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L'uomo nel bosco - Recensione: come un biblico cahier

Alain Guiraudie dirige una pellicola magistrale, in cui dà nuovamente prova della sconcertante facilità con cui il suo Cinema fluisce inesorabile 

Il Cinema d’autore francese ultimamente flirta in maniera sorniona con il giallo - genere che Italo Calvino definiva nei suoi saggi “un’incredibile palestra narrativa” e ne L’uomo nel bosco, l’ultimo lavoro di Alain Guiraudie, i misteri sono almeno due: chi ha ucciso Vincent nel bosco? 

 

Che cosa è successo anni prima tra Jérémie (Félix Kysyl) e gli abitanti di Saint-Martial, il paesino nel sud della Francia dove fa ritorno per il funerale del panettiere per il quale lavorava da giovane? 

Del primo sappiamo tutto, anzi, come in Delitto e Castigo siamo gli unici testimoni dell’omicidio che avviene ne L'uomo nel bosco.

Del secondo, invece, il film di Guiraudie non racconta quasi nulla. Come accadeva per esempio in Anatomia di una caduta, il regista si diverte a manipolare e ribaltare a proprio vantaggio gli ingranaggi diegetici del thriller psicologico. 

 

Se infatti il premiatissimo film di Justine Triet non rivelava la verità dietro la vicenda, ma raccontava molto dell’antefatto che legava i due protagonisti, ne L’uomo nel bosco accade esattamente l’opposto: lo spazio-tempo dell’azione è perturbato, cristallizzato.

 

Da questo momento in poi, ha inizio un inarrestabile teatro biblico dei corpi. 

 

[Il trailer de L'uomo nel bosco]  L'uomo nel bosco

 

 

Le relazioni pericolose 

 

Saint-Martial è l’ennesima eterotopia del Cinema di Guiraudie.

Ispirata a un episodio di Rabalaïre - l’epica di oltre mille pagine pubblicata dal regista quattro anni fa - si tratta di un luogo di confine, a là Michel Foucault, ossia “un luogo reale al di fuori del reale”.

In quest’ottica la cittadina oltralpe è l’innesco di uno studio dicotomico, sul e del limite: tra passato e presente, verità e menzogna, amore e ricatto, bosco e paese, condanna e misericordia (Misericorde è il titolo originale francese de L'uomo nel bosco), scabroso e burlesco. 

 

Di queste "correspondances" - il film, ça va sans dire, ribolle di echi classici e non della letteratura francese - alcune restano taciute mentre altre implodono a fasi alterne, tant’è che una volta commesso l’omicidio, come un Rodion Raskol'nikov contemporaneo, Jérémie si perde nello spettro polifonico del senso di colpa, respinto e attratto dalle possibilità ambigue tanto della confessione quanto della menzogna, come nei migliori film di Alfred Hitchcock

 

In questa intercapedine, tra “vivere sorvegliati” oppure “essere puniti” per dirla di nuovo come Foucault, il regista inserisce, come fosse l’elemento magico della favola proppiana, quello evangelico, rappresentano appunto da padre Philippe - segretamente innamorato da anni proprio di Jérémie, l’ennesimo mistero de L'uomo nel bosco.

In quest’ottica il paratesto biblico è evidente: Jérémie è anche Caino, cioè l’assassino del fratello (non di sangue) Abele/Vincent, apolide (dice che i suoi genitori sono ancora vivi, ma non si capisce perché abbia passato l’infanzia a Saint-Martial), condannato a viaggiare senza meta, perverso, forse malvagio, pronto a nascondersi nei panni dell’altro.   

 

Una delle scene più significative de L'uomo nel bosco, infatti, ritrae proprio il protagonista che indossa i vestiti di Walter (David Ayala), un ex collaborare della panetteria che vive ancora a Saint-Martial e con il quale Jérémie ha avuto un rapporto altalenante nel passato.

Quest’ultimo, dopo aver infilato canottiera e mutande, si avvicina a Walter e sperimenta un approccio sessuale dai tratti bizzarri, che rimette a tema l’erotica istintiva e imprudente che caratterizza la filmografia di Guiraudie sin dagli esordi e soprattutto ne Lo sconosciuto del lago, il film che l’ha definitivamente messo sulla mappa dei più promettenti registi della sua generazione. 

 

In un formidabile gioco di opposti e attese, che sembra ricordare l’entrelacement dell’epica cavalleresca, il biblico e il sesso, il sacro e il profano si mischiano nei dialoghi tra padre Philippe e Jérémie - forse la spia più evidente della fluidità impressionante e ineluttabile del Cinema di Guiraudie.

