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Il robot selvaggio - Recensione: l'umanità ritrovata

Il robot selvaggio è un inno all'amore in tutte le sue forme e a quell'umanità che, finalmente, si ritrova

Il robot selvaggio è un film d’animazione tratto dall’omonimo libro illustrato di Peter Brown e diretto da Chris Sanders, sceneggiatore di pellicole che hanno fatto la Storia dell’animazione come La bella e la bestia, Aladdin Il re leone nonché regista di titoli quali Lilo & Stitch, Dragon Trainer e I Croods

 

Un robot (Lupita Nyong'o), l’unità ROZZOM 7134 della Universal Dynamics, naufraga su un’isola abitata esclusivamente da flora e fauna: nel momento stesso in cui si attiva, l’unità ROZZOM 7134 comincia vorticosamente a cercare qualcuno da aiutare a risolvere i propri obiettivi, rendendogli la vita più semplice: dopo aver studiato gli animali e sviluppato un linguaggio per comunicare con loro, si rende conto di essere esclusa e identificata come mostro.  

Nonostante questo, ROZZOM 7134 continua la sua ricerca e salva una piccola oca, il cui nido è stato distrutto dal robot stesso a causa di un incidente durante un inseguimento con un orso.

 

Questo evento mette in discussione ROZZOM 7134 che scopre nuove parti di sé: assume il nome Roz e, assieme alla volpe Fink (Pedro Pascal), cresce ed educa la piccola oca. 

 

 

[Il trailer originale de Il robot selvaggio]

 

 

DreamWorks Animation negli ultimi anni ha avuto a mio avviso parecchi alti e bassi, cosa evidente tenendo conto anche solo dell’ultimo anno con l’interessante esperimento Orion e il buio e il poco memorabile Kung Fu Panda 4

 

Se c’è una cosa, però, per la quale questo studio d’animazione può essere lodato, è il modo in cui tutta quest’ultima produzione mantiene un proprio carattere distintivo, creando principalmente due filoni: del primo fanno parte quei film che riprendono gli schemi e l’animazione classica in CGI già proposti in passato, mentre nel secondo sembra che DreamWorks abbia cercato di dar voce a menti diverse tra loro, portando sullo schermo storie che spesso si distinguono e osano tanto soprattutto dal punto di vista dell’animazione. 

 

Il robot selvaggio non solo fa parte di questo secondo filone, ma riesce anche a brillare più degli altri per l’incredibile bellezza sotto diversi e importanti aspetti. 

Il film ha un’estetica incantevole nella quale si alternano particolarissimi fondali rappresentanti la natura che somigliano a pennellate di colore veloci animate solo in dettagli, creando un effetto acquerello spettacolare che si contrappone al 3D pulito degli elementi “estranei” alla natura. 

Questo aspetto è ancora più impattante se si osserva Roz che assume un aspetto sempre diverso, aggiungendo dettagli volutamente sfuggenti e imperfetti, man mano che si avvicina e accetta la natura selvaggia. 

 

Dal punto di vista visivo, dunque, Il robot selvaggio si distacca dall’idea di fotorealismo, accettandolo solo in parte a favore di un aspetto più sognante e fiabesco.

Il percorso che intraprende Roz è unico nel suo genere, perché la sua crescita interiore non riguarda solo se stessa ma anche i diversi ruoli che lei assume nel particolare contesto in cui si ritrova senza scelta.

 

Quando assume il compito di occuparsi della piccola oca si distacca da un ruolo che le era stato imposto, un ruolo automatizzato e privo di slanci creativi, e se ne crea uno nuovo, mettendo in discussione i suoi stessi rigorosi schemi.

 

 

[Una scena de Il robot selvaggio]

 

La sua ricerca, che prima era semplicemente volta al risolvere problemi e trovare soluzioni senza altre implicazioni, diventa curiosità e bisogno: il desiderio di aiutare il prossimo si sostituisce alla mera obbedienza.

 

Di conseguenza Roz comincia a comprendere anche il suo ruolo nella società degli animali - di chiaro parallelismo con quella umana - e soprattutto per coloro che la seguono nei suoi passi, ovvero la volpe Fink e l’oca Beccolustro (Kit Connor). 

In particolare, con l'entrata in scena di Beccolustro si introduce un tema totalmente inaspettato: quello della maternità, che si rivela essere centrale e permea Il robot selvaggio con un’ammirevole naturalezza. 

 

Nonostante il mondo in cui vivono questi personaggi sia appariscente e colorato non manca di crudeltà né di scontri tra prede e predatori, e il dialogo sulla morte viene affrontato tanto quanto quello sulla vita. 

 

Ne Il robot selvaggio la macchina diviene lo strumento per parlare dell’umanità escludendo però un racconto antropocentrico, concentrandosi sul discorso universale di connessioni e rapporti che superano la razionalità, votandosi completamente ad un’emotività che può rendere liberi. 

L’osservazione di nuove prospettive può, dunque, portare alla sopravvivenza creando regole sorprendenti, che abbattono quegli schemi mai confutati ma dati come assolute certezze.

 

Riassumere in poche righe il magnifico film che è Il robot selvaggio è un’impresa ardua, soprattutto se si ha la sensazione di non riuscire a descrivere quello che, assieme a pochi altri titoli, sta contribuendo alla creazione di un nuovo capitolo della Storia del Cinema d’animazione mondiale.  

 

Alla fine però va bene così: dove le parole non trovano più spazio, non resta che immergersi nella visione di questo sorprendente spettacolo.  

 

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