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Il buco: Urrutia e la metafora della disuguaglianza sociale

L'esperimento mentale ideato da Urrutia nei due capitoli de Il buco riesce, non senza sbavature, a fornire un ritratto dei lati più ferini dell'essere umano, amalgamando un'ambientazione disgustosa e onirica a intricati dilemmi etici

La duologia de Il buco è diretta da Galder Gaztelu-Urrutia con un chiaro obiettivo pedagogico: far interrogare lo spettatore sulla diseguale distribuzione della ricchezza e il modo in cui essa viene vissuta da chi la patisce. 

 

L’ambientazione è la stessa per entrambi i film: i personaggi si ritrovano a dover trascorrere un periodo nella Fossa, o “Centro di autogestione verticale”, una prigione organizzata su 333 livelli dove in ognuno arriva quotidianamente una tavola imbandita di cibo.

Ogni mese i prigionieri vengono riassegnati casualmente a un livello diverso e dunque a una diversa possibilità di accesso alle risorse.

 

L’analogia tra la Fossa e le nostre comunità è tanto esplicita quanto semplicistica, ma soprattutto nel primo capitolo riesce comunque a trattare la psiche umana nella sua veste più animalesca.

 

[Il trailer de Il buco, 2019]

 

 

Sull’architettura della Fossa

 

Prima di discutere i film nel dettaglio è utile soffermarsi sui meccanismi di funzionamento della Fossa, per valutare l’applicabilità del modello proposto da Urrutia alle società odierne.

 

L’idea alla base del paragone tra la Fossa e le nostre comunità è piuttosto intuitivo: i livelli vorrebbero rappresentare gli strati della società all’interno dei quali le risorse, in via di principio sufficienti per tutti, vengono distribuite in modo iniquo a causa dell’indifferenza di chi occupa posizioni privilegiate. 

Il “Centro di autogestione verticale” de Il buco è stato progettato dall’Amministrazione con lo scopo di produrre qualche forma di "solidarietà spontanea" che, fuor di metafora, significherebbe disinnescare gli interessi particolaristici dei più potenti in vista di un progetto di uguaglianza sociale.

 

Un modello di questo tipo, anche se sembra fedele alle dinamiche che articolano le nostre comunità, nasconde alcune imprecisioni che rischiano di proporre al pubblico una visione distorta dei meccanismi sociali.

Innanzitutto il movimento di persone e beni è troppo rigido per essere realistico; nonostante sia condivisibile che coloro che godono di maggior accesso alle risorse abbiano più possibilità d’azione, ciò non significa che chi sta in basso sia condannato all’inerzia. 

La mobilità sociale volontaria viene esclusa dalla Fossa, al pari di una soglia minima di accesso generalizzato alle risorse, dato che l’unico modo per risalire i livelli e la lotteria di fine mese e, di conseguenza, chi si sveglia nei livelli più bassi non ha alcun potere contrattuale nei confronti dei più fortunati. 

Non avendo nulla da offrire e nessuna possibilità di ascesa, i worst-off rimangono strutturalmente ancorati al proprio livello di partenza. 

 

La mancanza di un sistema efficace di sanzione da parte dei ceti inferiori non riesce a spiegare l’interdipendenza che intercorre tra gli individui di ciascun polo sociale; in altre parole, il supplizio riservato a chi è condannato all’abisso non ha alcun impatto sulle gozzoviglie permesse nei livelli più alti.

L’esperimento mentale de Il buco rimane efficace nel momento in cui viene chiarita la sue estensione teorica, limitando la riflessione al comportamento umano in un contesto dato, piuttosto che ambire ad abbracciare l’intero funzionamento della società civile.

 

Il buco del 2019 raggiunge adeguatamente questo risultato, affiancando gli orrori della Fossa a scene esterne alla prigione e, in questo modo, permette di focalizzare l’attenzione sulla psicologia dei protagonisti invece che disperderla in riflessioni più ampie e cerebrali che l’architettura semplificata della Fossa non è adatta a rispecchiare. 

