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Quando uscì la notizia che Netflix avrebbe prodotto per l'Italia Baby, serie che sulla carta doveva raccontare lo scandalo delle prostitute minorenni nella Roma bene, ci fu una levata di scudi da parte di chi lamentava il fatto che il prodotto avrebbe reso glamour la prostituzione.
Critiche che arrivavano probabilmente dagli stessi che dicono che Gomorra rende cool la camorra.
Dopo aver visto le 6 puntate della serie direi che non c'è nessun problema in tal senso: Baby non rende glamour nulla fondamentalmente perché secondo me è fatto di nulla.
Baby è costruita su una tale quantità di stereotipi che ricorda molto i telefilm di una trentina di anni fa.
I personaggi sono tutti dei cliché e non si spostano di un centimetro: a partire dalle due protagoniste, Chiara (Benedetta Porcaroli) e Ludovica (Alice Pagani), ovvero la biondina acqua e sapone e la morettina dark e pazzerella.
La storia di Baby, per chi non la conoscesse, è semplice: due ragazze che frequentano un liceo privato del quartiere Parioli di Roma arrivano ad avere una vita segreta che comprende droga e prostituzione, spinte dall'insoddisfazione, dalla noia, dalla voglia di fuggire da una situazione familiare soffocante e dalla follia impulsiva delle sedicenni che non pensano alle conseguenze delle scelte che fanno.
Se vi viene in mente la Laura Palmer di Twin Peaks, dimenticatevela immediatamente.
Attorno a loro i co-protagonisti sono i compagni di scuola, i genitori e poco altro.
Tutte figurine piatte che vanno da Damiano, ragazzo complessato che arriva dai quartieri brutti, orfano di madre e figlio di un ambasciatore (Riccardo Mandolini) a Fabio, ragazzo emarginato perché figlio del preside e omosessuale non dichiarato (Brando Pacitto) da Fiore, il malvivente che però si innamora di una ragazzina (Giuseppe Maggio) a Monica, l'insegnante insoddisfatta che finisce per innamorarsi di un ragazzino (Claudia Pandolfi).
Le madri sono tutte inadeguate, i padri sono tutti assenti.
Le figure maschili sono tutte colpevoli, tutte sbagliate: gli uomini adulti in Baby sono in massa la causa del malessere delle figure femminili.
Per chi ha visto la serie spagnola Élite, sempre su Netflix, è inevitabile fare un paragone.
Paragone plausibile anche con 13, la famosa serie americana sulla ragazza suicida che lascia audiocassette.
Perché Baby non racconta nulla di quanto promesso: vorrebbe essere un coming of age, ma è semplicemente un teen drama come se ne sono visti tanti, senza avere una goccia di originalità né di vitalità.
È fondamentalmente la noia a permeare tutta la serie, non esiste mai niente di interessante o sconvolgente o approfondito, resta tutto appoggiato, sfiorato, e quando a metà serie - dopo ben 3 puntate su 6 - si comincia ad andare più a fondo, la cosa non stupisce e non coinvolge.
Non si percepisce lo squallore.
Delle sedicenni arrivano a vendere il proprio corpo pur vivendo in un mondo senza nessun tipo di problema economico, ma tutto questo è rappresentato come un naturale svolgimento del corso delle loro vite, quando invece dovrebbe essere tutto il contrario.
Ludovica e Chiara si prostituiscono e prendono soldi, ma la cosa non le sfiora minimamente, non ne parlano, non ci riflettono, continuano a ridere e a giocare e il loro più grande problema è che il ragazzo che a loro piace va con un'altra.
Andrea De Sica e Anna Negri, registi della serie, non sono interessati a scoprire il vero mondo nascosto dei sedicenni dei Parioli: lo sguardo è veloce, disinteressato, superficiale e monotono.
Gli attori di Baby sono diretti in un modo che ricorda il Cinema di Gabriele Muccino e quello di Federico Moccia: urla, grida, strepiti e pianti, e per rappresentare un sentimento di liberazione l'idea è quella di far gridare nel nulla un personaggio mentre va in motorino.
Idea usata due volte, con due personaggi diversi.
I dialoghi sono spesso imbarazzanti, frasi buttate lì dove al massimo viene fuori qualcosa da scrivere sulla Smemoranda o sui muri dei bagni della scuola, per gli spettatori giovanissimi che ancora non hanno un bagaglio letterario o cinematografico di alcun tipo.
Le interazioni tra i personaggi di Baby sono brevissime e quasi sempre a due: non c'è profondità né ricerca, ma solo un rapido scambio di battute prima di un altro tête-a-tête, un po' come se anche dal vivo si interagisse via sms.
La scelta di visualizzare a video gli sms non è una novità, ma in Baby si nota una mancanza nella cura del dettaglio che altrove invece non avevo notato.
