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Quando Gomorra vinse il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival del Cinema di Cannes nel 2008, il suo personale racconto della spietata organizzazione criminale italiana conosciuta come Camorra sorprese tanto il pubblico quanto la critica.
I motivi del successo di Gomorra, sia a livello nazionale sia internazionale, sono da ricondurre a molteplici fattori.
La sua popolarità è dovuta anzitutto al focus sul crimine organizzato, un tema che oltre ad avere un discreto potere di vendita è in grado di attirare un pubblico ampio e diversificato per la sua oggettiva universalità, che riesce a spostare il racconto di mafia locale sul più preoccupante orizzonte globale.
[Non a caso, Gomorra si conclude con un messaggio rivolto specialmente alla sensibilità del pubblico oltreoceano, con informazioni circa il coinvolgimento dell’organizzazione mafiosa nell’attività di ricostruzione delle Torri Gemelle, dopo ila tragedia dell’11 settembre 2001]
Al di là delle ottime scelte di distribuzione internazionale e dei premi vinti ai concorsi ai quali il film ha partecipato, uno dei motivi principali dell’enorme fama di Gomorra è certamente la notorietà dell’omonimo romanzo da cui è tratto.
Il best seller di Roberto Saviano, tradotto in oltre cinquanta lingue e con più di dieci milioni di copie vendute nel mondo, fu un vero e proprio spartiacque nell’ambito della comunicazione pubblica della fisionomia mafiosa.
L’opera dell’autore napoletano riuscì a comporre un quadro soggettivo e autobiografico di una situazione problematica su più livelli, denunciando la noncuranza delle istituzioni e portando alla luce l’implicazione scandalosa delle stesse nelle attività illecite della camorra.
Sarebbe naturale allora immaginare la trasposizione cinematografica di un testo di questo tipo come una produzione strettamente ispirata a un certo Cinema di impegno civile che, muovendosi sul terreno della denuncia sociale, trae nutrimento dall’esperienza dei grandi registi del passato.
Tuttavia, l’operazione di adattamento di Matteo Garrone risulta più complessa e verte su orizzonti lontani dalla pubblica accusa e dall’approccio documentaristico.
Il regista romano, nel confronto con una nuova aspirazione narrativa, si inserisce nel già sperimentato immaginario della cronaca nera, rielaborando alcuni temi proposti da Saviano ma adottando un punto di vista privo di mediazioni.
Come ne L’imbalsamatore e in Primo amore - e successivamente anche in Dogman - Matteo Garrone sceglie la sottrazione, eliminando ogni facile buonismo e privando il racconto di retorica.
Nel Cinema del regista non è contemplata la spettacolarizzazione della malavita, piuttosto dominano lo sguardo fenomenologico e il rifiuto ostinato del didascalismo a fronte di preziose suggestioni visive.
[L’imbalsamatore è il primo film del regista tratto da un episodio di cronaca nera prodotto da Domenico Procacci. Fandango fu di fondamentale importanza anche per Gomorra, dato che fornì nuove risorse tecniche al regista, permettendogli di utilizzare attrezzature particolari e teatri di posa]
Ai margini del racconto
“I personaggi del libro consentivano di riprendere delle tematiche che erano universali e anche di descrivere un immaginario insolito, legato al Cinema di mafia, un immaginario che di solito si racconta sempre dall’alto, cioè attraverso i personaggi legati ai vertici, ai boss.
In questo caso invece abbiamo voluto fare un film sugli ‘schiavi’, mentre gli ‘imperatori’ rimangono nell’ombra”
[Intervista a Matteo Garrone di Anna Barison nella rivista Cinecritica, ottobre-dicembre 2008]
Delle storie proposte da Saviano, Garrone isola le quattro più marginali, ribaltando il punto di vista dell’immaginario corrispondente al film di mafia, ma soprattutto compiendo una scelta etica che stabilisce la sua specifica posizione in merito all’argomento.
Sono i perdenti e gli emarginati i protagonisti di Gomorra, indagati nella loro dimensione socio-antropologica di umanità disperata costretta a vivere a contatto con un sistema oppressivo e invisibile.
In questo contesto, la camorra è una presenza più intuita che manifestata, un’abile e silenziosa tentatrice: Garrone non racconta la vita dei boss, non descrive con epicità la fisionomia di chi dall’alto muove i fili a scapito della povera gente.
