#SuldivanodiAle
Su Netflix è arrivata Zero, serie prodotta da Fabula Pictures e Red Joint Film, ispirata al romanzo Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano e creata da Roberto Marchionni aka Menotti.
Zero racconta la storia di Omar, un giovane ragazzo nero alle prese con un padre padrone, il sogno di diventare un mangaka e il destino de Il Barrio, quartiere di periferia di Milano al centro di atti vandalici sempre più vili.
Omar è dotato della capacità di diventare invisibile: quando un gruppo di ragazzi del Barrio scoprirà il suo segreto metterà il suo potere al servizio di un fine più alto: salvare il Barrio e dare una speranza agli ultimi della metropoli.
[Il trailer di Zero]
Il fumetto popolare come forma di comunicazione degli ultimi e stendardo del genere
Il fumetto è una di quelle arti tremendamente fraintese, nonostante la sua Golden Age verso l’ascesa a mezzo popolare sia avvenuta tra la fine degli anni ‘30 e la fine degli anni ‘60.
Nonostante Michael Chabon abbia vinto un premio Pulitzer con il suo meraviglioso romanzo a tema fumettistico Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay.
Nonostante il consacramento al Cinema, nella cultura pop di ampio consumo e l’invasione degli scaffali della libreria con autori quali: Gipi, Zerocalcare, Fumettibrutti, Hugo Pratt, Andrea Pazienza, Leo Ortolani, Mirka Andolfo, Juan Diaz Canales e Juanjo Guarnido, Mark Millar, Craig Thompson, Art Spiegelman e molti altri.
Nonostante il manga, in Italia, sia un linguaggio di successo editoriale per uno spettro generazionale enorme e ormai compreso tra una parentesi che si apre negli anni ‘90 e continua ancora oggi - sono almeno 30 anni, ma forse possiamo andare ancora più indietro.
Il fumetto continua a essere rappresentato dall’informazione generalista, tanto quanto da molte figure del mondo dell’intrattenimento, come un mezzo minore e mai come una forma di intrattenimento dotato di una propria grammatica e di stilemi narrativi che hanno influenzato enormemente il linguaggio e l’immaginario collettivo.
Se pensiamo al comic americano, il momento rappresentativo per l’evoluzione del fumetto come mezzo pop arriva quando negli anni '60, in piena Silver Age, la Marvel guidata da uno Stan Lee assistito da matite e menti creative quali Jack Kirby e Steve Ditko, getta le basi per un cambiamento epocale: la creazione di The Amazing Spider-Man.
Peter Parker è un adolescente, vive nel Queens, è un secchione vittima di bullismo, non sta vivendo il sogno americano capitalistico, non è affascinante per le ragazze, non è biondo, non ha la mascella squadrata e non ha gli occhi azzurri, non è spavaldo e non è sicuro di sé o edonista e quindi popolare.
Peter Parker rappresenta migliaia, milioni di lettori in tutto il mondo.
È l’eroe degli emarginati, degli ultimi, dei dimenticati e Spider-Man è la speranza di quelli chiamati freaks: non è un SUPERuomo, bensì lo STUPEFACENTE Spider-Man.
[Steve Ditko, co-creatore di Spider-Man e la copertina della prima avventura del personaggio]
Stan Lee e Steve Ditko hanno creato una nuova forma di linguaggio, quella dove l’eroe non è il vincente a priori, dove Spidey diventa l’icona dell’uomo della strada, del ragazzino delle periferie.
Con il tempo, nel mondo si diffondono le immagini dell’amichevole Spider-Man di quartiere, il supereroe che mangia gli hot dog negli stereotipati carretti con l’ombrellone che si possono trovare a Manhattan, che beve il caffè a portar via appollaiato su un tetto mentre morde una ciambella, il ragazzo del Queens eroe di tutti.
Una forma di narrazione così potente da diventare, sotto diverse inclinazioni, un marchio di fabbrica della Marvel e che nel tempo ha fatto scuola, poiché ha dato al fumetto una chiave di lettura per rendere i personaggi umani, vicini al lettore con il loro essere comuni e fallibili e quindi ancora più complessi e approciabili.
Il fumetto diventa pop non solo poiché di larga diffusione, ma perché capace di parlare a intere generazioni, sopravvivendo ai mutamenti della società.
Nel tempo Spider-Man è diventato simbolo di questo totem narrativo e questa intuizione diventa ancora più preziosa quando nel 2011 Brian Michael Bendis e Sara Pichelli creano Miles Morales.
