#CinemaeFilosofia
Il cavallo di Torino è un film duro, indigesto, un film che si può bloccare facilmente a metà della sua discesa verso lo stomaco lasciando con un'impressione del tutto negativa.
Il concept della vicenda è telegrafico: la vita di un uomo, della figlia e del loro cavallo.
Sei giorni, per essere precisi.
Sei giorni identici uno all'altro.
Il tema è quello della ricorsività delle azioni, e della vita.
Padre e figlia sgranano giorno dopo giorno una sequenza di muti gesti (la loro mutezza li avvicina al modo in cui vivono gli animali).
Il regista Béla Tarr si premura, però, di mostrarceli ogni volta da un punto di vista differente; prendiamo ad esempio il momento del pranzo nel corso delle sei giornate: sebbene le posizioni e i gesti (oltre che la pietanza) dei personaggi non varino minimamente l'evento giornaliero ci è mostrato dal regista dal punto di vista dei quattro assi prospettici.
Lo stile di Béla Tarr è quello della giustapposizione di lunghissimi piano-sequenza, ma in questo caso la scelta stilistica si carica di un senso preciso: la volontà è quella di avvicinarsi a descrivere la verità della vita, non solo nei suoi contenuti, ma anche nella sua forma.
La nostra esperienza cosciente è un unico piano sequenza (interrotto soltanto da "punti di discontinuità" quali il sonno, gli svenimenti, gli stati alterati, o, per essere raffinati, da ciascun battito delle nostre ciglia).
Se la nostra vita fosse un film, montarla sarebbe davvero semplicissimo.
Il problema, se mai, sarebbe scegliere quali scene scegliere di trattenere e quali scartare; e qui entra in gioco il primo messaggio de Il cavallo di Torino: la vita è ricorsiva, non sempre ha un senso, ed è costellata da momenti immemorabili (questo pensiero sta anche al fondo della poetica della Nouvelle Vague).
Vale la pena, terminata l'estate, di voltarsi indietro e contare a grandi linee quanti sono stati i giorni memorabili, quelli che si sono cristallizzati in un ricordo, e quanti, invece, i momenti confusi gli uni con gli altri e, per questo, irrimediabilmente perduti.
Il filosofo del tempo - qualcosa come 1500 anni prima di Albert Einstein - fu senza alcun dubbio Sant'Agostino.
Il tempo é per lui distensio animi , un distendersi dell'anima.
A darci la misura del tempo, sostiene, non è niente di esterno; ciò che viene misurato dall'anima non sono quindi le cose che trascorrono, ma l'affezione che esse lasciano e che permane nella nostra coscienza/memoria anche quando esse sono trascorse. Le tre dimensioni del tempo (passato, presente e futuro) non sono altro che tre articolazioni di questa distensio animi: il ricordo, il prestare attenzione a qualcosa e l'attesa.
Agostino ci dice di intenzionare ogni istante che viviamo, perché questo si identifichi come differente dalla moltitudine degli altri istanti e possa sopravvivere sotto forma di ricordo.
Agostino, prima di tutti, ci dice il segreto per vivere più a lungo.
I personaggi de Il cavallo di Torino contravvengono a tutto questo, ogni giorno si confonde con gli altri, e come risultato essi non vivono affatto, e per questo viaggiano diretti incontro all'Apocalisse.
Tutto si spegne: il vento che spazzava ogni cosa in continuazione ad un certo punto cessa di fischiare, il cavallo si lascia morire d'inedia, persino la brace e, poi, la luce del sole, smettono di brillare.
Se nulla rimane nel tempo, allora nulla è stato, e resta solo l'istante presente della coscienza che si rende conto di essere rimasta sola, senza nulla attorno a lei a cui rivolgere né l'attenzione, né il ricordo, né tantomeno l'attesa.
Altro filosofo che di sicuro si sentiva sul promontorio dei secoli, prossimo ad un giro di boa, fu il tedesco Friedrich W. Nietzsche.
Il titolo Il cavallo di Torino, come ci viene ricordato fin dal proemio, è in riferimento al famoso aneddoto che riguarda il filosofo nel suo soggiorno torinese, quando nel 1889 pare abbia manifestato i primi chiari segni di squilibrio mentale abbracciando e baciando pubblicamente il muso di un cavallo - che era appena stato violentemente frustato perché reticente ad avanzare - e mostrando per lui segni di simpatia e comprensione per la sua condizione.
Tutto questo in Piazza Carignano, appunto, a Torino.
Nietzsche c'entra eccome in questa pellicola anche per altre ragioni: per via della ricorsività già citata e riconducibile alla sua concezione dell'Eterno ritorno dell'identico (di cui ho ampiamente parlato nell'articolo su Cloud Atlas), per il decorso apocalittico della vicenda - e, come già spiegato, egli credeva di stare per assistere alla conclusione di un'era e al dispiegarsi di una nuova nella quale avrebbe trovato posto la nuova umanità, o Superuomo; ma soprattutto Nietzsche è evocato nell'unico lungo scambio verbale che ha inizio dopo un'ora di film (un'ora esatta al secondo, potete controllare).
Un conoscente entra in casa del padre e della figlia ed imbastisce un monologo misterioso densissimo di spunti di riflessione che contrasta incredibilmente con ciò che abbiamo visto inquadrato fino a quel momento e che continueremo a vedere, vale a dire uno stile di vita intellettualmente pigro e ripetitivo.
Vuoto.
Immemorabile.
Non per nulla il discorso viene troncato dall'intervento del padre che sentenzia:
"Smettila! Queste sono stupidaggini!"
A un certo punto il visitatore dice:
"E all'improvviso hanno capito che non c'è né Dio né altri dei.
Né il bene né il male."
Il pensiero nietszchiano attinto dalla sua La gaia scienza ("Gott ist tot": "Dio è morto") e dal suo Al di là del bene e del male è palese.
Così come la sezione del monologo del visitatore in cui si evoca lo scontro fra due misteriose fazioni che - a parer mio, almeno - altro non sono che le due controparti descritte da Nietzsche nella Genealogia della morale, ossia i deboli ed i signori.
Una cosa è certa: il film di Tarr è un film d'autore di una potenza inaudita.
Ostico, ma raffinato; fraintendibile, ma esigente; e necessario, ma solo per chi accetta di impegnarsi nel metterci del suo.
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1 commento
Sebastiano Miotti
4 anni fa
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