Il regista si guarda bene dal giudicare situazioni e personaggi ed evita la demarcazione classica del conflitto tra Bene e Male, privando il film di un antieroe positivo.
Lasciando alle banali attività quotidiane lo spazio che meritano, costringe il pubblico a mettere in atto un processo più doloroso di comprensione e compassione nei confronti di personaggi spaventosamente autentici, che sfuggono a qualsiasi processo di identificazione.
Gli stessi gruppi sociali sono inseriti all’interno di una distopia - che forse tanto distopia non è - in cui domina l’assenza dello Stato.
Gomorra supera perciò il concetto di necessità di un sistema statale, ambientando le sue storie in una giungla anarchica di supremazia, dove il rapporto tra ordine e conflitto si esplica attraverso l'istituzionalizzazione della violenza e l’utilizzo della forza come strumento regolatore della convivenza sociale.
Quello di Matteo Garrone è un avvertimento: il futuro dell’economia del nostro tempo sta nella creazione di nuovi legami di dipendenza, nuovi rapporti umani di potere che uniscono flussi illeciti di denaro a lotte sanguinose per la sopravvivenza.
[In Gomorra si realizzano processi quotidiani di mercificazione, scambi economici - dalla vendita degli shampoo allo spaccio di cocaina tagliata nel frullatore - controllati da bande non identificate, la cui logica viene accettata dagli abitanti della zona loro malgrado]
Si tratta inoltre di un nuovo orizzonte di analisi del potere criminale.
Nell’organizzazione camorristica del nuovo millennio, infatti, convivono elementi moderni e arcaici e il codice d’onore non esiste più.
L’ordine di appartenenza alle varie fazioni in Gomorra è puramente casuale e lo stesso scissionismo - atto di alto tradimento nella sua concezione più antica - è concepito come una scelta naturale che, tuttavia, ha conseguenze gravi e inevitabili.
Nessuna regola viene rispettata: i bambini vengono sfruttati per compiere attività illecite e agevolare omicidi, le donne vengono uccise senza remora perché “è così che funziona”.
Questa tragica assenza di valori dà luogo a un gioco di potere cinico e spietato che avviene senza alcun motivo tra i vari e indistinguibili clan (e provare a distinguerli sarebbe un’operazione fine a se stessa).
Su cosa si interroga allora lo spettatore durante la visione?
Quali sono le dinamiche di causa-effetto alla base della narrazione?
Gomorra dà il materiale allo spettatore per domandarsi non tanto sul futuro di questi condannati, quanto sul valore universale delle loro esistenze. Non c’è tempo allora per le dinamiche di causa-effetto, gli eventi si succedono uno dopo l’altro, tanto che si finisce per avere l’impressione di aver assistito a omicidi reali.
Si ha quasi la certezza che quelle barbarie proseguano da decenni e che probabilmente non avranno mai fine.
In questo modo Matteo Garrone scruta il nostro destino, immaginando il futuro di una società sempre più distante e diffidente da forme di organizzazione prestabilite.
[Un'immagine tratta dalla sequenza del solarium in Gomorra]
Il Cinema ibrido di Gomorra
Una delle caratteristiche più sorprendenti del Cinema di Matteo Garrone è il suo carattere squisitamente ibrido.
Così come gran parte della sua filmografia, in Gomorra il regista propone una commistione di generi e stili che attingono da varie forme di rappresentazione e il proprio universo di riferimento.
Se il triangolo amoroso alla base de L’imbalsamatore richiama i noir americani del Cinema classico, la messa in scena del crimine in Gomorra sembra attingere al gangster movie popolare.
In un certo senso, il film è riuscito a dare una nuova direzione al mafia movie, distaccandosi dalle produzioni italiane di genere del nuovo millennio (Le conseguenze dell’amore; Una vita tranquilla) e prendendo anche le distanze dall’eredità hollywoodiana, a partire dalla scelta antiromantica e antispettacolare di eliminare dal racconto la presenza dei grandi capi della camorra.
Sangue noir scorre nelle vene di Gomorra, ma l’immaginario visivo proposto assume un tratto più intimista, forte e riconoscibile che unisce la finzione al realismo documentaristico.
L’incipit sci-fi del film è forse il momento più rappresentativo in questo senso, perché riflette la compresenza di numerose influenze artistiche: siamo all’interno di un solarium e alcuni camorristi stanno abbronzando i loro corpi tatuati, accompagnati dalla musica del cantante neomelodico Raffaello.