La nuova incarnazione di Spider-Man è figlia degli Stati Uniti di Barack Obama, della New York meltin' pot di culture e porta al pubblico un ragazzo figlio di un uomo afroamericano e di una donna portoricana, figlio di Brooklyn, l’eroe che mangia uno snack alla bodega del quartiere, protettore di altri ultimi e di altri emarginati, protagonista di un mondo dove nessuno è invisibile e le minoranze sono parte del tessuto narrativo della società.
Come rappresentato in una delle scene portanti di Spider-Man: Un nuovo universo, il costume dell’eroe di Stan Lee calza sempre: è un vestito perfettamente cucito e disegnato per essere indissolubile al tempo, eternamente stendardo dei freaks, dei dimenticati e dei non raccontati.
Questo stilema narrativo è quanto mi sarei aspettato di trovare in Zero, identificando in Omar un eroe di quartiere, non obbligatoriamente super ma comunque in grado di dare voce a una nuova generazione di giovani italiani.
Lo stendardo di una realtà meltin' pot milanese non raccontata, ma desiderosa di avere una voce che faccia sapere che non si tratta soltanto di una discussione nel dibattito pubblico, ma di individui membri di una collettività e con una storia da raccontare.
Il fumetto è lo stilema di partenza di quest’opera, la base, lo dice lo stesso creatore della serie, e in quanto tale dovrebbe parlare il linguaggio pop dal quale proviene, conscio di sapere come si sfrutta il supereroe, seppur urbano, nella costruzione di un mito che diventi simbolo.
Appare invece chiaro fin da subito che Zero non ha alcuna intenzione di aderire all’archetipo del supereroe o del superumano, se non nella funzione di miele che possa attirare lo spettatore, relegando il potere dell’invisibilità a una didascalica metafora della condizione di Omar, tanto quanto lo è il suo soprannome, scordando totalmente come il fumetto offra, negli stilemi di costruzione dell’eroe, tutti i mezzi per arrivare a raggiungere tale scopo, evolvendo il concetto attraverso una storia di intrattenimento.
Sei un ultimo, il tuo potere è l’invisibilità.
Sei un ultimo, il tuo soprannome è Zero.
Il trionfo del ragionamento binario messo di fronte al carro, unico pensiero a trascinare l’intera carovana narrativa, senza alcuna ricerca nella strutturazione di un mito, del personaggio, delle sue motivazioni e della sua catarsi.
L’incipit è il punto di arrivo ultimo.
Il protagonista della serie nasce e muore nel suo concept esattamente come l’intera serie, riducendosi alla bidimensionalità di un ragazzo incredibilmente buono, perfetto in ogni suo comportamento e innamorato della classica bella e impossibile del racconto, la Giulietta del mondo opposto al suo.
Di Omar non sappiamo davvero nulla e la sceneggiatura non aiuta a raccontare quali possano essere i dubbi, i contrasti e le paure di un ragazzo alla cui base c’è un trauma infantile a mio avviso raccontato male e per certi versi per nulla messo in scena.
Zero Zero Zero
Non fraintendetemi.
Il fumetto non si siede unicamente sul concetto di supereroe, la classica calzamaglia con mascherina e mantello e nel tempo, parlando di creazione di una metafora sociale, è diventato anche un veicolo molto potente per criticare la nostra società, per utilizzare i superumani e la loro decadenza in quanto uomini come spettro di quello che siamo diventati o possiamo diventare - vedi Watchmen di Alan Moore e il sequel di HBO o lo stesso Jupiter’s Legacy di Mark Millar, che scherza molto con la Golden Age degli eroi.
Zero non ha alcun vero tratto di denuncia sociale o di metafora a raccoglierne le idiosincrasie se non a livelli binari attraverso irritanti dialoghi; esattamente come per i delicati messaggi suggeriti dal suo potere e dal suo nome - il ground zero della creazione del concept di questo personaggio - tutto il resto si appiattisce, si conforma e non riesce in alcun modo a funzionare nemmeno come serie di intrattenimento a tema supereroistico.
Pensate a The Umbrella Academy, dove l’intrattenimento va di pari passo con una descrizione del nostro mondo e della nostra società attraverso il racconto di superuomini che, prima di tutto, sono umani fallibili e ben caratterizzati nelle loro debolezze e idiosincrasie.