In cima alla montagna (ennesimo richiamo teologico), i due trattano la liberazione di Jérémie dai sensi di colpa: non deve suicidarsi (l’unico peccato che il cristianesimo non perdona), perché vivrà per farsi amare da Philippe, il quale è disposto a dimostrare il proprio sentimento “nel silenzio e per l’eternità”, in piena salsa tolstojana: “dove c’è giudizio, non c’è giustizia”

Oppure, nell’ennesima inversione dei ruoli, i due sono ritratti da Guiraudie in canonica mentre Philippe ammette di non voler denunciare Jérémie alla polizia in nome del proprio amore, sprovveduto e disinteressato, che in qualche misura è il motore dell'agnizione (graduale) de L'uomo nel bosco.

 

O ancora li troviamo nello stesso letto, per far credere al poliziotto che li sta cercando che non nascondono nulla e davvero hanno una relazione amorosa, o "pericolosa" direbbe Choderlos de Laclos: Philippe, al tentativo del gendarme di verificare se realmente siano nudi sotto alle coperte, reagisce rincorrendolo, nonostante un’evidente erezione dal gusto molto francese.

 

 

[Un frame de L'uomo nel bosco] L'uomo nel bosco

 

 

Anni di solitudine

 

Il bosco è l’eterotopia nell’eterotopia ne L'uomo nel bosco, laddove la strade si divono per usare una famosa metafore di Jorge Luis Borges, e il sacerdote incontra il peccatore e Guiraudie muove dichiaratamente la macchina da presa, dai colori del fogliame autunnale alla terra in cui Jérémie ha sepolto Vincent e da cui, del tutto fuori stagione, spunteranno delle spugnole. 

 

L’episodio che vede protagonisti proprio i funghi colti sopra il corpo di Vincent - la madre Martine (Catherine Frot) ci assembla una quiche - testimonia il fitto sottotesto di allusioni, incastri, provocazioni, ribaltamenti (l’endocannibalismo) che Guiraudie intesse ne L'uomo nel bosco, sottolineati altresì da una cartografia ricchissima di microinsert e close up.

Non solo: ciò dichiara l’attenzione del regista per l’epifania, che per definizione è a metà tra l’onirico e il reale: così Martine, in una sorta di seduta ipnotica, interroga Jérémie per sapere dov'è sparito Vincent. 

 

Se il rapporto tra Jérémie e Walter è un esempio della rivelazione che rincorre Guiraudie - il primo dirà “quando desideri qualcuno da ubriaco lo desideri sempre” - lo è altrettanto il certosino discorso sulla corporeità che anima L’uomo nel bosco.

Dalla fisicità dominante di Walter a quella ammaliante di Martine, da quella rozza di Vincent a quella incontinente di Philippe il disvelamento nel film passa dai corpi: Jérémie, d’altronde, è una sorta di antieroe pasoliniano.

Da questa prospettiva il regista architetta una mise en page che ne L'uomo nel bosco fa del promiscuo l’unica etichetta ontologica dell’essere umano.

 

Questa lotta dei corpi - penso all’incontro di sumo che Martine guarda in TV o alle azzuffate tra Jérémie e Vincent che preludono all’omicidio di quest’ultimo - punta verso l’alto, provoca il passaggio ne L'uomo nel bosco dall’orizzontale al verticale di cui dicevo, “dall’immanenza alla trascendenza” per parafrasare i Cahiers du cinéma, la celebre rivista di critica cinematografica francese che ha scelto proprio L’uomo nel bosco come miglior film del 2024. 

 

Ciò traduce la necessità di Guiraudie di piegare il dato di realtà ne L'uomo nel bosco alle maschere corporali dei protagonisti come fa Emma Dante proprio nell’omonimo Misericordia; di costruire cioè un Cinema che tiene "l’eternità in una scatola" (direbbe sempre Raskol'nikov), dove ciò che conta è il contingente - Jérémie non ha fatto in tempo a dire al panettiere defunto che lo amava. 

Se del passato di Jérémie dobbiamo accontentarci di sapere questo (che non è poco in realtà), possiamo sempre affidarci al credo marqueziano di Cent’anni di solitudine che Guiraudie elabora nel film: “A me [a noi, ndr] basterebbe essere certi che esistiamo qui, in questo momento”.

 

Per esserne sicuri basta prendersi la mano, come fa Jérémie con Martine nella scena che chiude L'uomo nel bosco.

 

[articolo a cura di Davide Spinelli] 

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