 

Il buco - Capitolo 2 d'altro canto, sia a causa dell’introduzione di tematiche di più ampio respiro come la nascita della religione, sia per l’assenza di spazio dedicato a momenti all’infuori del “Centro”, si trova costretto a colmare l’assenza di realismo tramite simbolismi più didascalici e dinamiche narrative meno solide. 

Non è chiaro ad esempio come Sahabat (Natalia Tena) entri a conoscenza degli attributi salvifici del quadro di Perempuan (Milena Smit), né come questi attributi funzionino nella pratica.

In ultima analisi, il primo capitolo de Il buco si pone obiettivi meno ambiziosi, risultando più chiaro e accurato, mentre il secondo prende troppo sul serio la metafora che Il buco si limitava ad abbozzare, costruendo un intreccio più dispersivo e meno accattivante. 

 

Ciò che mi ha colpito durante la visione della prima parte della duologia infatti non è la fedeltà dei processi della Fossa alla società reale, la quale potrà sempre vantare maggior colore e dinamicità, quanto osservare l’adattamento della psiche dei personaggi a un ambiente estremamente inospitale e poco fertile allo sviluppo delle qualità umane più desiderabili. 

 

 

[Il buco: il pasto di Trimagasi al livello 48]

 

Il buco: Trimagasi e il relativismo morale hobbsiano

 

Il nodo tematico de Il buco si esemplifica nel rapporto tra il vecchio, apatico e rassegnato Trimagasi (Zorion Eguileor) e Goreng (Iván Massagué), un giovane idealista che si rifiuta di acclimatarsi all’orrore che domina l’intera prigione. 

 

Il primo vuole rappresentare “l’uomo comune” che guidato da interessi univocamente egoistici si allinea alle dinamiche ripugnanti dell’ambiente in cui si trova, neutralizzando ogni desiderio di progresso strutturale al pari del rispetto per chi occupa livelli diversi dal proprio. 

Fuor di metafora (ricordando che tale metafora funziona fintantoché si guarda più la psicologia individuale che l’aderenza complessiva) Trimagasi incarna l’individuo atomizzato e disilluso, il quale, persa ogni speranza di collaborazione sociale, si isola in un cinico e diffidente individualismo.

 

Quando l’incredulo Goreng gli domanda come si sarebbe sentito se quelli del livello superiore avessero urinato sulla piattaforma, come aveva appena fatto lui, il vecchio si limita a rispondere: "Lo avranno fatto di sicuro"

 

Così come nella vita quotidiana, questo rifiuto aprioristico alla cooperazione si articola a partire da un meccanismo di banalizzazione della realtà, sicuramente più adatto alla Fossa che alle nostre comunità, tale per cui l’intera esistenza può essere racchiusa nel rapporto agonistico dello stato di natura hobbsiano "o mangi o vieni mangiato"

Ridurre lo spettro di opzioni possibili ai due ruoli di vittima e carnefice qualifica gli atti immorali e disgustosi di Trimagasi come semplici derivazioni del principio di autoconservazione, il fastidio che quest’ultimo manifesta quando Goreng si appropria della sua frase "è ovvio" sta a significare la centralità di questo processo di semplificazione all’interno dell’identità del personaggio. 

 

Goreng d’altro canto impersonifica la purezza d’animo che, dopo un primo tentativo di redenzione rivolto agli altri prigionieri, si lascia corrompere dalla brutalità della Fossa, accogliendo, almeno in parte, gli insegnamenti del suo compagno di livello.  

La distanza tra i due personaggi tuttavia, a differenza di quel che lasciava presagire il primo mese trascorso al livello 48, non si risolve in una consonanza di prospettive: all’inizio del mese successivo, inscenato al livello 171, Goreng si sveglia legato al letto e in completa balìa di Trimagasi.

