evoluzione li condanna a mutilazioni dolorosissime e insanabili.

 

Walter White (Bryan Cranston), quindi, da personaggio pacato, maldestro – e fondamentalmente represso – nel corso di Breaking Bad si trasforma lentamente in una belva divorata dalla propria ambizione, ingabbiato da una malvagità crescente che rinchiuderà il “vecchio Walt” dietro alla maschera di Heisenberg, consumandolo come un cancro per poi abbandonarlo, sconfitto, in seno a una morte anonima, malinconica e priva di qualsiasi soddisfazione.

 

 

 

 

Mr. White, che da vincitore alla fine del suo percorso si tramuta in sconfitto, senza nemmeno la possibilità di salutare il figlio Walter Junior (RJ Mitte) – che ormai lo odia – o poter far sapere alla propria famiglia che i soldi che di lì a poco giungeranno loro tramite i coniugi Schwartz sono in realtà il suo ultimo lascito.

 

Un uomo battuto, deflagrato come l’ordigno esplosivo a cui Mike lo aveva paragonato, a cui rimane solo una spettacolare – quanto inutile – vendetta e un proiettile che lo farà accasciare, fra malinconia e rimpianti, nell’unico posto dove abbia mai trovato “la magia”: il laboratorio.

 

 

[Gli ultimi, inevitabili momenti di Breaking Bad]

 

 

Dopo una picchiata sull’ex chimico della Gray Matters Technologies caduto in disgrazia non si può non parlare di Jesse Pinkman: suo ex studente, successivamente socio di malaffare e giovane di buona famiglia finito nella spirale della droga.

 

Un ragazzo alla continua ricerca di amore e di una figura paterna individuata – suo malgrado – nel complicato e bellicoso rapporto con Walter e, successivamente, in Mike Ehrmantraut (Jonathan Banks), silenzioso capo della sicurezza della catena Los Pollos Hermanos.

 

Jesse è probabilmente il più “puro” dei personaggi di Breaking Bad, viste le sue angosce esistenziali, il rimorso per gli orrori commessi e per il perpetuo inseguimento del suo posto nel mondo.

Prigioniero dei propri sogni ormai irrealizzabili, semplici quanto una scatola di legno confezionata con le proprie mani, finirà con ottenere in eredità solo cicatrici e la El Camino di Todd (Jesse Plemons), il suo aguzzino, che utilizzerà per sfondare il cancello del gruppo di neo-nazi e riacquistare una libertà che, alla luce del trailer del film in uscita l’11 ottobre 2019, ha un sapore di disperazione e agonia.

 

 

[Aaron Paul, attore esploso grazie al suo Jesse di Breaking Bad]

 

 

Che dire poi delle figure comprimarie?

 

Breaking Bad ne è pieno: c’è Tuco Salamanca (Raymond Cruz), criminale squilibrato pronto a spararsi su per le narici qualsiasi sostanza che stia ferma su una superficie piana per più di 2 secondi (“BOOYAH!!”); ci sono suo zio Hector (Mark Margolis) e Gustavo Fring (Giancarlo Esposito), affiliati “vecchia scuola” del Cartello Messicano, tanto diversi nei modi quanto simili nel codice d’onore che li anima; e poi Saul Goodman, l’avvocato azzeccagarbugli che ti ammazza di parole o Mike, il nonno/sicario più letale del west.

 

Personaggi dotati di un fascino e una complessità tali da essere degni di una narrazione a loro dedicata nello spin-off Better Call Saul.

 

 

[Il finale della quarta stagione di Better Call Saul. In una parola: geniale]

 

 

L’attenzione maniacale di Gilligan e del suo team di sceneggiatori è individuabile anche nelle caratterizzazioni attuate rispetto il sottobosco di personaggi minori che popolano Albuquerque: da Breaking Bad, con Skinny Pete (Charles Baker) e Badger (Matt L. Jones) che fantasticano di sceneggiature di Star Trek con gare di mangiate di torte fra Spock e Kirk, o Gale Boetticker (David Costabile), il chimico canterino, fino a Marco (Mel Rodriguez) e Huell Babineaux (Lavell Crawford), rispettivamente vecchio compare di truffe e guardia del corpo di "Slippin'" Jimmy McGill in Better Call Saul.


Ogni personaggio, per quanto sia ridotto il suo screen time, è dotato di un’anima, di sentimenti talmente forti e tangibili da legarli in maniera indissolubile agli interpreti principali della storia, consentendoci una connessione empatica totale.  

 

 

[Una delle tante scene di Breaking Bad rimaste nella storia del piccolo schermo]

 

 

L’universo espanso di Breaking Bad è un mostro strano.

 

In un parco giochi per direttori della fotografia, dove terra e cielo sembrano non incontrarsi mai, ogni puntata diventa un godimento per gli occhi, fra citazioni cinematografiche (basti pensare ai numerosi trunk-shot tarantinani proposti nel corso delle 5 stagioni) e inquadrature contenenti dettagli apparentemente insignificanti, in realtà pregni di significati.


Tarantole in barattolo, occhi di orsacchiotti di peluche, portiere di camper crivellate di proiettili, dispenser di asciugamani deformati da pugni e mosche appoggiate su led di sistemi anti-incendio: elementi che, se presi singolarmente non hanno alcuna funzione, ma una volta collocati nel grande mosaico dello show AMC si trasformano in chiavi di volta a incastro perfetto.

 

 

 [Dettagli, dicevamo. Ricordate per caso dove andrà a finire quel proiettile caduto inavvertitamente sull'asfalto?]