La sequenza, che apre il sipario allo spettacolo orrorifico delle vicende successive, richiama fortemente l’atmosfera dei film di mafia, ma è illuminata da un cromatismo bluastro.
L’aspetto visivo fantascientifico della messa in scena, arricchito dall’espediente geniale del suono della turbina che somiglia a quello di uno shuttle pronto al lancio, viene poi tradito dalla natura della scena stessa: quel momento altro non è che il classico regolamento dei conti, tipico di un certo Cinema hollywoodiano.
Il rito narcisistico del nuovo camorrista della Napoli postmoderna non si svolge quindi all’interno del classico salone da barbiere, bensì in uno spazio consumistico di plastica e luci neon.
Trasformando il culto della bellezza esteriore in un tentativo di nascondere uno squallore intrinseco, Garrone allontana ancora una volta l’immagine del criminale dal processo di identificazione, mostrando uomini nudi e fragili nella loro meschinità, che nulla hanno a che fare con gli eroi del Cinema classico di genere, sempre moralmente discutibili ma di grande fascino e carisma.
[L’incipit di Gomorra si conclude con una serie di sette impressionanti inquadrature che riprendono le vittime stese a terra, cosparse di sangue e illuminate dalla luce UV]
Gomorra è neo-neorealismo?
Matteo Garrone ha più volte dichiarato nelle interviste per la presentazione di Gomorra a Cannes di aver fatto un “film di guerra ambientato nel 2007 a 150 chilometri da Roma”.
In Gomorra il linguaggio tecnico e visivo, sostenuto dall’uso massiccio della cinepresa a spalla che pedina personaggi, gesti e volti in stile reportage, richiama il Cinema verità ma cattura e disorienta lo spettatore a livello sensoriale.
La scelta della macchina da presa a mano è fondamentale perché istituisce nella struttura del film una continuità spaziale, ottenuta grazie anche a un montaggio fluido che evita stacchi frenetici e ripetuti, che obbliga chi guarda a concentrarsi sul regolare svolgimento delle vicende senza sentire l’urgente necessità di azione.
Le riprese in Gomorra negano l’esistenza di un qualsiasi tipo di climax e si inseriscono all’interno della scena stessa, penetrando nelle cucine e nei salotti degli abitanti di Scampia, aggirandosi nel degrado degli appartamenti e scoprendo anziani e casalinghe assorti davanti a insignificanti programmi televisivi.
Il particolare rapporto tra personaggi e ambiente è forse ciò che più ha portato molta critica a interrogarsi sulla natura di Gomorra, considerato spesso come simbolo di rinascita della cinematografia italiana.
In alcuni casi si è addirittura parlato di un nuovo Neorealismo: lo stesso Matteo Garrone in un’intervista ha ammesso di essere stato influenzato da molti registi neorealisti, sottolineando però che il significato del Neorealismo risiede anzitutto nel suo essere prodotto dell’Italia post-bellica e, dunque, il risultato di condizioni sociali ed economiche uniche.
L’attenzione alle condizioni dei personaggi di Gomorra, l’uso del dialetto del posto e la scelta di utilizzare attori non professionisti potrebbero far pensare all’effettiva nascita di un nuovo Cinema neorealista; in realtà è più opportuno considerare lo stile del regista romano come un recupero della potenzialità narrativa di quel movimento estetico che va oltre la rappresentazione accusatoria e naturalistica di cose e persone.
[Le aree giardino allestite sui tetti delle Vele, con piscine gonfiabili e ombrelloni da mare, rappresentano la villeggiatura della miseria. La loro potenza visiva risiede nel contrasto spietato con l’immagine dei “guerrieri” armati della camorra che pattugliano la zona per avvertire dell’eventuale presenza delle forze dell’ordine]
La distruzione di Gomorra Gomorra
“Allora il Signore fece piovere dal cielo su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco [...] egli distrusse quelle città, tutta la pianura, tutti gli abitanti delle città e quanto cresceva sul suolo”.
È impossibile compiere un’analisi su Gomorra senza ricondurre il film alla matrice biblica.
Il termine Gomorra, infatti, utilizzato generalmente come sinonimo di decadimento morale e umano, è stato pensato da Saviano per l’assonanza con camorra, ma soprattutto per il significato della morale insita nella sua origine letteraria.
La città di Gomorra, citata sovente insieme a Sodoma nella narrazione della Bibbia, è stata una delle "cinque città della pianura" distrutte da Dio perché “Il grido (...) è troppo grande e il loro peccato è molto grave.”.
