#CinemaeFilosofia
Analisi delle ragioni di un capolavoro indiscusso fra drammaturgia e psicoanalisi.
Muoviamo da un principio: esiste una coincidenza fra quelle che ricordavamo come scene memorabili e un commento musicale potentemente emozionale in quelle scene, che probabilmente abbiamo dimenticato, ma che costituiva una buona parte delle ragioni di quel nostro aver stoccato per sempre un ricordo.
Questo film è pieno di questi momenti e come tutti sappiamo Hans Zimmer fece un lavoro veramente mirabile in tal senso.
Basti per tutti King of Pride Rock (la seconda parte) a sostegno di questo.
Non è sufficiente.
Il re leone è anche l'esemplificazione dell'idea che un gruppo di adulti che sta svolgendo un lavoro rivolto a un pubblico di bambini debba pensare in primo luogo a ricavare dal proprio lavoro la propria ragione di vita di adulti e, di riflesso, a trattare i bambini come farebbero i bambini stessi, e cioè dal punto di vista di una persona che intuisce di non sapere ma non sa ancora quanto realmente non sappia e si consideri pertanto sufficientemente informato su ciò che conta sapere e che certo non si sottostima (questa è la condizione esistenziale di qualunque essere umano che si valuti momento per momento lungo il corso della propria vita).
Ci è dato di saper valutare con buona lucidità il nostro passato ma siamo completamente ottusi circa l'attuale che, nondimeno, è il tempo durante il quale prendiamo ogni singola decisione della nostra vita, quindi vedete voi di tirare le vostre conclusioni.
Dicevamo, quindi, di non sotto-stimolare né sotto-stimare i bambini e che il passato può essere piuttosto acutamente giudicato.
Di passato e di autocoscienza parla tutto il film.
Il re leone è principalmente il racconto di una crisi di identità. Una nevrosi, per dirla, forse, con Freud.
Ripensate alla scena della seduta psicoanalitica condotta da Rafiki nei confronti di Simba.
Ma focalizziamo ancor meglio la grandezza di questa opera:le canzoni de Il re leone sono tutte iconiche senza esclusione.
Nell'ordine sentiamo cantare:
- della presa di coscienza di essere soltanto una parte di un pianeta di vite che mai intersecheranno la nostra ma che capiamo essere sulla stessa nostra "giostra";
- della volontà di far valere la nostra libertà intrinseca e di padroneggiare una morale;
- della sete di potere, del livore, della manipolazione;
- della fuga dalle proprie responsabilità;
- dell'amore romantico quale più perfetta forma di lucida riflessione su di sé tramite un altro essere umano eletto.
Non proprio cosette.
Nella costruzione drammaturgica del cinema esiste un meccanismo che ha una spaventosa efficacia, vale a dire quello della focalizzazione (il nome corretto potrebbe essere un altro, ma anche questo rende l'idea).
Grazie alla possibilità di avvicinarci fino al dettaglio a piccole porzioni di scena, o grazie allo stesso uso del montaggio, i registi giocano costantemente con la quantità delle informazioni possedute dai personaggi interni alla pellicola rispetto alle nostre.
Quando uno dei protagonisti conosce più di ciò che ci è dato di sapere proviamo sentimenti di impazienza, di trepidazione, di sorpresa, di ammirazione (pensiamo a Sherlock Holmes) ma anche di confusione e di frustrazione.
Quando ci è dato di conoscere più di chi attraversa l'inquadratura proviamo sentimenti di responsabilità e di un più significativo senso di empatia, questo perché ci è dato il tempo di elaborare un concetto prima che questo si realizzi e ci impatti.
Alfred Hitchcock con il suo senso della suspense (che non è invece la sorpresa) lo sapeva perfettamente.
Il re leone si regge nei suoi snodi di sceneggiatura più profondi proprio sulla seconda tipologia di costruzione drammaturgica.
Siamo straziati dalla morte di Mufasa perché noi conosciamo la verità ma non possiamo comunicarla a Simba ed è per questo che la manipolazione emotiva di Scar nei suoi confronti risulta a tal punto viscerale.
È in quel preciso dialogo che questo film raggiunge il punto più alto.
