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Sbatti il mostro in prima pagina - Recensione: protagonisti, non osservatori

Presentato al Festival di Cannes 2024 nella sezione Classics in versione restaurata, Sbatti il mostro in prima pagina è un film pienamente calato negli anni ’70, periodo in cui fu girato, ma nel quale è facile trovare non poche attinenze con la società odierna, in cui molte cose sembrano non essere cambiate affatto

Sbatti il mostro in prima pagina sembra quasi essere un imperativo categorico di un certo tipo di d’informazione, nel 1972, anno di nascita di questo film, come nel nostro 2024.  

 

Marco Bellocchio, all’epoca giovane regista e autore di film come I pugni in tasca e La Cina è vicina, entrambi molto apprezzati anche all’estero, ereditò la regia di Sbatti il mostro in prima pagina da Sergio Donati, autore di soggetto e sceneggiatura insieme a Goffredo Fofi, per le divergenze tra Donati e Gian Maria Volonté, attore protagonista.

 

Eppure, immaginare oggi questo film senza Volonté come protagonista né Bellocchio come regista è quasi impossibile.

L’attenzione politica e sociale di cui Sbatti il mostro in prima pagina è pregno riporta chiaramente le posizioni e le opinioni tanto del regista quanto dell’attore protagonista, che sono stati, e sono ancora nel caso di Bellocchio, espressioni altissime del nostro Cinema civile.

 

Ma chi è questo mostro? Perché va sbattuto in prima pagina? Da chi? A che scopo?

 

[Il trailer ufficiale della versione restaurata di Sbatti il mostro in prima pagina]

 

 

L’occhio vuole la sua parte

 

Siamo in una Milano scossa dalle rivendicazioni politiche degli anni di piombo, in cui si susseguono senza sosta le manifestazioni della sinistra extraparlamentare e, contemporaneamente, della loro controparte reazionaria, rappresentata da movimenti come Maggioranza silenziosa: sono proprio dei filmati di repertorio di un comizio di questo comitato anticomunista ad aprire Sbatti il mostro in prima pagina, in cui, non senza un brivido, riconosciamo un giovanissimo Ignazio La Russa, attuale Presidente del Senato.

 

Basterebbe già questo a capire che in fondo, da quel periodo, le cose sono cambiate ma non così tanto come potremmo pensare.

La sede di un quotidiano di destra viene attaccata e incendiata parzialmente dalle molotov scagliate dai manifestanti: il caporedattore Bizanti, interpretato per l’appunto da Gian Maria Volonté, impiega poco a trasformare questo avvenimento in un evento mediatico irrinunciabile, chiamando colleghi da altri giornali e lasciando che più macchine fotografiche possibili immortalino il direttore del quotidiano (che si vedrà pochissimo nel corso del film e capiremo presto il perché) nei locali devastati dal fuoco e raccolgano le sue testimonianze lamentevoli sulla barbarie di teppisti senza morale né religione.

 

Ecco che qui arriva un altro particolare che non può non colpire noi spettatori contemporanei: il quotidiano dato alle fiamme è nientepopodimeno che Il Giornale. 

 

La cosa curiosa, però, è che Il Giornale per come lo conosciamo oggi, fondato da Indro Montanelli, nasce nel 1974, due anni dopo Sbatti il mostro in prima pagina.

È un paradosso temporale che lascia spiazzati, specialmente se si esamina con occhi attuali la Storia di questo quotidiano e la sua, diciamo così, impostazione stilistica.

 

È quasi automatico, per noi, fare un collegamento con ciò che quel quotidiano rappresenta oggi.

 

 

[Sbatti il mostro in prima pagina: le foto dei manifestanti durante le proteste]

 

 

Siamo in una Milano sconvolta da un barbaro femminicidio - parola anacronistica, ma che non uso a caso - alla soglia delle elezioni politiche: Maria Grazia Martini (Silvia Kramar che, curiosamente, diventerà una giornalista), giovane studentessa della buona borghesia, viene ritrovata morta in una zona periferica e degradata della città, probabilmente uccisa dopo essere stata stuprata.