Il territorio non si salvò perché Dio non vi trovò al suo interno neppure "dieci abitanti giusti", così la morale alla base della distruzione di Sodoma e Gomorra è divenuta il paradigma di una condizione di malvagità dove non esistono prospettive di salvezza.
La Scampia di Matteo Garrone somiglia molto alla Gomorra incenerita dalla pioggia di zolfo e fuoco presente in Genesi 19.
È una sorta di relitto archeologico, abitato da presenze architettoniche fantascientifiche (le celebri Vele che sembrano astronavi), mostri edilizi di remota avanguardia che imprigionano centinaia di persone.
Nel film non appare alcun riferimento esplicito a Napoli; anzi l’immagine del capoluogo campano è totalmente priva di retorica e non trasmette elementi della tradizionale iconografia legata alla città.
Come in molto altro Cinema di Matteo Garrone, anche in questo caso l’ambientazione assume l’aspetto di non-luogo che ha carattere universale e assoluto. Una landa desolata e amorfa che somiglia a un territorio di guerra in cui gli abitanti sono intrappolati, costretti a rintanarsi nelle proprie dimore per non assistere direttamente all’esperienza di morte.
Per girare Gomorra il regista ha vissuto a Scampia per tre mesi, scrutando dall’interno il lavoro dei clan e scritturando persone realmente legate all’organizzazione criminale.
Tra gli spazi angusti del quartiere napoletano si realizzano infatti alcune delle più impressionanti sequenze del film, caratterizzate da lucidità di sguardo e da uno sconcertante contatto antropologico con il vero.
La dimensione post-apocalittica di Gomorra è forse uno dei tratti più interessanti del film.
Essa si realizza anche al di fuori dell’oscurità delle Vele, attraverso espedienti tecnici e narrativi sorprendenti.
La sequenza più rappresentativa in questo senso è l’uscita dal container di Franco (Toni Servillo) e Roberto (Carmine Paternoster), rispettivamente il “tecnico” rifiuti e il suo apprendista. I due muovono passi lenti avvolti in tute protettive e sembrano astronauti al ritorno sulla Terra dopo una missione, in attesa di essere accuratamente svestiti dagli assistenti di turno.
La macchina da presa si muove con un lento carrello in diagonale, mentre in primo piano sonoro il respiro di entrambi rende impossibile udire i suoni diegetici circostanti: un artificio retorico tipico dei film di fantascienza ambientati nello spazio.
La maggior parte delle sequenze relative alla storia di Franco e Roberto è di taglio apocalittico: lo testimonia il campo lungo sulla pompa di benzina abbandonata o sulle gigantesche cave esplorate dai due uomini, pronte a ospitare nuovi mucchi di rifiuti tossici.
[L’inquietante inquadratura di una cava in una scena di Gomorra]
“Il mondo è nostro!” Gomorra
Le quattro differenti storie proposte in Gomorra, relative ciascuna a un aspetto diverso delle relazioni di potere, si connettono a partire dalla formazione di un legame indissolubile - il rapporto padrone/schiavo - e dal senso comune di impotenza e vulnerabilità psicologica dei personaggi nei confronti dell’ambiguità morale di chi detiene il potere.
A ciò si unisce un senso di forte incomunicabilità, incrementato dall’effetto straniante del linguaggio vernacolare che esprime violenza e sopraffazione e che racchiude in sé il significato di una catastrofe anche linguistica, dove persino la parola non riesce a superare il suo stato di materia grezza.
È dunque in questo quadro che prende vita la trama di una prima storia, quella di Marco (Marco Macor) e Pisellino (Ciro Petrone).
I due adolescenti sono disertori, si rifiutano di sottostare sia all’organizzazione statale - che abbiamo detto assente - che all’organizzazione della camorra, una declinazione eversiva del potere repressivo statale.
Attraverso una trama riconducibile al genere dei buddy movie, Marco e Piselli' sono giovani carichi di futuro e ingegno, che sognano di portare a termine un futile progetto di onnipotenza per comandare soli su un territorio vasto e far vedere a tutti di cosa sono capaci.
I due ragazzi vivono assimilando il verbo di Scarface: come Tony Montana vogliono giungere ai vertici della mafia locale senza rispettare regole e senza chinare il capo di fronte a nessuno.