A quel livello infatti il cibo non arriva mai e il vecchio, ormai avvezzo alle dinamiche della Fossa, sa che l’unico modo per sfamarsi consiste nell’attingere dalla carne del suo compagno.

 

È qui che si consuma il dialogo chiave del film, che mette in luce il principale dilemma etico de Il buco e invita lo spettatore a riflettere su quanto le nostre azioni possono essere realmente autonome. 

Dopo aver ascoltato atterrito i propositi cannibali di Trimagasi il giovane gli si rivolge disperato: "Voglio che lei sappia che la ritengo l’unico responsabile della mia morte".  

La risposta del vecchio esemplifica appieno la prospettiva morale del personaggio: "No: ci sono 340 responsabili prima di me", deresponsabilizzando le proprie azioni in virtù delle condizioni disperate a cui il “Centro” lo ha costretto. 

 

Trimagasi si fa qui portatore di una visione determinista, tale per cui la libertà di scelta, e la responsabilità morale che essa implica, viene subordinata alle condizioni ambientali in cui i soggetti agiscono. 

In particolare il pensiero del personaggio è compatibile con la concezione filosofica del materialismo, espressa tra gli altri da Thomas Hobbes, il quale affermava che le nostre azioni sono frutto dei nostri desideri e necessità fisiche che, a loro volta, sono determinate dalla nostra natura corporea e dalla realtà ambientale.

 

Da questa prospettiva, la libertà umana non si esprime nella forma del libero arbitrio, ossia nella capacità di operare delle scelte autonome tra diverse opzioni, ma significa unicamente libertà d’azione nel mondo fisico; in altre parole, il contenuto dei nostri desideri è predeterminato da fattori materiali e la nostra libertà consiste nella possibilità effettiva di realizzare questi desideri.

Se le cose stanno così, il passo successivo di tale concezione consiste nell’assecondare qualche forma di relativismo morale, abdicando alla pretesa di giudizi normativi universalmente condivisibili e riconoscendo, come Hobbes scrive nel Leviatano, che "Il bene e il male sono solo i nomi che si danno agli oggetti dei desideri e delle avversioni degli uomini, a seconda che questi siano quelli che vengono da loro desiderati, o quelli da cui si allontanano".

 

Trimagasi declina la prospettiva relativistica in un convinto egoismo etico, tale per cui l’azione corretta è quella che persegue gli interessi dell’agente e, per questo motivo, laddove Goreng invoca, deontologicamente, il suo diritto a rimanere in vita, il suo compagno legittima le sue azioni in nome della ragionevole difesa della propria sopravvivenza.

 

Tuttavia, se nello stato di natura di Hobbes la paura dell’egoismo altrui porta alla formazione dello Stato attraverso il contratto sociale, nella Fossa sembra proprio la paura a giustificare il comportamento di Trimagasi, il quale, insistentemente accusato da Goreng, si limita a rispondere: "Sono solo un uomo che ha paura".

 

È questo, a mio giudizio, la forza de Il buco: la capacità di farci immedesimare nei personaggi, facendo nostri i dubbi che li affliggono e invitandoci a rinvenire questi dilemmi e posizioni etiche nella nostra quotidianità; il tutto inserito in un sottotesto originale e un clima sempre teso tra l’onirico e un ripugnanete realismo.

 

Successivamente Goreng, scampato alla gola di Trimagasi, proverà ad imporre l’equa distribuzione del cibo in tutto il “Centro”, sfatando la speranza di forme di solidarietà nate in maniera spontanea.

Anche l’altruismo coatto tuttavia, all’interno della prospettiva pessimista del Buco, è destinato al fallimento e il messaggio che il protagonista e Baharat (Emilio Buale) vogliono recapitare all’Amministrazione e per il quale sacrificano la loro vita, la panna cotta perfettamente intatta, viene sostituito in chiusura da un bambino, lasciato sulla piattaforma e fatto risalire fino al livello 0. 

