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Nel 2014 David Robert Mitchell aveva conquistato il pubblico internazionale con l'horror It Follows, che spostava il sesso dalla sua posizione di componente archetipica del genere a focus della narrazione.
Nel maggio del 2018 è arrivato al Festival del Cinema di Cannes, concorrendo per l'ambita Palma d'oro, con il suo neo-noir Under the Silver Lake, film a basso budget - circa 8 milioni investiti - benedetto da un cast interessante: Andrew Garfield, Riley Keough, Topher Grace, Jimmi Simpson e Patrick Fischler.
Oggi vi portiamo una recensione confusa, stonata e della quale non potete proprio fidarvi.
Chi vi parla nel corso del tempo ha compreso come il cinema, in quanto forma d'arte, sia difficile da inquadrare e criticare quando si vive troppo nei tempi.
Alcuni film, geni e opere, sono schiavi del tempo, delle letture, delle coscienze collettive, e se a non comprendere il potenziale di un progetto sono molto spesso per primi proprio i produttori, i famigerati addetti ai lavori, figuratevi quanto può essere complesso per critica e pubblico riuscire a scollarsi dal martellante presente e dal paludoso passato, per lasciarsi assorbire da una dimensione oltre.
Pensate a Le Iene di Quentin Tarantino: un film post-moderno che negli anni '90 ha necessitato una gestazione di un paio d'anni prima di esplodere per arrivare all'attenzione della critica e del pubblico internazionale; in una instant society come quella di oggi, dove la gente guarda più show allo stesso tempo, a 2X, allo scopo di rimanere sul pezzo e ottimizzare i tempi, Le Iene sarebbe passato sotto traccia e forse oggi non avremmo il cuore palpitante per Once Upon a Time in Hollywood.
Pensate ai soliti esempi: Blade Runner, 2001: Odissea nello Spazio, Mulholland Drive ecc.
Tutti film che hanno diviso la critica e deluso al botteghino ricevendo solo in seguito, anche grazie ad una coscienza critica europea molto più attenta rispetto a quella americana, una valutazione misurata alla loro grandezza.
Molto spesso provo a immaginare cosa possa aver provato chi è entrato in sala a vedere 2001: Odissea nello Spazio, trovandosi al cospetto di un film dove tutto passa per un mistero più antico dell'uomo stesso ed il linguaggo cinematografico si spinge così oltre da lasciare interdetti.
Quanto può essersi sentito sperduto il critico che è entrato in sala per trovarsi al cospetto del Quarto Potere del venticinquenne Orson Welles?
La reazione di disgusto avuta da Roger Ebert dopo aver visto Strade Perdute era forse una repulsa verso una visione che lo aveva lasciato talmente spiazzato da farlo sentire a disagio nel dover valutare una pellicola che non aveva compreso appieno?
Dopo la visione di Under the Silver Lake, risvegliatomi dalla Sindrome di Stendhal della quale ero rimasto vittima nel corso della visione, ho provato una serie di sensazioni miste, afferrando lo smartphone alla ricerca, attraverso confusi e sgrammaticati messaggi via Telegram, di uno sfogo, di un confronto, evitando lo psicotico inconveniente di passare ore ipnotizzato dai miei stessi pensieri, arrendendomi alla follia per dare voce alle perplessità, sragionando con me stesso alla ricerca di un senso.
Il film di Mitchell mi ha fortemente spiazzato, riportandomi alla sensazione sottopelle, estraniante, provata dopo il Vizio di Forma di Paul Thomas Anderson.
Il bisogno è quello di averne ancora.
Di poter tornare in sala e gridare al proiezionista di mandarlo ancora, preso dalla foga isterica tipica di un tossicodipendente preso da tremori e deliri da astinenza, un cospirazionista intricato in un caso talmente complesso e spaventoso da divenire ossessione e malattia.
E questo è proprio uno degli argomenti del film.
