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Kafka a Teheran è un film di Ali Asgari e Alireza Khatami, arrivato al cinema dopo essere stato presentato nella sezione Un Certain Regard del 76º Festival di Cannes.
Diviso in episodi, Kafka a Teheran racconta la quotidianità di persone di ogni sesso ed età che si ritrovano a conversare e a difendere le proprie ragioni riguardo svariati eventi, contro coloro che rispettano e/o rappresentano il regime autoritario del paese.
Il film si apre con una panoramica di Teheran, nella quale si presagisce che la narrazione riguarda il popolo iraniano e tutti i cittadini, ovvero tutti coloro che sono sottomessi a regole estremamente rigide: negli episodi, difatti, c’è sempre una persona “comune” che compare nell’inquadratura, contrapposta a una figura di potere (come la polizia) o una figura che accetta passivamente il potere (come una commessa), che non vengono mai mostrate.
[Il trailer di Kafka a Teheran]
Questi piani sequenza con riprese unicamente frontali, in cui la “vittima”-cittadino comune è centrale, si plasmano su conversazioni con botta e risposta, irreali e reali allo stesso tempo, ispirate alla poesia ghazal - molto utilizzata nella letteratura persiana - che prevede la resa in versi di discussioni ingegnose e ironiche tra i protagonisti.
Non è un caso che il titolo originale in farsi della pellicola sia proprio Āyehā-ye zamini, tradotto Versetti terrestri come le opere di Forough Farrokhzad, l’importantissima poetessa persiana che sfidò più volte il regime autoritario iraniano, soprattutto portando avanti la lotta sulla questione femminile negli anni ’50 e ’60 (e che va tutt’ora avanti a Teheran).
Se si hanno ancora dubbi sulle intenzioni cristalline di opposizione e protesta della pellicola, basti sapere che Kafka a Teheran è stato girato con pochi mezzi in appena 7 giorni, con un budget limitato investito dagli stessi registi, dichiarando di “non aver tempo da perdere” e di dover cominciare al più presto le riprese.
[Una scena di Kafka a Teheran]
I soprusi e le censure che subiscono ogni giorno i cittadini di Teheran sono incessanti e devono essere denunciati, sono una necessaria forma di resistenza della popolazione contro lo Stato che dovrebbe tutelarli e non lo fa.
Le situazioni sono sperimentali al punto di ricordare il cineasta Abbas Kiarostami e presentano dell’inverosimile quanto del verosimile per il mondo Occidentale, con questioni che daremmo per scontate come la scelta del nome per un bambino (dallo stato islamico vengono accettati solo nomi islamici, altri non sono ammessi) o la messa in discussione della proprietà privata.
Non manca una critica alla censura nel Cinema, dove a un regista di nome Ali (che fa riferimento al nome dei due registi, forse in particolar modo ad Ali Asgari, attualmente sprovvisto di passaporto con il divieto di realizzare film “fino a nuovo ordine”) viene chiesta di rimaneggiare da capo la sua sceneggiatura perché non porta rispetto ai padri di famiglia e alla figura dell’uomo islamico, mettendo dunque avanti la veridicità del racconto, che passa in secondo piano perché non è gradevole e dunque crea malcontento nei confronti del regime.
[I due registi di Kafka a Teheran si sono conosciuti alla 74ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia]
In Kafka a Teheran si affrontano le complessità dello Stato iraniano nella società contemporanea, sottolineando numerose volte le dinamiche di potere che si instaurano e che la popolazione cerca di sovvertire passando l’esistenza in una costante lotta per la libertà e per la sopravvivenza.
Gli undici versi del film non smettono di colpire un secondo, martellano (senza risultare pedanti) culminando in situazioni in cui tutto il mondo - universalmente come da titolo - può empatizzare: sensazioni di vergogna, fastidio e disagio si trasformano in rivendicazioni di identità personale, che non viene eliminata, rinforzandosi.
E forse è proprio la tragicomicità del vissuto che porta a un riscatto: quando si smette di assecondare l’assurdo avviene la ribellione, anche in gesti che sembrano minuscoli.
Kafka a Teheran sfida frontalmente lo Stato senza remore, invitando a riflettere e a mettere in discussione quelle forme di potere che si insinuano nel quotidiano e ci rendono spettatori passivi, sperando in un’umanità che possa attuare scelte consapevoli di resistenza.
Vi rispettiamo: crediamo che amare il Cinema significhi anche amare la giusta diffusione del Cinema.