#articoli
Wolf Man è il nuovo film diretto da Leigh Whannell con Christopher Abbott e Julia Garner, reboot del film omonimo del 1941 firmato George Waggner.
Se è vero che un titolo e non un’immagine vale spesso più di mille parole, allora il modo migliore per comprendere appieno un’opera come Wolf Man è fare attenzione a quello spazio bianco che divide, non certo casualmente, la Bestia dall’Uomo.
[Il trailer di Wolf Man]
È infatti più che ovvio affermare come oggi il Cinema abbia, letteralmente, una fame da lupi: fame di nuove storie, nuovi autori e, manco a dirlo, nuovi brividi.
Ogni buon piatto però, per quanto nuovo, ha sempre bisogno di vecchi e rodati ingredienti per poter saziare tanto i palati più stagionati quanto le papille più giovani e bramose ed è proprio da qui che nasce l'esigenza di prendere di peso quel caro vecchio The Wolf Man per scindere definitivamente le due differenti e al tempo stesso complementari anime che lo sostanziano sin da quel fondativo 1941, così da ottenere un novello e decisamente più spendibile Wolf Man.
Dopo la geniale rilettura in chiave techno-stalking del folle L'uomo invisibile fuoriuscito dalla penna di H.G. Wells e catturato a suo tempo dall’altrettanto talentuoso obiettivo di James Whale, quel buontempone di Leigh Whannell ha scelto con Wolf Man di metter zampa a un ennesimo e altrettanto sacro Man dell’orrorifica Storia del Cinema, adattandolo - e inevitabilmente riattualizzandolo - a uso e consumo di un’epoca nella quale la figura maschile si trova ormai a subire da tempo una fisiologica de-mitizzazione e conseguente messa al rogo della propria insita animalesca natura.
Da The Invisible Man a Wolf Man il passo è, dunque, assai breve.
Non solo per la fisiologica trasmigrazione dal paradigma dell’occultamento alla fiera esibizione di un licantropico villain - il cui prostetico make-up rizza stavolta il rado pelo a una sempre più dilagante involuzione qualitativa della CGI - quanto piuttosto perché la sceneggiatura scritta a quattro mani dallo stesso Whannell assieme a Corbet Tuck sembra per l’appunto intenzionata a giocare la carta di una mutazione che, più che assecondare quella hobbesianamente classica da homo a lupus - tramite l'espediente di un virulento morbo in sostituzione al consueto esoterico anatema - pare piuttosto rispecchiare quella che da Maschio Alfa conduce senza mezzi termini a un contemporaneo Omuncolo Beta.
[Christopher Abbott ha la Belva in corpo in Wolf Man]
La de-mascolinizzazione imperante che porta i sempre più insicuri e disorientanti alfieri del cromosoma XY a perdere quasi del tutto la propria stereotipata primordiale natura, pur continuando tuttavia a covare la proverbiale Bestia in seno, pare trovare infatti piena caratterizzazione della figura del remissivo Blake (Christopher Abbott) protagonista di Wolf Man.
Un Uomo Nuovo - nell’accezione meno nietzschiana possibile - cresciuto da un Padre Padrone (Sam Jaeger) assai autoritario e passivamente aggressivo dal quale il nostro ha tuttavia tentato faticosamente di smarcarsi nel crescere al meglio possibile la giovane figlioletta Ginger (Matilda Firth).
Vittima di un’esistenza casalinga tipicamente 3.0 nella quale il suo ruolo da amorevole Angelo del Focolare lo ha posto in forte tensione con una moglie (Julia Garner, a mio avviso non particolarmente in parte) stacanovisticamente impegnata a portare pane e freddezza in tavola, il represso e accondiscendente pater familias coglierà l’occasione fornitagli dalla notifica di morte per prolungata scomparsa del fu dispotico genitore per organizzare una gitarella, in compagnia dei suoi due soli affetti fra gli amati e odiati boschi della propria infanzia.
Boschi tra le cui oscure frasche un non meglio identificato escursionista si sarebbe ammalato di un misterioso Male per poi svanire nel nulla, nel mezzo delle folkloristiche nebbie del sentito dire.
Una famigliola disfunzionale, una sordida leggenda metropolitana, una mostruosa minaccia in agguato nel buio e, ça va sans dire, nientepopodimeno che Quella casa nel bosco nella quale di tutto potrà accadere.
Gli ingredienti capaci di rendere Wolf Man una tipica fiaba nera di puro e sano intrattenimento orrorifico paiono dunque esserci proprio tutti, così come pure i modesti 25 milioni di dolalri di budget opportunamente elargiti dal caro Jason Blum affinché il sodale amicone di cinematografiche merende dell’idolatrato James Wan non dia troppo bando alle ciance e, a nemmeno un quarto d’ora dal fatidico plot twist d’ordinanza, a seguito del mozzico sbagliato al momento sbagliato da parte di un misterioso e mannaro figuro, si possa dunque infognare i tre poveri porcellini di qui sopra all’interno dei pochi claustrofobici metri quadrati di un home invasion.
Un film che impara dal buon Neil Marshall che grazie al suo cultissimo Dog Soldiers ci ha insegnato che il vero Big Bad Wolf non è tanto quello che Knocks at the Cabin quanto piuttosto colui che [It] Lives Inside.