 

Il caso mediatico che monta ha tutti i requisiti per essere un’operazione in cui deontologia e morale vengono buttate nel cestino per un fine più “alto”: immedesimare, scandalizzare, pilotare l’opinione pubblica verso il rifiuto dei mala tempora e il ritorno a un mos maiorum che le rivoluzioni sessantottine avevano disarcionato.

 

L’accento posto sulla verginità della ragazza prima della violenza, il continuo sottolineare la sua appartenenza sociale, la sua raffigurazione di figura angelicata ma traviata da cattive compagnie sono tutte le componenti che Il Giornale, secondo i piani del caporedattore Bizanti, mette in atto attraverso uno dei suoi più giovani inviati, Roveda (Fabio Garriba), che sin dall’inizio sembra porsi più dubbi etici di quanti se ne siano mai posti i suoi colleghi della testata in tutta la loro carriera.

 

Bisogna guardare, osservare, scavare nel torbido e uscirne puliti solo da fuori, scovare il capro espiatorio perfetto che, in tempo di elezioni, potrebbe fare la differenza tra far sì che tutto cambi o lasciare che tutto rimanga com’è sempre stato, con buona pace del Tancredi Falconeri de Il Gattopardo.

L’occhio vuole la sua parte e più essa è rivoltante, meglio sarà per tutti.

 

“Se le mamme italiane vogliono piangere, noi le facciamo piangere”. 

 

 

[Fabio Garriba e Gian Maria Volonté in Sbatti il mostro in prima pagina]

 

 

Ciò che si pensa e ciò che si dice

 

 

Sbatti il mostro in prima pagina è, a suo modo, una vera e propria lezione di giornalismo al negativo.

 

Roveda, ultimo arrivato a Il Giornale, viene chiamato nell’ufficio di Bizanti che gli fa una sonora ramanzina sul suo ultimo pezzo, senza dubbio ben scritto ma non esattamente rappresentativo della linea del giornale: un disoccupato disperato si è dato fuoco, lasciando moglie e cinque figli.

La “lezione” impartita da Bizanti a Roveda è uno dei dialoghi più brillanti del film e mostra come le parole passono portarci dove vogliamo: il “disoccupato” diventa un “immigrato” che si è drammaticamente suicidato e la disperazione che lo ha portato a un gesto ancora più disperato viene piegata a favore della bassezza delle sue origini, perché calabrese.

Insomma: se sei povero e disoccupato, oltre che calabrese, è solo colpa tua, non di chi ti ha lasciato senza lavoro - “licenziato” è parola tabù.

 

Siamo in una Milano in cui gli immigrati erano ancora altri italiani, provenienti dal sud Italia, verso i quali la predisposizione all’accoglienza era la stessa che una parte di italiani riserva oggi a immigrati provenienti da parti leggermente più a sud del nostro sud.

Come disse un saggio una volta, ci sarà sempre qualcuno più a sud di te da odiare indiscriminatamente. 

 

Ciò che si pensa, dunque, non può diventare ciò che si dice e Roveda viene così istruito a trattare il caso Martini nello stesso modo. Caso che da Martini diventerà presto il caso Boni, dopo aver finalmente trovato il capro espiatorio perfetto per sviare l’attenzione in mezzo al fumo della deontologia professionale in fiamme.

Mario Boni (Corrado Solari) è un militante della sinistra extraparlamentare che aveva un legame sentimentale con Maria Grazia: è la sua macchina a essere riconosciuta dal bidello della scuola come la macchina su cui Maria Grazia è stata vista l’ultima volta prima di sparire.

 

Boni viene così subito additato e trattato come il mostro del titolo e, in una sequenza che lascia l’amaro in bocca, viene portato sul luogo del ritrovamento del corpo della ragazza e costretto a osservare una grottesca simulazione del reato che tutti sono convinti abbia compiuto, con tanto di messa in scena della violenza sessuale.

 

“D'accordo: io, Il Giornale, provochiamo.

La realtà non la raccontiamo obiettivamente. Ma quale obiettività, Roveda? Si è mai chiesto chi è Mario Boni?