Scar colpevolizza Simba innestando in lui il più velenoso dei pensieri, uno di quelli che scardinano ogni resistenza perché si rivolgono a ciò che è già stato e su cui non c'è pertanto intervento possibile.
"Simba che cosa HAI FATTO?!", "Se non FOSSE STATO per te sarebbe ancora vivo!"
Provate a rivedere l'espressione disegnata negli occhi di Simba e datemi torto sull'affermare che con quei primi piani si stia toccando corde da "Miglior Film".
Ci sono infinite scene di morte nelle pellicole di tutto il mondo trattate con molta più superficiale retorica.
La nostra identità è disegnata per buona parte sull'auto-narrazione, su ciò che la nostra memoria ha selezionato (ancora una volta Memento si rivela una perfetta esplicazione di questo pensiero: in base alle esperienza pregressa rispondiamo alle "nuove" realtà future).
Crescendo come individui sono in realtà sempre meno le situazioni in cui improvvisiamo.
Simba è un cucciolo e viene all'improvviso caricato di un senso di colpa enorme (provate a focalizzare per qualche secondo di che si tratta e ditemi se non è da brividi, se non è da tragedia greca): il nostro Edipo re, il nostro Amleto subisce un infrangimento della propria identità.
Se l'atto viene a mancare la potenza non potrà realizzarsi, comprese Aristotele.
Se non esiste una candela accesa, una candela spenta - una candela in potenza - non diventerà mai una candela in atto.
Il re è morto e Simba, che soltanto nella scena precendente ha cominciato a familiarizzare con l'idea della non eternità dell'atto, di suo padre, non ha che sfuggire dalla sua auto-narrazione ("Voglio diventar presto un re!" lo sentivamo cantare poco prima).
Dimentico del mondo e dal mondo dimenticato vive l'unica condizione che gli rimane per sopravvivere al senso di colpa: la rimozione.
Ora, vorrei essere più ferrato circa il pensiero freudiano prima di abusare dei suoi termini, ma ritengo di non aver trattato impropriamente la natura di ciò che qui si vede.
L'intromissione del passato riporta a galla il rimosso, ma ancora una volta il terapeuta (Rafiki) rivela a Simba che è dentro di sé e al proprio tessuto che potrà riaccedere al proprio atto (destino).
La coscienza è ricostruita ma rimane il senso di colpa.
La percezione di un sé futuro (l'imparare dal passato per progettarsi un avvenire) apre alla possibilità delle libere-associazioni e, in definitiva, alla confessione.
"È vero: ho ucciso io Mufasa"
Il re leone è un film di una profondità inedita.
Il grado di verità umane al suo interno è shakespeariano, non a caso.
Queste sono le ragioni per cui un'opera come questa diventi in 25 anni un concentrato di immagini e frasi iconiche (Simba sollevato davanti a tutti, l'hakuna-matata, Il sole che sorge ad abbracciare da un angolo all'altro lo schermo, "eee l'amore avvolgerà!", Simba che si attualizza salendo la rupe dei re...).
Un film che si apre con la nascita e la presentazione al mondo di un soggetto, prosegue con dei dialoghi sul futuro di questo soggetto ("un giorno tutto questo sarà tuo", "voi siete promessi e vi sposerete"), con la volontà di questo soggetto di realizzarsi quanto prima, lo scontro di lui con l'impossibilità di prevedere la durata di questo processo e gli snodi di questo percorso, la crisi d'identità, la riflessione di sé nelle nuove e vecchie relazioni di amicizia e amore intessute, il recupero della propria volontà di divenire ciò che si è, l'attuazione più piena del soggetto, sipario.
Ora ditemi cosa c'è di più omnicomprensivo e umanamente essenziale.
Questa è la ragione per cui un film diventa cult, per cui delle scene diventano meme per le nostre vite, perché non ci stanchiamo mai di riguardarlo e ribadirci quanto sia un capolavoro.
Non sono ragioni di estetica cinematografica: sono le nostre coscienze che, riecheggiando Mufasa, di tanto in tanto ci dicono: "RICORDATI".
4 commenti
Sebastiano Miotti
5 anni fa
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Sebastiano Miotti
5 anni fa
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Sebastiano Miotti
5 anni fa
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Sebastiano Miotti
5 anni fa
Grazie!
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