Under the Silver Lake fa respirare l'aria di quei film che non si vedono quasi mai al cinema, riportandoci appunto all'Inherent Vice di Paul Thomas Anderson, al neo-noir di David Lynch che spazia da Velluto Blu a Mulholland Drive, a Il Grande Lebowski dei Fratelli Coen, a Il Grande Sonno di Howard Hawks, al Vertigo di Hitchcock o L'Infernale Quinlan di Orson Welles - film non capito, al tempo, dalla critica.
Torniamo quindi al film noir al cinema che per chi parla è il più affascinante, dove le storie non si sorreggono mai sulla linearità didascalica e rassicurante degli eventi, ma sull'incedere incerto e sulla presenza costante del mistero, spiegato e inspiegato, che detta il ritmo altalenante di un film che non fa azione, non fa commedia e non fa dramma, muovendosi anarchico tra i generi, pur rispettando l'archetipo del genere: indagine, polizia, dark lady, mistero.
Under the Silver Lake vuole mettersi sulla traccia di questa tradizione quasi del tutto assente nel cinema contemporaneo, bisognoso, per una voce espressa con forte chiarezza dal pubblico, di una linea retta narrativa arricchita di dettagli luccicanti a mascherare, malamente, una struttura superficiale, in nome della veridicità degli eventi - cercando coerenza persino in quei generi dove la coerenza è del tutto arbitraria.
Mitchell, come Lynch prima di lui, cerca di tornare a Viale del Tramonto di Billy Wilder, costruendo un film neo-noir a Hollywood, su Hollywood e che si riempie del mito del cinema dell'epoca migliore di Hollywood.
Andrew Garfield interpreta Sam, un perdigiorno fortemente legato alla cultura pop della sua generazione, innamorato di Hollywood non solo in quanto luogo del cinema, ma in quanto centro di un universo eccentrico e assurdo dove tutto succede senza aver modo di accadere altrove, come il potersi scopare, quasi giornalmente, un'aspirante attrice.
Sam, voyeur quasi professionista, ha una sua personale teoria cospiratoria riguardo i messaggio nascosti nella pop culture assorbita religiosamente dalla sua generazione, e un'ossessiva voglia di Sarah, misteriosa vicina che è un po' diva ed un po' dark lady.
Quando Sarah scompare, lasciandosi alle spalle un appartamento fantasma e uno strano simbolo, Sam si getta alla ricerca della ragazza scoprendo una Hollywood sempre più esoterica e viziosa.
Andrew Garfield non è Humphrey Bogart o James Stewart, ma riesce ad entrare nei panni, da weirdo ed emarginato sociale, già indossati da Jeff Bridges, Joaquin Phoenix e Kyle MacLachlan, con il quale ha sicuramente molti punti in comune, a partire dall'ossessivo voyeurismo per le donne e il mistero.
La sua interpretazione di questo protagonista pavido, carico di una commedia collaterale da stramboide, rappresentante di una generazione sconclusionata e masturbatoria che riesce, al contempo, ad avere tutto e niente, è magnetica, memorabile nella raffigurazione di un carattere sfatto e sciatto, sessualmente carico e pruriginoso, svogliato eppure alla costante ricerca di stimoli, alla rincorsa di cose che lo spaventano profondamente e che forse giustificherebbero la sua apatia verso un mondo che sembra trovare senso in quella stessa cultura pop così potente e, forse, così fabbricata, parte di un copione scritto da una mano invisibile e senza movente.
Il mondo steso da Mitchell in sceneggiatura è strutturato su livelli che, in quanto hollywoodiani, vanno oltre qualsiasi altra realtà e si nutrono di cinema, celebrazioni iconiche, esoterismi costruiti per noia e potere, miti underground moderni nati per alcuni uomini e pericolosi per altri.
Una città dove ogni comprimario è presente e portante, dove ogni momento cerca di essere sensazione, domanda e risposta in uno spazio senza tempo, dove il 2018 può essere questo o quello di una dimensione di Terra X-72.