È uno sbandato che rifiuta le regole della convivenza sociale, si droga e assalta Il Giornale, aggredisce gli operai che non vogliono scioperare, sequestra i dirigenti, rovescia le macchine e gli dà fuoco.

È uno che odia anche lei, Roveda, con i suoi buoni sentimenti e i suoi innocui idealismi. Lei vede il giornalista come un osservatore imparziale.

Ebbene io le dico che questi osservatori imparziali mi fanno pena.

Bisogna essere protagonisti, non osservatori. Siamo in guerra! La lotta di classe la facciamo anche noi!

Non l'hanno inventata Marx e Lenin”. 

 

È (un certo tipo di) stampa, bellezza. 

 

 

[Mario Boni è portato sul luogo del delitto in Sbatti il mostro in prima pagina]

 

 

L’amore è decadente

 

Una figura fondamentale di Sbatti il mostro in prima pagina è Rita Zigai, interpretata dalla bravissima Laura Betti.

 

È il suo personaggio, più che quello di Mario Boni, a fare da contraltare a Bizanti, molto più protagonista di Roveda.

Rita è la compagna di Mario Boni: una donna più adulta, una mitomane ossessionata dalle manie di persecuzione e soprattutto dalla possibilità, affatto remota, che Mario la tradisca e la usi solamente per essere mantenuto. 

È lei la chiave che permette a tutto il circo mediatico portato avanti da Bizanti e dalla sua redazione di creare la storia perfetta, che unisce sesso, depravazione, estremismo di sinistra e crollo dei bei costumi morali di un tempo. 

Mario è rappresentato così non solo come assassino e predatore sessuale, ma anche, e quasi più gravemente, come pericoloso insurrezionalista scansafatiche che si fa mantenere da una vecchia (sono altri tempi, inutile usare mezzi termini).

 

Un altro dei dialoghi pungenti di Sbatti il mostro in prima pagina è proprio quello tra Rita e Bizanti: il caporedattore, che non deve aver avuto mezzo scrupolo in vita propria, scoperta la figura di Rita ci si fionda come un avvoltoio, irretendo con false promesse una donna già mentalmente instabile per portarla a dichiarare ciò che gli serve per costruire la storia perfetta.

Rita Zigai è una donna distrutta dalla vita, che trova come unico modo di rivalsa quella di vendicarsi di Mario e di come l’abbia sempre trattata, accusandolo, spinta da Bizanti, di un crimine che non ha commesso.

 

Diventa lei la testimone chiave dell’accusa, nonostante ciò che vediamo per tutto il tempo sia una donna traviata molto di più da Bizanti che da Boni: Rita ha la sola colpa di amare qualcuno che nell’amore non ha mai creduto, appartenente a una generazione che definisce decadente tale amore, nell’ottica del superamento di certe impostazioni sociali antiquate e conservatrici.

 

 

[Laura Betti è Rita Zigai in Sbatti il mostro in prima pagina] 

 

 

Il mostro

 

Quello sbattuto in prima pagina è certamente Mario Boni, che scopriremo essere innocente, ma il vero mostro di tutta la storia è Bizanti e l’interpretazione di Gian Maria Volonté è da brividi (e quando non lo è stata?).

 

Sbatti il mostro in prima pagina non è considerato tra i film più riusciti di Bellocchio e al momento della sua uscita ricevette critiche contrastanti: nulla di inatteso, vista la tematica e la grande politicizzazione della stessa. Una politicizzazione quasi scontata di cui oggi nel nostro Cinema, a parte qualche eccezione, credo si senta la mancanza. 

Il film non risparmia nessuno e si esce dalla sua visione con una sola certezza: nessun personaggio è salvabile.

 

Forse, in calcio d’angolo, solo Roveda, che con la sua filippica finale su cosa dovrebbe essere il giornalismo e su come Il Giornale non lo rappresenti affatto esprime il pensiero di tutti noi.

 

 

[Fabio Garriba è Roveda e Gian Maria Volonté è Bizanti in Sbatti il mostro in prima pagina]

 

 

ll rapporto che questa storia ha con le donne non è affatto lusinghiero, ma credo sia comprensibile.

