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I girasoli, il genio, l’alcool, la notte stellata, le donne, la pazzia, gli autoritratti, l’emarginazione e poi il suicidio.
Chissà come dev’essere stata davvero la vita di Vincent Willem van Gogh.
Il folle van Gogh, il genio van Gogh.
L’ultimo lavoro di Julian Schnabel, Van Gogh - Sulla soglia dell’eternità, nelle sale italiane dallo scorso 3 gennaio, è la più splendida e corretta risposta che si potesse dare a questo quesito.
Il film con protagonista il sempre immenso Willem Dafoe (vincitore della Coppa Volpi alla scorsa edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia) racconta gli ultimi anni di vita del pittore olandese.
La pellicola si apre su un van Gogh esasperato dalla vita artistica di Parigi, insofferente verso i colleghi pomposi, troppo legati ai canoni pittorici dell’epoca e infastidito dagli esseri umani in generale.
Su consiglio dell’amico e collega Paul Gauguin (Oscar Isaac) decide di trasferirsi nel sud della Francia, nella città di Arles.
Qui, abbandonato il grigiore di Parigi, Vincent cercherà la luce calda che tanto desidera per i suoi dipinti, fino al giorno della sua morte.
Uno degli elementi fondamentali del (buon) cinema è quello di facilitare lo spettatore nell’immedesimazione con i protagonisti della narrazione.
In questo il film di Schnabel (anche lui pittore) è assolutamente eccezionale: già dalle prime inquadrature, chi siede in sala prende coscienza del fatto che quello a cui prenderà parte sarà un vero e proprio viaggio nella mente di van Gogh.
L’utilizzo insistito della camera a mano, con inquadrature tagliate e – a tratti – sghembe che seguono costantemente i movimenti del pittore, i primi e primissimi piani, i particolari sulle mani che volteggiano frenetiche nella preparazione dei colori o nella gettata su tela riescono realmente a mettere lo spettatore in contatto con il quotidiano dell’artista.
A farlo entrare nella sua mente, ora frenetica e cupa, sofferente e insoddisfatta, ora placida, limpida e colma bellezza nell’atto di ritrarre l’immenso splendore della natura.
L’utilizzo dei filtri ottici, che distorcono e offuscano i campi nei momenti di crisi interiore e di pianto, è accompagnato da palette di colori freddi e cupi che si alternano a composizioni colorate (con una predominanza del giallo), luminose e bellissime nei momenti di gioia e serenità.
La sceneggiatura, scritta dal regista di concerto con Jean-Claude Carrière, è totalmente funzionale nel suo compito di renderci – quasi fisicamente – partecipi del travagliato viaggio di van Gogh nel mondo.
Gli echi ovattati dei dialoghi, che rimbombano nella mente confusa del pittore durante i crolli nervosi, il rapporto con l’amato fratello Theo (Rupert Friend) e i tanti brillanti dialoghi – uno su tutti il colloquio con il prete (Mads Mikkelsen) che deve decidere sul suo rilascio dalla casa di cura psichiatrica – sono curatissimi e di rara efficacia.
Il reietto van Gogh, il rivoluzionario van Gogh.
La ricerca continua della bellezza, da condividere con l’osservatore dei suoi quadri, è per Vincent un calvario pari a quello del Cristo.
Un’ascesa faticosa, straziante, colma di umiliazioni – subite da parte di chi non comprende l’innovazione della sua arte pittorica – solitudine e isolamento, patiti a causa delle sue bizze e per l’ignoranza della gente.
Una sorta di scalata al Golgota, proprio come quella di Gesù, figura ripresa e assimilata a sé dallo stesso van Gogh nelle battute finali del film dove, in maniera sibillina, predice il suo ingresso – e quello della sua opera – nell’eternità della fama e della gloria, proprio come avvenne con il Cristo redentore anni dopo la flagellazione e il martirio.
Martirio che per Vincent/Dafoe, contrariamente a quanto affermato dai libri di storia, non ha l’aspetto di un suicidio, ma quello di un involontario omicidio commesso da una coppia di ragazzi, non denunciati dal pittore nemmeno sul letto di morte.
Ipotesi storica che abbraccia una teoria sviluppata nel 2011 dagli storici dell’arte Steven Naifeh e Gregory White Smith nella biografia “Van Gogh: The Life”.
Probabilmente su questa scelta molti storceranno il naso, ma è indubbio che sia uno sviluppo narrativo del tutto coerente col Vincent van Gogh tratteggiato dal soggetto del regista statunitense.
Impensabile non porre l'accento sulle musiche per violino e pianoforte, composte da Tatiana Lisovkaia, in grado di seguire con grande aderenza le atmosfere concitate, pacate o contemplative a seconda degli stati psicologico/emotivi del protagonista.
Un pittore che solo dopo la sua morte sfondò la soglia dell’eternità, divenendo uno degli artisti più importanti e amati nella storia dell’umanità.
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3 commenti
Davide Rancati
5 anni fa
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Adriano Meis
5 anni fa
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Angela
5 anni fa
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