Ne capiamo le urgenze, ne comprendiamo i drammi, sentiamo le loro lotte interiori e partecipiamo allo scopo, fumettistico, della macro trama che li vede impegnati a salvare il mondo dalla sua fine, forse inevitabile, che diventa affascinante proprio perché abbiamo a cuore chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare.
In Zero i protagonisti non sono raccontati, non hanno contrasto, non hanno identità che non sia esigenza di sceneggiatura per scrivere un conflitto sconclusionatamente messo in scena come un compitino preso da una lista di punti da toccare.
[Guillermo del Toro ricama sui personaggi dei suoi film anche quando non sono suoi, come nel caso dell'adattamento di Hellboy, poiché una forte componente di scrittura e di immaginazione esiste sempre nel processo lavorativo a monte]
10 pagine di biografia dei personaggi
A tal proposito, una delle ossessioni di qualsivoglia bravo autore dovrebbe stare nella cura maniacale dei propri personaggi.
Quando Guillermo del Toro ha scelto il cast di Crimson Peak ha mandato a ogni singolo attore una biografia di 10 pagine dedicata al loro personaggio.
Quando Quentin Tarantino siede al tavolo con gli attori chiede a questi chi sia e da dove venga il loro personaggio, per vedere se hanno letto quanto il regista ha scritto di loro e per capire se siano effettivamente coinvolti nella storia.
Potrà sembrare una follia, ma ogni autore che si rispetti sa che scrivere i propri personaggi sia un esercizio che parte da lontano e vive nella definizione di questi, ancora prima che diventino protagonisti di una sceneggiatura.
Zero è la morte della caratterizzazione dei personaggi.
Risulta chiaro come ognuno dei protagonisti sia una figurina, la maschera di un personaggio stereotipato, appiccicato a dei dialoghi che in sostanza starebbero in bocca a chiunque.
Non hanno un vero carattere, non hanno una dimensione e andando avanti con la storia non ci importa davvero di nessuno di loro; quelli che funzionano, come Momo, sembrano vivere per un fortunato incidente delle forze cosmiche universali.
La maschera della spalla comica, se azzecchi l’attore, funziona quasi sempre e in questo caso forse è l’attore a fare più della sceneggiatura.
Zero è afflitto da una scrittura che già a partire dai personaggi non riesce a comunicare con il suo pubblico e che usa elementi pop dispensati a casaccio e un linguaggio moderno, sempre con l’ombra di essere vagamente esterofilo, per cercare di compensare - l'impero del "bro" e del "fra", che sia chiaro, ci sta ed è specchio del presente.
Gli stessi villain della serie sono macchiette senza uno scopo e senza carattere, fanno parte di quell’enorme meccanismo di totale assenza di causa ed effetto che faccia detonare le fondamenta del racconto, dando l’impressione che tutto, a partire dai dialoghi, sia un continuo maldestro tentativo di pilotare la storia verso una direzione ben precisa, ma senza una costruzione narrativa adeguata.
Zero Zero Zero
Quando si va a scrivere i contrasti o la backstory di un personaggio, nella creazione di un eroe come in quella di un qualsiasi altro protagonista del tessuto narrativo, lo si fa non solo per creare una connessione con il pubblico, un ponte emotivo, ma anche per dare motivazioni alle sue azioni, a quello che è o diventerà.
In Zero invece i drammi personali dei personaggi sono inseriti quasi come se si dovesse fare un segno su una lista di punti da soddisfare e sono innescati quasi arbitrariamente, sempre al fine di giustificare una qualche direzione della sceneggiatura, a volte inserendo personaggi con un colpo di borisiano F4.
Quando si scrive una sceneggiatura, che è linguaggio invisibile a servizio di un mezzo per immagini, si ha il difficile compito di dover immaginare poi la messa in scena di quelle azioni; quello che funziona su carta non sempre, anche nei dialoghi, si traduce bene.
Il lavoro di un bravo sceneggiatore sta nell’essere conscio di tale meccanismo, scrivendo per le immagini.
Mentre il lavoro di un bravo regista è rendersi conto, nel momento in cui la sceneggiatura fallisce, come sia possibile reimmaginare la storia in modo che ci sia una buona conversione visiva.
In Zero, paradossalmente, la sceneggiatura forza la messa in scena, piuttosto che il contrario, una scrittura totalmente sbadata rispetto alle immagini viene forzata a queste, risultando in una sequela di sequenze e meccanismi narrativi improbabili.
I dialoghi pilotano la discussione verso un punto che non è coerente con il rapporto tra i personaggi o rispetto alla scena stessa.