Gridano “Il mondo è nostro” ripromettendosi di conquistare tutto, persino Miami, e puntano a una vita surreale da Cinema, compiendo atti illeciti senza tener conto di ciò che li circonda e delle conseguenze delle loro azioni.
Il loro giocare contro i colombiani del film di Brian De Palma nel nome di un mantra inventato riflette un terribile senso di inutilità della vita, come se ciascuna delle loro scelte avvenisse in un contesto virtuale, all’inizio di una partita di un qualsiasi videogame.
Se da un lato gli altri ragazzi ammazzano senza conoscere il volto del nemico, ma ben sapendo che prima o poi arriverà il boia di turno a fargliela pagare, Marco e Piselli' agiscono in una realtà immaginaria destinata ad avere come unico effetto un inevitabile e definitivo Game Over.
L’aspetto hollywoodiano della camorra nella vita reale è dichiarato dallo stesso Roberto Saviano all’interno del suo romanzo, che presenta un intero capitolo sulla tendenza dei camorristi a scimmiottare gli stereotipi cinematografici statunitensi per legittimare gli atti di violenza compiuti.
In un certo senso, potremmo dire che ciò che avviene è un vero e proprio cortocircuito, per cui i criminali finiscono per rappresentare pubblicamente loro stessi, ma sono anche consumatori di rappresentazioni del crimine organizzato.
Anche intorno a Gomorra si costruisce questo principio: basti pensare alla scelta di Garrone di sfruttare i volti di chi nelle attività criminali ha realmente fatto esperienza e ha continuato, anche dopo le riprese, a compiere illegalità, ricevere accuse e affrontare processi.
[Una foto di Marco Macor e Ciro Petrone sul set di Gomorra]
Una delle immagini più celebri della trama di Marco e Piselli' è riscontrabile nella sequenza della spiaggia.
Grazie alla sua potenza drammatica, tale immagine si è guadagnata l’onore di fare da copertina al film nella sua distribuzione mondiale.
Dopo aver rubato le armi alla camorra, i due ragazzi si avvicinano alla spiaggia in mutande e scarpe da ginnastica e iniziano a sparare all’orizzonte con fucili e mitragliatori, sbraitando ed emettendo urla liberatorie di dolore e sofferenza.
La scena, con i suoi campi lunghi e la luce grigia e innaturale, rappresenta il vuoto alla base delle vite dei due personaggi e quell’assenza dolorosa di valori nei rapporti umani, Marco e Piselli' sembrano infatti due fantasmi che cercano di dimostrare al mondo che sono fatti di carne e ossa.
Il loro è un epilogo ben lontano dall'epicità del finale di Scarface e molto difficile da spiegare a parole: Matteo Garrone seleziona le inquadrature più potenti, le uniche in grado di esprimere davvero la dolorosa indifferenza della morte.
I cadaveri dei ragazzi vengono prelevati dalla sabbia e posti su un trattore come fossero materiali destinati a concimare il terreno, i loro corpi finiranno tra le montagne dei rifiuti campane e, come scrive Saviano nel suo romanzo, le loro labbra e i loro nasi saranno “mangiucchiati dai randagi che circolano sulle spiagge di spazzatura”.
[La celebre immagine tratta dalla sequenza della spiaggia, uno dei momenti più potenti di Gomorra]
La banalità del male Gomorra
Un’altra storia mette in relazione tra loro tre personaggi differenti, ciascuno dei quali è in grado di rappresentare una precisa prospettiva di vita nel contesto della camorra.
Totò (Salvatore Abruzzese) è un ragazzino che aiuta la madre portando la spesa alle persone che vivono nel suo quartiere; attraverso di lui percorriamo gli antri umidi delle Vele, accompagnati dal rimbombo delle urla e dagli scenari di vernice scolorita, ruggine e sporcizia.
La vicinanza al mondo criminale e la graduale attrazione del ragazzo nei confronti del sistema della camorra ci viene mostrata perlopiù attraverso lo sguardo di una cinepresa a spalla che segue Totò a breve distanza, con frequenti raccordi di sguardo e soggettive.
Un altro momento di Gomorra costruito sul suo punto di vista è il rito di iniziazione che ciascun ragazzo è tenuto a superare se vuole entrare a far parte di un clan. Come i suoi coetanei, anche Totò avanza nel buio di una caverna di cemento, indossando un logoro giubbotto antiproiettile e aspettando il colpo di pistola sferrato da un capo clan.