[Julia Garner in difesa della giovane figlioletta dall'agguato del Wolf Man di turno]
Nel pieno di un vero e proprio Rinascimento grazie al quale nel corso degli ultimi tempi lo spesso bistrattato archetipo del licantropo pare finalmente destinato a una gloriosa e sacrosanta rinascita, Wolf Man non può tuttavia certo dirsi uno dei più incisivi portabandiera di tale lupesca rinverdita.
Nonostante infatti alcune ottime intuizioni di messa in scena, che si distaccano con una certa forza dalla rodata goticheggiante matrice presente nel capostipite cult Universal del 1941 così come pure nel ben poco memorabile remake del 2010 a opera di Joe Johnston, l’ultima fatica di Leigh Whannell non appare sufficientemente graffiante né mordace quanto gli attributi del suo peloso protagonista farebbero intendere.
Abbracciando convintamente un’idea di orrore più post che neo gotica, debitrice tanto del già citato WanVerse quanto del filmico fuocherello di paglia nel quale si è purtroppo dissolto il fu talentuoso David F. Sandberg, Wolf Man gode di pochi (ma buonissimi) momenti di genuina tensione e di alcune soluzioni estetiche di gran caratura - la semisoggettiva a percezione alterata, ad esempio, si rivela un coup de théâtre letteralmente “bestiale” - ma anche di numerose imperdonabili cadute di tono e stile, le quali si coagulano soprattutto attorno a dinamiche relazionali sulla carta potenzialmente molto interessanti ma banalizzate da una risoluzione superficiale e assai sbrigativa.
Quello che si era inizialmente intuito potesse essere un Man vs Wolf - ovvero la disperata lotta di un Uomo comune nel reprimere dentro di sé quella latente Bestia di paterna ascendenza che mai si sarebbe voluta nuovamente tramandare alla futura prole - diviene ben presto un ben più convenzionale Wolf vs Man o, per essere più precisi, un Wolf vs Family, dove sarà tuttavia ancora una volta l’indomabile forza di volontà assieme ovviamente al sempre catartico amore l’unica vera arma attraverso la quale tentare inutilmente di addomesticare lo zannuto e peloso demone, che dal profondo dell'anima ulula forte al chiarore di una luna qui per la primissima volta del tutto ininfluente.
Se tuttavia con Il male dentro l’ottimo Alexander J. Farrell aveva scelto di impiegare la figura del licantropo quale allegoria della rabbia maschile, che se non opportunamente tenuta a bada rischia troppo spesso di sfociare in pericolosa violenza domestica come le cronache quotidiane purtroppo ci restituiscono conto, il Wolf Man di Whannell non si dimostra affatto così sottile né particolarmente convincente nel trattare e, soprattutto, reiterare la propria limpidissima e ben poco equivocabile metafora.
[Christopher Abbott pater familias e homo licantropus in Wolf Man]
Ne consegue, dunque, un film ricco di potenziale ma strutturalmente imperfetto, nel quale tanto l’arco di trasformazione dei pochi personaggi in gioco quanto il loro già ridotto spessore finisce per assottigliarsi ancor più con il procedere di ciascuno dei suoi cento discontinui minuti.
Un film che potrebbe paradossalmente essere letto, più che con la mostruosa metamorfosi del Wolf Man che gli dà il titolo, quale umorale estensione della fredda, apatica ed emotivamente assi poco coinvolgente natura dell’altrettanto poco materna - e, forse, pure infedele - co-protagonista incarnata da una qui poco espressiva Julia Garner.
Non vi è in effetti molto tempo per affezionarsi né comprendere sino in fondo le seppur molteplici sfaccettature che si delineano all’interno dell'insidiato microcosmo domestico di Wolf Man, in quanto l’action interviene a rotta di collo - e questo è un bene - a soffocare ogni possibile ulteriore refl-action - e questo è un male - a tempo di record, lasciando che sparute incursioni nel sangue nudo, puro e crudo giungano decisamente troppo tardi a dare un minimo di linfa e sapore a un racconto che, tanto narrativamente quanto stilisticamente, rischia di soccombere all’anemia ben prima del tempo utile consentito.
Come avrebbe tuttavia affermato il compianto Corrado Farina i generi, così come i tòpoi e i cliché, non scompaiono mai per davvero, perché Hanno (semplicemente) cambiato faccia.
Ciò nonostante, dando anche solo una rapida occhiata a questo nuovo Wolf Man, verrebbe da dire che essi hanno piuttosto cambiato pelliccia, facendo sì che il vecchio adagio dell’homo homini licantropus più volte evocato dallo stesso Whannell torni nuovamente a irrorare il grande schermo senza particolare infamia, ma nemmeno quella lode che ci si sarebbe potuti aspettare da un così decantato e, forse, in fin dei conti non propriamente necessario Upgrade.
[articolo a cura di Matteo Vergani]
___
CineFacts non ha editori, nessuno ci dice cosa dobbiamo scrivere né soprattutto come dobbiamo scrivere: siamo indipendenti e vogliamo continuare ad esserlo, ma per farlo sempre meglio abbiamo bisogno anche di te!