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Il Banchiere Anarchico - Recensione: la sciarada maxima di Giulio Base (con intervista al regista)

Dopo la vittoria del Premio Persefone a Venezia 75, il film di Giulio Base si rivela la sorpresa dell'anno

Quando mi capita di andare a un funerale, la prima cosa che mi viene da pensare è: 

“Che cosa mi sbatto a fare nella vita, se poi mi tocca andare a finire dentro una cassa di mogano?”

 

E ancora:

“Perché mi tocca camminare in questa valle di lacrime, se tanto già so che dove finirò?”

 

Sono domande su cui l’uomo si interroga da millenni, su cui si basano le religioni, per difendere le quali nei secoli, paradossalmente, si è ucciso e si continua tutt’oggi a uccidere.

 

Quindi lungi da me tentare di dare una risposta sensata a delle domande del genere.

 

La cosa interessante, invece, è soffermarsi su quello che succede alla mente quando questi dubbi escono dalla soffitta del cervello.

E cioè quando tutti gli eventi della vita improvvisamente sembrano delle grosse stronzate di fronte alla realtà annichilente della morte.

 

Tutto viene ridimensionato e rimesso in proporzione. 

 

 

 

 

Quello che succede guardando Il Banchiere Anarchico di Giulio Base (trattrato dall'omonimo racconto di Fernando Pessoa pubblicato nel 1922) è più o meno questo.

 

Durante la visione, a un certo punto, mi è apparsa davanti la desolante verità: la politica è morta.

 

Tutti i proclami, le polemiche, le boutade, i tweet e i post con cui i politici ci bombardano tramite i media, questi ultimi ridotti ormai tristemente a loro uffici stampa, non sono politica.

Non sono politica neanche tutte le cifre, gli spread, i debiti pubblici e i PIL, come Giulio Base conferma al pubblico presente in sala, durante la proiezione al Cinema Palestrina di Milano il 17 ottobre.

 

La politica è filosofia, è letteratura, è etica, è sociologia, è vita. 

Due amici seduti davanti a una scacchiera che discutono su che cosa sia per loro l’anarchia.

Questa è politica (e anche la trama del film).

 

Di fronte alla profondità intellettuale del Banchiere, tutte le persone che solitamente vengono associate alla politica moderna sembrano dei nani miserabili. 

 

 



Questa è anche grosso modo la sostanza del film.

 

Una cosa che all’apparenza potrebbe sembrare anti-cinematografica.

Nei maggiori libri di sceneggiatura c’è scritto che “le teste parlanti” sono assolutamente da evitare, che la narrazione va portata avanti dalle azioni dei protagonisti.

 

Ma queste, come direbbe il nostro protagonista, sono delle convenzioni sociali.

 

Un film che parla della conquista della libertà totale non può che essere fuori dagli schemi e farci invidiare il regista per la totale libertà con cui ha lavorato.

 

 

 


Il film di Giulio Base può certamente essere considerato cinema vero e proprio per due motivi.

 

Il primo è che esiste un conflitto, che è insito nel titolo stesso: Il Banchiere Anarchico.

Come si fa a essere il massimo rappresentante del capitalismo e al contempo il massimo sostenitore della libertà?

Come fanno questi due estremi a convivere serenamente nella stessa persona?

È quello che si chiede l’interlocutore del banchiere (un ottimo Paolo Fosso) ed è anche il motore che fa andare avanti la narrazione.

 

Lo spettatore viene condotto all’interno del labirinto della mente del banchiere, che tramite una rigida logica calcolatoria lo conduce verso il suo obiettivo, non facendosi scrupolo di utilizzare qualsiasi mezzo oratorio, come sillogismi, paralogismi e finanche sofismi.

Di fatto la stessa mancanza di scrupoli di un banchiere nell’atto di accumulare il capitale.

 

La logica schematica del protagonista si traduce cinematograficamente in una regia ferrea e in una scenografia essenziale, quasi metafisica, sospesa nel tempo e nello spazio.

 

Le luci sono dure e le ombre nere come la notte. Nulla è patinato, plastificato o ammorbidito.

Tutto è nettissimo, proprio come la rigida logica del protagonista.

 

Ogni inquadratura è studiata a lungo, ogni movimento di macchina comunica uno stato d’animo, i campi e le focali sono usati sempre per dire qualcosa.

La composizione del quadro è sempre rigorosa.

Nulla è lasciato al caso, insomma. Questa consapevolezza del regista nel film è evidente, ma non invadente.

 

Si nota nella sua misura discreta.

 

 

 


Data la presenza in sala di Giulio Base, a fine della proiezione del Banchiere Anarchico ho potuto fargli una domanda proprio su questo argomento, che riporto di seguito integralmente insieme alla risposta.

 

E.T. : ”Di solito queste operazioni che mischiano letteratura, teatro e cinema sono molto scadenti.

Magari hanno un valore letterario ma non cinematografico.

Lei non è caduto in questa trappola, perché si vede che ogni inquadratura e ogni movimento di macchina è studiato.

Volevo sapere qual è stato il suo processo creativo nel mettere in scena questo testo, cioè le scelte che ha fatto a livello registico e di messa in scena.”

 

G. B. : “La ringrazio della domanda che mi consente di andare dietro la costruzione di un film.

È vero che l’aggettivo più facile che viene da dire è teatrale, però, in realtà, per chi lo sa, c’è tantissimo cinema.

Ci sono carrelli circolari, ci sono dolly, ci sono zoom, c’è la macchina a mano, c’è la macchina fissa...”