Lo spettatore, insieme al giovane, vedendosi puntare la pistola prova una serie di emozioni contrastanti: il terrore e l’ansia per i primi minuti, poi il sollievo quando il piccolo Totò si rialza con le sue gambe.
Si ha la piena consapevolezza di una forma di passaggio compiuta soprattutto quando il ragazzo, a rito avvenuto, si esamina allo specchio toccandosi il livido lasciatogli sulla pelle dall’impatto del proiettile.
Un trofeo da portare sul cuore con orgoglio che testimonia finalmente l’inizio di un percorso di crescita personale e "professionale”.
[In Gomorra Totò è inoltre la rappresentazione di una gioventù istruita all’estetismo: si depila con le pinzette le sopracciglia davanti allo specchio e discute con un amico su quale sia il piercing più bello da sfoggiare]
Il passaggio all’età adulta di Totò è strettamente legato al ruolo di un altro personaggio all’interno di Gomorra.
Maria (Maria Nazionale), moglie di un camorrista in galera e madre di un figlio scissionista, è l’unico personaggio femminile completamente originale (non esiste nel libro di Saviano) che riveste una posizione cruciale all’interno del racconto.
Le altre donne, coinvolte nell’omicidio di camorristi o nella conta del denaro, conservano invece una posizione marginale rispetto allo svolgimento delle vicende.
Pur con pochissime battute, Maria rappresenta la condizione della donna nel contesto mafioso e conferma anche un dato interessante: il protagonismo femminile nell’immaginario del gangster movie è una sorta di utopia, dato che lo stesso genere ruota attorno alla questione della mascolinità.
Il suo essere perennemente in trappola, chiusa nel buio di un opprimente spazio domestico, pone le basi per una riflessione sul concetto di vittima.
Maria non può certamente essere considerata innocente, perché resta consapevole di ciò che avviene nel quartiere e perché è moglie di un camorrista, ma allo stesso tempo rimane difficile identificarla come responsabile. Alla base della costruzione del suo personaggio c’è quello stato di precarietà che la trasforma in perfetto capro espiatorio, incarnazione della vita nella sua forma più instabile nel contesto di mafia e criminalità organizzata.
L’atto matricida che mette fine alla sua vita si realizza infatti su uno sfondo sfocato: Garrone ci concede uno sguardo miope dell’accaduto e sceglie di mettere in primo piano il patimento di Totò che, sconvolto, non riesce nemmeno a voltarsi indietro.
[Una foto di Maria Nazionale sul set di Gomorra]
La voce di Maria, oltre a emergere in quanto unico personaggio femminile rilevante in Gomorra, è anche una delle poche ad affermarsi con atteggiamento critico nei confronti del sistema criminale che tiranneggia Scampia.
La sua richiesta di aiuto al contasoldi Don Ciro (Gianfelice Imparato) è il simbolo di un sentimento di ribellione inespresso che non risparmia alcun giudizio nei confronti della remissività dell’uomo.
Don Ciro è un altro personaggio attraverso il quale è possibile scrutare le vie degradate delle Vele; il suo lavoro, sostanziato dal flusso controllato del denaro, scandisce numerose sequenze di Gomorra, portandoci fino agli interni degli appartamenti, arredati con assurde carte da parati e santini di figli morti troppo giovani.
Spesso inquadrato di spalle, nella sua figura curva e miserabile, l’uomo rappresenta il servo per eccellenza. Colui che, invece di sfidare le leggi del potere - come Marco e Piselli' - sceglie di accoglierle intimidito, portando avanti un’attività senza alcuna aspirazione e divenendo così emblema della banalità del male.
Una volta compreso di essere finito malauguratamente dalla parte del clan “sbagliato”, Don Ciro avverte l’urgente necessità di sottomettersi a nuovi padroni per sopravvivere, macchiandosi persino di omicidio.
[Di fronte allo scontento degli abitanti, Don Ciro abbassa la testa imbarazzato ripetendo di star seguendo semplicemente ordini. Il suo desiderio istintivo di sopravvivenza supera qualsiasi sentimento di umana solidarietà]
I mostri del sotterraneo Gomorra
In Gomorra, l’aspetto moderno della camorra non si manifesta esclusivamente tra i meandri di Scampia.
La storia di Franco e Roberto fornisce una panoramica inquietante sul tema delle ecomafie, ovvero le attività illegali di tipo mafioso, legate alla politica e alle grandi imprese internazionali, che arrecano danni all’ambiente.