 

 

Perfezione che le due serie raggiungono anche dal punto di vista della scrittura, con cliffhanger ben studiati e potentissimi, due su tutti la morte di Gustavo Fring per mano (o forse sarebbe meglio dire “per dito”) di Hector Salamanca e il geniale finale della quarta stagione di Better Call Saul.


Se poi si vanno a cercare i monologhi e le battute che, nel corso degli intrecci, sono diventati degli instant classics, si rischia di non finire più.

Per il semplice fatto che Breaking Bad e Better Call Saul nelle proprie sceneggiature hanno un tasso elevatissimo di epicità, tanto da far dimenticare allo spettatore sequenze gustose e divertenti come la prima “esplosione” di Walt con Bogdan, il proprietario dell’autolavaggio (“F*CK YOU, AND F*CK YOUR EYEBROWS!”), o il discorso di Jimmy/Saul alla ragazzina scartata per la vittoria della borsa di studio dedicata al fratello Charles.

 

 

["Ehi tu, spettatore! Lo vuoi un cliffhanger?"]

 

 

L’universo espanso di Breaking Bad è un mostro strano.

 

Un luogo dove ogni elemento si colloca precisamente – ed elegantemente – nel posto a esso designato.

 

Dal cast, dove svetta sì un Bryan Cranston mostruoso (6 Emmy e 2 Golden Globe vinti), ma che resta comunque popolato da attori di livello assoluto come Giancarlo Esposito, Bob Odenkirk e Jonathan Banks, fino alla colonna sonora che si muove agevolmente fra scelte insolite come Crapa Pelada del Quartetto Cetra e la “ninnanannesca” Goodbye di Apparat che accompagna l’entrata del samurai-zen Gustavo Fring nella casa di riposo per la ferale resa dei conti con Hector Salamanca.

 

[Solo brividi]

 

 

L’universo espanso di Breaking Bad è davvero un mostro strano, per il quale abbiamo tutti pensato che non fosse necessario uno spin-off:

“Raggiunta la perfezione (o quasi), che necessità c’è di riprendere in mano un prodotto ormai fatto e finito?”.


In questo caso AMC e Vince Gilligan ci hanno clamorosamente smentito, spedendoci a passi lunghi e ben distesi verso un’abiura immediata, con tanto di scuse contrite per aver dubitato di loro.

 

Gli showrunner di Better Call Saul, infatti, senza la pressione e la necessità di dover correre dietro alle dinamiche thrilling e frenetiche di Breaking Bad hanno potuto sviluppare i personaggi "derivati" della serie con cura certosina.

 

Lo spettatore può quindi assistere alla mutazione di Slippin' Jimmy nel Saul Goodman che aveva conosciuto in passato, al suo rapporto contorto con l'idolatrato fratello Chuck (Michael McKean), a quello con Marco, l'amico di sempre e compagno di mille truffe e alla strana relazione con l'avvocatessa Kim Waxler (Rhea Seehorn).

 

 

 

 

Il ciclo narrativo di Breaking Bad, attraverso lo sguardo disilluso del pagliaccio triste Saul, si deforma ed espande ancora, mostrandoci l'origine di tutti quei particolari - mai mostrati del tutto - nella serie principale.

 

La nascita del super laboratorio sotto la lavanderia, l'inizio dell'attività di avvocato di Jimmy nel retro del centro benessere vietnamita (“Chào các cô, ladies!”), l'arrivo di Mike Ehrmantraut ad Albuquerque e le motivazioni che lo hanno spinto al trasferimento dopo la morte del figlio Matt, oltre all'introduzione di molti personaggi "minori" visti in precedenza, come la segretaria Francesca e il pachidermico Huell.

 

Situazioni e dinamiche che stuzzicavano la curiosità durante la visione di Breaking Bad e che ottengono piena soddisfazione nella serie spin off che eguaglia la cifra stilistica dello show andato in onda dal 2008 al 2013 e, probabilmente, lo supera dal punto di vista della scrittura, arricchendolo con dinamiche comedy assolutamente funzionali e fan service gradevoli e mai smodati (penso al regalo di Lalo allo zio Hector).

 

["DING, DING, DING!"]


E poco importa se lo spin off di Breaking Bad dedicato a Saul non ha ricevuto gli onori che meritava durante la recente cerimonia degli Emmy Awards. 

 

Noi tutti sappiamo che, ancora una volta, Vince Gilligan ce l'ha fatta, proponendoci un prodotto televisivo di altissimo livello, costantemente in bilico fra lacrima e sorriso, coinvolgendoci in una narrazione brillante, dinamica, colma di sottotesti e storyline interessanti.

 

E ora, tra mille dubbi e perplessità, arriva "Il film di Breaking Bad".


Dopo che le vicende pregresse ci hanno lasciato un grosso cratere colmo di cadaveri e rapporti distrutti, viene da domandarsi solo una cosa: che ne sarà ora di Jesse?

Come lo faranno districare in un mondo in macerie, dove non esistono più quasi tutti i personaggi principali dell'intreccio originale?

 

Senza Walt, Saul, Mike, Hank e con all'attivo solo le (certe) presenze di Skinny Pete e Badger?

Come farà Vince a "venderci" di nuovo una storia solida e credibile nonostante queste pesantissime assenze?

Ce la farà?

 

 

 

 

Non ci resta la speranza che, anche con El Camino: A Breaking Bad Movie, saremo costretti, ancora una volta, a consegnarci totalmente a una narrazione fluida, immagini potenti e situazioni immersive dalle quali è scomodo e faticoso uscire.

 

Siete pronti a tornare ad Albuquerque?

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