A questo punto, nella sezione più rarefatta della pellicola, una volta abbandonato l’obiettivo della suddivisione proporzionata delle risorse, è la speranza in un simbolo irrazionale che trova occasione di affermarsi.

 

Il bambino può rappresentare, in questa lettura, l’abbandono dei propositi pragmatici a favore di un ripiegamento sulla sponda della fede, la quale, coerentemente, sarà il tema centrale de Il buco - Capitolo 2.

 

[Il trailer de Il buco - Capitolo 2]

 

 

Il buco - Capitolo 2: un’occasione sprecata

 

Il buco - Capitolo 2 è una pellicola più pretenziosa e, presentandosi come prequel del primo capitolo, vuole raccontare il tentativo di raggiungere l’equa distribuzione tramite un’organizzazione rigida e gerarchizzata.

 

Il sacrificio del “Messia”, che attinse dalla sua stessa carne per sfamare i più bisognosi, aveva incoraggiato la nascita di un movimento solidale di resistenza all’egoismo regnante nella Fossa e aveva dato avvio alla stipulazione della “Legge”.

L’intreccio della pellicola si sviluppa nella forma di un’allegoria storica mostrando, quasi a voler seguire delle tappe dello Spirito umano, come una regolamentazione imposta con la paura, che si riferisce anche troppo esplicitamente al Terrore della rivoluzione francese, inneschi inevitabilmente un meccanismo di ribellione al grido della libertà.

 

Nonostante la trama si sviluppi in una sezione di tempo piuttosto limitata, Urrutia utilizza con insistenza simbolismi espliciti per proiettare l’immaginazione dello spettatore su scala storica risentendo, come detto, della mancanza di complessità dell’analogia della Fossa.

La singolarità dei personaggi, vero cavallo di battaglia de Il buco, viene ben presto accantonata a favore dell’approfondimento di questo approccio scolastico e moraleggiante, il quale si conclude, attraverso scene di violenza divertenti e ben girate, in un bagno di sangue.

Sia “l’esercito” degli Unti sia quello dei Barbari finiscono massacrati e dopo aver salutato Trimagasi, della cui disillusione così sfrenata ora conosciamo le origini, la protagonista si lancia in una sequenza onirica in cui salva un bambino presente nella Fossa e allo stesso tempo pone rimedio ai suoi errori passati. 

 

Il personaggio di Zamiatin (Hovik Keuchkerian), la cui personalità si annoda intorno al fascino di un ex studente di matematica e la pateticità dell’inetto, si dà fuoco prima di avere il tempo di approfondire la sua caratterizzazione, troncando quello che a mio avviso era uno degli spunti più intriganti de Il buco - Capitolo 2.

La portata esistenziale del suo dilemma, ovvero la consapevolezza dell’inspiegabilità della realtà in termini matematici e dunque l’impossibilità di concedere la propria fiducia a nessuna interpretazione del mondo infallibile, viene appena abbozzata, lasciando un vuoto carismatico che neanche la ricomparsa di un fiacco Trimagasi saprà colmare.

 

In conclusione Il buco - Capitolo 2 saluta il pubblico con molte perplessità, stimolando a riprendere il primo film per ricordarsi quanto la struttura della Fossa sappia essere affascinante se utilizzata con giudizio.

Ciò che riesce ad entrambi i capitoli tuttavia, è pervadere lo spettatore con un pessimismo antropologico disturbante e onnipresente, di cui la frase di Trimagasi: "Siamo prigionieri di noi stessi", si presenta come eccellente sunto.

 

Questa prospettiva non deve necessariamente essere condivisa per risultare arricchente anzi, riconoscere che la natura umana nasconde lati oscuri e aberranti, può aiutare a tracciare la propria rotta verso la solidarietà e l’empatia, ringraziando che le nostre società offrono opportunità di redenzione ben più variegate rispetto all’esperimento mentale de Il buco.

 

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