 

Ogni donna rappresentata ha una sua specifica funzione, piuttosto stereotipata, ma che nell’insieme ha una motivazione.

Oltre all'angelo Maria Grazia e alla matta Rita, la moglie di Bizanti (Carla Tatò) è la terza figura che, per quanto appaia in una sola scena, mostra al meglio come spesso dietro a un mostro ci sia una figura accondiscendente, frutto di una società patriarcale, il cui unico scopo è quello di carezzare l’ego dell’uomo che ha accanto.

 

È lei che incassa l’invettiva più crudele dello stesso marito, in una sequenza che sembra parlare non a lei, ma a noi: 

“Lo sai che sei peggio di quei fessi che leggono Il Giornale come se fosse il Vangelo? 

È possibile che tu debba restare, nonostante tutto - nonostante le tue amicizie, i tuoi soldi, il fatto che sei mia moglie - che tu debba restare con la mentalità della moglie di uno statale?

Il fatto è che non solo sei cretina tu, ma mi rincretinisci anche il figlio!

Ma lo vuoi capire che dalla moglie del responsabile di uno dei più qualificati giornali italiani si pretenderebbe una mentalità un pochino più evoluta di quella del suo lettore medio? Quando comincerai a capire il mondo? 

A capire la differenza tra quello che si pensa e quello che si dice? 

Sei una cretina! Sei una cretina! Sei una cretina!

 

E io in questa casa mi sento solo e trovo più soddisfazione a parlare con i muri che con te!”.

 

 

[Gian Maria Volonté in Sbatti il mostro in prima pagina]

 

 

Il vero colpevole dell’omicidio di Maria Grazia verrà scovato da Roveda e Bizanti farà di tutto per nascondere la verità, perpetuando la strategia impostata all’inizio.

 

Il mostro deve essere Mario perché lui si fa simbolo di una parte politica alla quale non si può consentire di vincere le elezioni e, ancor più importante, non si può permettere di portare alla luce i traffici di armi che l’ingegner Montelli (John Steiner), editore de Il Giornale, ha con i gruppi armati di estrema destra.

Una notizia di cronaca diventa così il timone di una campagna mediatica che ha il solo scopo di influenzare l’opinione pubblica in vista delle elezioni e il cui utilizzo sarà deciso solo all’indomani dei risultati, che stabiliranno cosa rivelare, in che misura, per quale motivo.

 

Bizanti e Montelli sono in linea, esautorando completamente il direttore de Il Giornale (Jean Rougeul), che è più una pedina che una figura apicale.

 

“Spesso chi è direttore non dirige affatto”, sentenzia Bizanti. 

 

 

[Il mostro sbattuto in prima pagina]

 

 

Liquami

 

 

La scena finale di Sbatti il mostro in prima pagina, che accompagna i titoli di coda, è la ripresa di uno dei navigli milanesi invaso da un fiume di liquami che imperterrito fa il suo corso, inquinando ogni cosa lungo la strada e trasportando con sé rifiuti di ogni sorta.

 

È didascalica al punto giusto di tutto ciò che lungo il film ci è stato mostrato: un fango puteolente che sommerge tutto: la verità oggettiva, quella giudiziaria, l’etica, la morale, la deontologia, l’informazione, la politica, l’onestà intellettuale.

I mostri qui presenti sono tanti e temibili e quasi mai si trovano in prima pagina, ma ben nascosti dietro inchiostro e rotative.

 

Sono mostri che si nutrono, per parafrasare le parole di Bizanti, di uomini tranquilli, onesti, amanti dell'ordine, che lavorano, producono, creano reddito ma sono anche stanchi, hanno paura, i loro figli fanno la guerriglia per le strade e i loro operai sono sempre più prepotenti, si sentono abbandonati dal governo e vedono il Paese nel caos.

 

La pancia del Paese nutre la pancia di questi mostri e fin quando ci sarà cibo a sufficienza i mostri continueranno la loro lotta di classe all’inverso, fagocitando ogni possibilità di cambiamento.  

 

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