Franco, imprenditore che si occupa di gestione e smistamento di rifiuti, appare spesso in contesti paesaggistici abbandonati e nel traffico col sotterraneo - tra fogne e rifiuti tossici - dove egli pavoneggia, in perfetto spirito neoliberista, una fredda risolutezza, esponendo al rischio centinaia di operai e bambini.
La sua attività si estende fino al Nord Italia, dove chiude contratti con ditte importanti per il riciclo di scorie industriali altamente inquinanti destinate ad essere rilasciate nelle cave meridionali da lui gestite.
[Toni Servillo nei panni di Franco in Gomorra. La sua interpretazione è da considerarsi come una delle migliori della sua carriera]
Al suo fianco un giovane apprendista di umili origini che spera di aver trovato finalmente un posto nel mondo.
Il suo sguardo innocente e la sua ingenua spontaneità sono una boccata d’aria fresca per chi guarda, dopo tanta aria inquinata.
Sequenza dopo sequenza, Roberto assiste sempre più basito al cinismo con il quale Franco tratta i suoi affari, incurante del problema alla base del suo lavoro e delle conseguenze umilianti che le sue azioni hanno sulle persone e sull’ambiente.
Cruciale è il momento in cui il “mentore” estorce a un anziano contadino in punto di morte il rilascio di terreni destinati al deposito di ammassi inquinanti e dopo rifiuta sprezzante di voler mangiare la frutta avvizzita datagli in dono dalla famiglia.
Frutta che Roberto è costretto a gettare via con amarezza, mentre ripensa al delirio di un’anziana contadina che, in mezzo a un diluvio, cercava ostinata di smuovere il terreno di orto dismesso.
Il giovane pupillo compie perciò un particolare percorso di crescita e comprende l’importanza della fuga, quando comunica con disprezzo di non voler più fare quel lavoro; mentre Franco, contrariato da tanta innocenza, inizia a blaterare giustificazioni assurde che rivelano la sua distorta percezione della realtà.
“Ehi Robbe', ma che ora ti fa schifo ‘sto mestiere? Tu lo sai che la gente come me ha mandato in Europa ‘sto paese di m*rda? Lo sai quanti operai si sono salvati perché non faccio spendere un cazzo alle loro aziende?
Guarda. Che vedi? Debiti, debiti.
Tutta gente che si salva solamente perché ci siamo io e te. [...] è così che funziona, ma non l’ho deciso io.
Noi arriviamo a risolvere i problemi che hanno creato gli altri. Il cromo, l’amianto… non li ho creati io.
Le montagne non me le sono mangiate io. Funziona così”.
[Toni Servillo e Carmine Paternoster in una scena di Gomorra]
Fuga o morte
Il tema della fuga come lucida volontà di resistere è piuttosto raro in Gomorra e riguarda esclusivamente alcune storie: quella di Roberto in primis, ma anche quella del sarto Pasquale (Salvatore Cantalupo).
Inizialmente costretto in un ruolo di mediatore tra il capo di impresa e i lavoratori dell’industria tessile obbligati a folli straordinari per una produzione massiccia, Pasquale si illude di poter uscire dal sistema della camorra quando inizia a lavorare per un piccolo imprenditore cinese.
Nonostante l’accoglienza entusiasta dei lavoratori che lo chiamano “Maestro” e riconoscono il suo valore artistico e professionale, l’utopia di una vita migliore fa presto a infrangersi nella sequenza dell’agguato.
Un incidente stradale simbolico fa infatti dirottare in un cimitero monumentale, tra sculture di pietra e colonne greche, l’auto in cui si trovano Pasquale e gli imprenditori cinesi: è l’immagine del potere che distrugge il desiderio creativo, riducendo in polvere un passato ormai morto.
Pur di non sottostare allo sfruttamento, l'uomo abbandona il suo lavoro e rinuncia all’amore di un mestiere gratificante, consapevole di aver messo da parte non solo la sua passione ma anche la possibilità di un riconoscimento professionale che, come ci suggerisce la sequenza all’interno dell'Autogrill, sarebbe arrivato molto presto.
Fuggire appare allora come l’unica alternativa alla morte per i personaggi delle storie proposte da Matteo Garrone.
Un segno di coraggio o l’unico appiglio di speranza al quale potersi aggrappare?
Sicuramente una reazione istintiva e viscerale, a contatto con una situazione opprimente che non sembra presentare alcuna via d’uscita.
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