Hollywood è però riconoscibile come spazio di eccentricità, dove le sue divinità sono presenti come statue di un pantheon da venerare ed arricchire, motore e linfa di una città fatta di abitanti e situazioni unicamente possibili all'interno dei suoi confini, come se potesse coesistere con La La Land, Mulholland Drive e Viale del Tramonto.
Le sue maschere sono lo spessore, il contesto e il citazionismo nel quale si possono muovere la grazia del cinema bianco e nero, i movimenti sopraffini di una un'assassina voluttuosa nascosta all'ombra di un giallo suburbano.
Il film intreccia se stesso in una forma noir che vuole essere classica e che richiama il classico nell'utilizzo di musiche, scanzonate quando inserite in un contesto dove il colore, contrariamente al bianco e nero, spezza l'idea che ci possa essere quella dinamicità sonora sovrapposta ad una messa in scena di per sé già stimolante ed elettrica.
Altrettanto si potrebbe dire dei movimenti di macchina e delle scelte di regia che non sono soltanto ben congeniate, ma danno la sensazione, cosa sempre più rara, che il film sia girato seguendo la visione di un regista e non con uno storyboard da scuola di cinema.
Una regia che eccede, come faceva il noir ed il genere, che usa lo zoom, che muove la macchina in modo frenetico seguendo i dettagli e i personaggi, costruendo una tensione con il cinema e non con quello che viene detto dai personaggi sullo schermo.
Tutto è quasi eccessivamente noir, sovrapposto con forza al pop elettrico del presente, pur non diventando mai ipercinetico ma creando una sensazione di estraniazione data da un linguaggio che il cinema ha abbandonato, dopo averne abusato per moltissimo tempo, e che ha sostituito con l'effetto speciale e l'assordante dialogare, scordando spesso la grammatica del cinema migliore che non si esprime soltanto con una macchina a mano sballottante o inquadrature fisse e simmetriche ravvivate da un montaggio psichedelico o rese pacifiche dalla melassa dei tempi dilungati.
Under the Silver Lake è un film che lascia spiazzati, un neo-noir volutamente celebratorio e di richiamo verso chi il genere lo ha inventato (Lynch è maestro in questo), utilizzando sogni, allucinazioni, misteri terreni e non, spiegati e inspiegati (come il famoso cadavere de Il Grande Sonno), immergendo lo spettatore in una melma dalla potente carica idiosincratica ed allucinogena targata Hollywood, dove le colline della città del cinema sono affascinanti eppure pericolose e violente e dove un mito urbano cospiratorio, il fumetto di un pazzo, diventa specchio e fonte d'ispirazione del reale.
Il film di Mitchel continua su questa traccia lungo i suoi 139 minuti e lascia lo spettatore in balìa di un ritmo altalenante che fino alla conclusione lo lascia in dubbio, insicuro su come questa manciata di giorni durante i quali si svolge l'indagine possa concludersi, e che si chiude proprio con le certezze suggerite da indizi visivi, quelli che parlano allo spettatore dentro la storia, e la non scoperta del parlare di un pappagallo, distraendo il pubblico dalle soluzioni trovate e da quelle lasciate a se stesse.
Under the Silver Lake è, tra i film dedicati a Hollywood, uno dei più misteriosi di sempre, una pellicola celebrativa del classico e della cultura pop moderna che diventerà storia - pur essendolo già in parte.
Un film che mette in scena un neo-noir forse troppo ostentato, eccessivo, pretestuoso, magari ingenuo in un certo citazionismo troppo pigro e palese, tecnicamente interessante e formidabile e che, in tutta franchezza, a volte mi è sembrato mal misurato nei tempi e del quale, molto probabilmente, dovrò tornare a parlare tra qualche anno, dopo molteplici visioni.
Se amate Hollywood e se amate il noir, Under the Silver Lake è un film che non potete mancare.
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1 commento
Alessandro Dioguardi
5 anni fa
Il film non è andato bene al box office domestico e si è risollevato vagamente con le release internazionali.
Non so se e quando arriverà al cinema in Italia.
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