 

E. T. : ”Ma non sono usati in modo gratuito!”

 

G. B. : “Sì, la primissima cosa che mi sono detto è: “Vorrei riuscire a fare dei primi piani alla parola”, che è già un’impresa forte.
Negli ultimi film non mi mettevo in scena, per una serie di motivi.

 

Qua mi sono voluto mettere in scena perché sapevo che con un qualunque attore ci avrei dovuto discutere. In questo genere di film a due personaggi, come ad esempio Venere in Pelliccia di Polanski, Sunset Limited, Inseparabili, Carnage, anche se sono quattro, di solito è: primo piano, primo piano, primo piano, primo piano. 

 

Io ho scansato dal primo secondo questo discorso.

Tanto è vero che il primo primo piano si vede dopo un’ora di film. Dopo un’ora di film si vede la mia faccia veramente bene.
E quindi sono sicuro che un altro attore mi avrebbe detto:

“Ma come? Siamo in due, sto sempre in ombra, un po’ di spalle, non mi si vede”…

 

E allora là c’è stata la prima scelta del processo creativo. Perché volevo questo?

Perché dei banchieri se ne parla su tutte le prime pagine dei giornali, ma che faccia hanno i banchieri?

Io non conosco una faccia.

 

Conosciamo i volti di tutti i calciatori della Serie A, anche quelli in panchina, di tutti i concorrenti dei reality…

Conosciamo tutta una serie di volti, ma quelli dei banchieri no. Ci governano e rappresentano, si sa, il vero potere del mondo.

Quindi, mi sono detto, intanto cominciamo da uomini senza volto.

E come li racconto questi uomini senza volto? Intanto con l’ombra e poi tenendoli lontani. 

 

Poi l’altro processo è quello pessoano, che dice:

“Io per la vita ho l’interesse di un decifratore di sciarade”, una cosa complicatissima e meravigliosa.

 

E questa è la sua sciarada maxima, perché Pessoa ha pubblicato in prosa solo Il Banchiere Anarchico, quindi è la sciarada delle sciarade.


Come potevo raccontare tutto questo? Entrando piano piano.

Allora largo, larghissimo, con due omini là in fondo, mi avvicino piano. E non è soltanto "metto un obiettivo più vicino", o "zoomo": è cercare di fare tutto questo in maniera “smooth” oserei dire, e cercando di coniugare come fosse un balletto tra il cinema e i passaggi della sua logica, che sono spietati, ma sono incontrovertibili se uno li osserva.

 

Andando quindi di pari passo, a ogni snodo logico cercavo di fare uno snodo anche con la macchina da presa.    

 

Lo snodo vero è quando tutti i ricordi riaffiorano nel cervelletto del banchiere.

Quante assemblee, quanti megafoni, quante fughe dalla polizia, e poi si dice anche nel linguaggio comune “alle sue spalle”... (il regista si riferisce a una scena in cui il banchiere ricorda i suoi vent’anni e la macchina da presa fa una lenta carrellata a procedere verso la sua nuca [n.d.r.]).

 

Da lì si risveglia e comincia quello che normalmente è un film, quindi la macchina a spalla perché lui in quel momento è disorientato, quindi i campi larghi nel suo bunker e poi, finalmente, quando si arriva al nocciolo, i suoi occhi e la sua faccia.

Quindi è stato davvero molto, molto pensato.

 

 

Questa è la sintesi del processo creativo.”

 

 

 


Questa risposta non lascia dubbi sul meticoloso lavoro di grammatica cinematografica fatto da Giulio Base che però non mette in ombra, nonostante le scelte creative azzardate, la sua straordinaria e mai sopra le righe interpretazione.

 

Non va dimenticata inoltre tutta la simbologia esoterica, di cui Pessoa era un appassionato studioso, e che il regista inserisce all’interno del film: l’anello rosacrociato del protagonista, ma soprattutto il fatto che il film da bianco e nero diventa a colori nel momento in cui il protagonista accende un fiammifero e inizia a parlare della sua storia, che rappresenta una sorta di rito iniziatico del film.

 

E come ci ha spiegato Giulio Base, non esiste nella storia delle massonerie un rito che non inizi con l’accensione di un fuoco. 

 

 

 


Il Banchiere Anarchico è un film che va visto per capire come sia possibile unire il rigore formale a un contenuto importante.

 

Va visto per capire anche come Pessoa fosse un uomo di cento anni fa, ma che viveva nel 3000, scrivendo un racconto che è all’avanguardia ancora oggi.

E Giulio Base ci restituisce in modo “filologico”, come è scritto nei titoli di testa del film, il pensiero profondo dell'autore portoghese esaltandolo con una tecnica cinematografica che raramente si vede nelle sale.

 

Sono presenti solo un paio di pecche, ma che non compromettono in alcun modo il valore straordinario di questo film, che ha il potere di rimettere in proporzione la vita socio-culturale italiana degli ultimi 10-15 anni.

 

La prima pecca è dovuta al testo originale, e cioè che l’amico del banchiere, interpretato da Paolo Fosso, è poco più di un uditore. Non c’è quella tensione ansiogena tra i due personaggi come ci può essere, per esempio, nei film di Polanski.

 

E la seconda è che alla fine, Giulio Base, mostrandoci il volto del banchiere, lo umanizza, ci fa empatizzare con lui mostrandocelo immerso in una solitudine profonda e disperata.

Una soluzione che appare romantica se confrontata alla fredda spietatezza del tardo capitalismo, totalmente disumanizzato e che ha il non-volto delle macchine che elaborano algoritmi matematico-finanziari al millisecondo.

 

Quest'ultima, però, non sono ancora sicuro che sia una pecca.

 

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