I messaggini sono scritti spesso con degli errori grammaticali banali, e non si capisce se sia una scelta precisa o meno ma parrebbe di no, gli orari e la velocità di invio sono surreali, le stories di Instagram sono visualizzate in orizzontale e inviate da account come "Niccolò".
Così, senza numeri o underscore.
Niccolò.
È vero che si tratta di inezie, ma è l'attenzione alle inezie che a mio parere rende grande un'opera nel suo complesso.
E quando in una serie i personaggi escono di campo a destra per rientrare ancora da destra, quando gli scavalcamenti di campo sono all'ordine del giorno, quando gli orari del racconto non hanno minimamente senso passando dal mattino alla notte alla sera al pomeriggio, quando dei sedicenni vanno in giro di notte ed entrano nelle stanze di un ospedale come niente fosse, quando delle ingenuità di sceneggiatura - una felpa che diventa una prova schiacciante come se non ne esistessero altre, rapporti di amicizia che spuntano alla bisogna, buste con i soldi di un rapporto sessuale pagato lasciate allegramente sul comodino, il malvivente proprietario di un locale che si autodefinisce "pericoloso" che molla tutto per accontentare i desideri di una ragazzina ubriaca - diventano la base per lo sviluppo del racconto, allora credo ci sia ben più di qualcosa che non va.
Anche la colonna sonora - che a un paio di pezzi trap e al nuovo singolo degli xfactorini Måneskine affianca pezzi molto anonimi tutti simili e tutti leggeri allo stesso modo - non aiuta a entrare nel racconto, non rafforza le immagini ma le accompagna solamente per pochi secondi, come se fosse qualcosa di obbligatorio più che di deciso.
Fondamentalmente la cosa che mi ha più infastidito di Baby è che la trovo una bella occasione buttata via.
Perché la serie non osa, mai.
Non osa nel contenuto: il tutto è molto pudico e adatto a un pubblico sotto i 13 anni, le scene in cui si vede della droga o del sesso risultano quasi ridicole nella loro eccessiva semplicità, non c'è nudità se non per qualche centimetro di pelle esposta in un'atmosfera di generale pruderie, e non osa nemmeno nella forma.
Una regia anonima, una fotografia che vorrebbe tanto rifarsi a quella del refniano The Neon Demon nelle luci ma ottiene solo di essere molto colorata, composizioni del quadro casuali, con dei movimenti di steadicam a volte poco riusciti (e quasi mai pertinenti) e un'insistenza nei primi e primissimi piani dei protagonisti che però non riescono a renderli più espressivi di quello che sono, con il risultato di creare delle icone da Instagram per la gioia dei piccoli fan, secondo i quali sono tutti bellissimi, tutti trombabili e tutti da sposare - e l'esplosione di followers sui rispettivi profili social dei giovani attori ne è testimonianza.
Gli aspetti positivi di Baby sono da ritrovare nelle prove di alcuni dei giovani attori, alcuni davvero in gamba nonostante debbano recitare delle battute imbarazzanti, Riccardo Mandolini su tutti, con quel volto d'altri tempi che personalmente mi auguro di rivedere presto in qualcosa di più importante e Benedetta Porcaroli, che già da Perfetti Sconosciuti si poteva capire non fosse destinata a ruoli di comparsa e che in Baby si percepisce abbia una voglia tremenda di recitare altre battute e di essere diretta in altro modo.
Mentre al contrario le prove di attori navigati come la citata Pandolfi, Isabella Ferrari e Paolo Calabresi soffrono inesorabilmente la gabbia creata intorno a loro dal cliché del loro personaggio.
È un peccato, perché Baby poteva essere davvero un'ottima occasione per dimostrare che la serialità italiana sta diventando grande e che può essere spendibile anche all'estero.
Ma forse, riflettendoci meglio, il mio parere è viziato dalla mia età.
Forse Baby non è rivolto a un target allargato, bensì a una fascia di pubblico ben precisa, che magari si può identificare nei protagonisti (anche se trovo difficile che ciò avvenga e, se avviene, probabilmente avviene solo tra i liceali pariolini).
Forse tutta l'inconsistenza e la banalità generale che permeano Baby sono una scelta precisa, un qualcosa che trova riscontro nell'atteggiamento verso la vita dei sedicenni che ritrae.
I cosiddetti millennials che da anni ormai vengono definiti vuoti, privi di valori, superficiali.
Se davvero i sedicenni sono così, allora Baby è perfettamente riuscito.
"Se hai sedici anni e vivi nel quartiere più bello di Roma, sei fortunato"
Questa è la frase che apre e chiude le prime sei puntate di Baby.
E forse allora non è solo un incipit, ma una dichiarazione di intenti.
Se hai sedici anni sei fortunato, sì.
Perché ti puoi godere Baby, una serie che altrimenti ti farebbe solo innervosire per il poco coraggio dimostrato nonostante avesse tutte le possibilità per farlo.