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Triangle of Sadness è uno di quei rari film in grado di coinvolgere platee eterogenee, catturandone l'attenzione e scatenando reazioni in sala che in una visione casalinga verrebbero senza dubbio depotenziate.
Il regista Ruben Östlund ha vinto nel 2017 la Palma d'oro per The Square - film che venne poi anche candidato ai Premi Oscar, ai Golden Globe e che vinse il David di Donatello come Miglior Film Europeo - e quest'anno si presenta al Festival di Cannes 2022 con il suo primo film in lingua inglese, un'opera che affonda ancora di più i denti nella critica alla società occidentale dei consumi e del capitalismo, dell'apparenza e del classismo, mettendo in scena un gruppo di personaggi dove non si salva nessuno, intenti come sono a salvare se stessi.
O almeno è quanto credono di fare.
[Una clip dal primo atto di Triangle of Sadness]
Triangle of Sadness si apre con dei provini per fotomodelli, mettendo subito in chiaro la chiave divertita e divertente del film.
Il protagonista interpretato da Harris Dickinson ha una relazione con un'altra fotomodella (Charlbi Dean) improntata sull'apparente successo dovuto ai social network, quell'influencerismo che non permette di godersi un piatto a cena, un viaggio, una qualsiasi cosa perché tutto deve essere fotografato e condiviso, mostrando al mondo la parte migliore delle nostre vite, quella parte che spesso non esiste nemmeno.
La satira di Triangle of Sadness che va a colpire i due ventenni influencer bellissimi e vacui è però solo all'inizio, perché presto li vedremo salire su una nave da crociera di lusso e conosceremo i loro compagni di viaggio.
Da qui in poi è letteralmente impossibile parlare del film evitando di rovinarlo a chi non l'avesse ancora visto, quindi mi perdonerete se eviterò ulteriori dettagli sul plot ma d'ora in avanti mi aspetta una serie di salti carpiati per darvi modo di afferrare il senso del film, senza però parlarne in senso stretto.
Il secondo atto di Triangle of Sadness è tra le cose più folli e distruttrici che mi siano capitate di vedere al cinema negli ultimi anni: una magistrale lezione di Slow Burn, dove le cose iniziano a scivolare lentamente su un piano inclinato che però continua a muoversi sempre più in verticale, lasciando che gli eventi, le relazioni tra personaggi e le reazioni a cosa succede nella storia finiscano con il precipitare a "velocità smodata".
Non c'è limite per Östlund e soprattutto non c'è pietà alcuna per nessuno dei personaggi di Triangle of Sadness: quello che capita loro da un certo punto in poi è frutto di una spietatezza e una cattiveria rare, che però spingono lo spettatore a tifare affinché le cose continuino ad andare nella direzione del disastro più estremo.
La sceneggiatura scritta dallo stesso regista infatti ci mette poco a renderci antipatici e invisi tutti coloro che si muovono sulla nave, di conseguenza vederli alle prese con una catastrofe che si autoalimenta e che continua a peggiorare non può che soddisfare il lato più sadico di ogni spettatore.
Era da tanto che in sala non sentivo risate così fragorose e per così tante scene, soprattutto era da tempo immemore che non sentivo partire applausi a scena aperta durante un film, con una sala da 600 posti gremita di spettatori che partecipano attivamente a ciò che stanno vedendo, al punto di rendere inintelligibili le scene immediatamente successive a quelle dell'applauso.
Woody Harrelson interpreta forse l'unico personaggio con il quale diventa possibile entrare in empatia ed è protagonista di una delle sequenze più riuscite di tutto Triangle of Sadness: il suo Capitano della nave è de facto il rappresentante nel film del punto di vista di Ruben Östlund, così schierato, apertamente caustico, menefreghista e disilluso.
Nel caso in cui steste pensando che la catastrofe di cui sopra arrivi al punto di non ritorno concludendo il film, ripensateci.
Le due ore e mezza di durata - che non si percepiscono minimamente, tanto è alto il ritmo e tanto è denso di eventi il plot - ci riservano un terzo atto che forse riesce a essere ancora più inaspettato del secondo: dopo il disastro c'è lo stallo, dove però gli equilibri si ribaltano totalmente rispetto a quanto visto fino a quel momento.
È qui che la critica del regista si fa più esplicita e palese, dove la meschinità e l'egoismo toccano le vette più alte per attaccare frontalmente le storture del capitalismo mettendolo alla berlina; la lotta di classe assume ora un aspetto più sinistro e non c'è via di scampo.
Se fino a quel momento Triangle of Sadness ricordava a tratti alcune delle opere più schierate ed esplosive di Luis Buñuel, improvvisamente arriva la stasi: come una lavatrice che termina la fase di centrigufa gli eventi si immobilizzano e lasciano i personaggi in una situazione di galleggiamento, dove i pesi possono spostarsi da un momento all'altro e dove ogni parola pronunciata o recepita nel modo sbagliato può significare la differenza tra la vita e la morte.
Il regista svedese non si nasconde e sceglie anzi di usare tutti i mezzi che ha a disposizione per aggredire il mondo in cui viviamo, per urlare il più forte possibile che non è normale che esista l'1% dell'1% che ha in mano una ricchezza disgustosamente esagerata, che non è giusto che nonostante sia finita la schiavitù fondamentalmente esiste ancora, sotto forma di contratti degradanti e accordi per i quali si debba sempre obbedire al "padrone bianco".
Per gridare che è ridicolo - e che quindi va preso in giro - che il denaro sia alla base di qualsiasi rapporto interpersonale e che abbia ormai sostituito le ideologie e le religioni.
[Charlbi Dean e Harris Dickinson sono i bellissimi Yaya e Carl di Triangle of Sadness]
Il "Triangle of Sadness" del titolo ci viene detto a inizio film essere quella parte del viso che si trova tra le sopracciglia e la fronte, e che quando siamo preoccupati o arrabbiati si corruga con un effetto spiacevole da vedere nel caso si stia posando per una sfilata o un servizio fotografico.
Ma non è un problema e non è necessario smettere di essere preoccupati o arrabbiati: basta un po' di botox e passa tutto.
Forse troppo evidente, forse troppo dichiarata, ma la critica di Triangle of Sadness è ciò che si dice "necessaria" e per una volta passatemi il termine da "Critico del Web": starà poi allo spettatore scegliere se limitarsi a bollare il film come una macchietta scatologica o se, almeno un po', è il caso di provare ad ascoltare quanto ha da dire sotto le tonnellate di risate che senza dubbio avrà causato, anche perché quello che ha da dire è diretto, chiaro e non fraintendibile.
D'altra parte, quando scegli di salvare dal cataclisma anche un multimiliardario autonominatosi "Re della Merda", c'è ben poco di spazio di manovra per le interpretazioni.
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