Le azioni dei personaggi sono viziate da eventi che devono accadere e che non sempre sono legati a un build up emotivo o di tensione portato avanti nel corso degli avvenimenti.
Tutto in Zero è quasi sempre piegato da esigenze di sceneggiatura che muovono gli eventi poiché così deve andare.
Non vi è nemmeno il gusto di un villain degno di tale nome e gli antagonisti, tanto quanto detto per la stesura dei personaggi e i rapporti tra loro, non hanno alcuna profondità o cura e non ho neanche trovato il divertimento della stesura di un personaggio crudele, puramente malvagio, ubriaco di potere, specchio delle peggiore inclinazioni della nostra realtà o semplicemente mosso da motivazioni interne all’elemento fantastico: un mondo di superumani.
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Sembra POP ma non è
Accantonando quello che la serie secondo me non riesce a fare da un punto di vista di creazione del mito e rimanendo nelle “furbizie di scrittura”, Zero ha anche il problema di voler strizzare l’occhio al pubblico più giovane, farcendosi di trappole pop ma senza instaurare un dialogo con esso, se non a un livello estremamente superficiale.
Zero dice di essere un aspirante disegnatore di manga, salvo poi mostrare tavole che sono palesemente tipiche nel tratto, come nell’impaginazione, di un comic americano.
In sceneggiatura ci sono dialoghi improbabili, pronunciati da genitori molto giovani e che sostengono come ”i manga sono belli, alcuni dei capolavori!” irritando il pubblico più attento che ricorderà immediatamente i Simpson e il maldestro tentativo di Mr Burns di passare per Secco Jones.
La colonna sonora è una Festivalbar Trap Edition di tutto quello che è andato in radio negli ultimi due anni circa, ma nessuno dei brani ha una vera funziona diegetica rispetto a quello che accade sullo schermo: il risultato è una palese intrusione di qualcosa che non appartiene ai protagonisti e alla scena.
Cosa che invece avviene, per esempio, anche nelle sit-com o nelle serie USA: come esempio ricordo l’episodio di How I Met Your Mother dove Ted ha un contrasto con Robin riguardo il suo sogno di essere architetto: nella scena portante di quell’episodio si sente Here I Dream I Was An Architect dei The Decemberist… che coincidenza, eh?
Per fare un esempio di musica utilizzata a dovere potremmo ricordare Miles Morales che disegna i suoi bozzetti di street art ascoltando Sunflower di Post Malone e Swae Lee.
Diegeticamente ha senso e per come attacca il primo episodio sembra proprio che gli autori di Zero abbiano voluto richiamare quella scena, fallendo poi nel dare identità narrativa a quella sfumatura di Omar, molto presente invece per Miles.
Per altri esempi di musica utilizzata con un senso nella narrazione, pur senza trovare sempre una linea con il momento, potremmo guardare a Twin Peaks: Il Ritorno, nella quale il giovane David Lynch, a 70 anni suonati all'epoca della produzione, inserisce un’invidiabile carrellata di artisti utilizzati in scena come presenza sul palco del Road House, chiosando gli episodi e accompagnando i titoli di coda con piccole scene significative per i comprimari o semplicemente dando attenzione all'esibizione.
In Zero una delle protagoniste è una producer musicale, con un proprio studio parte del Barrio.
Idee?
Nel corollario di assalti alla cultura pop dello spettatore il momento più basso è forse rappresentato dal maldestro tentativo di rappresentare una fiera del fumetto, la cui messa in scena riporta a improbabili parodie supereroistiche da pomeriggio televisivo, con tanto di momento filosofico riguardo la cultura del cosplay e il cui mal riposto pensiero è specchio di quanto chi sceneggia sia estraneo al mondo che vorrebbe raccontare.
Zero Zero Zero
Apri tutto
Come se la scrittura non fosse già un fattore piuttosto problematico nella costruzione di Zero, la messa in scena, la regia e il montaggio giocano la loro parte.
L’idea di iniziare un episodio con un flash forward, montando qualcosa che si ritroverà più avanti nella serie o nello stesso episodio, è un ottimo strumento per creare aspettativa rispetto a quello che si sta raccontando.
Può essere un elemento di mistero o può essere uno strumento d’intrigo dedicato a uno dei personaggi che si trova al centro di una situazione estrema.
Non è molto diverso dal farci vedere la bomba nella valigetta sotto il tavolo, come faceva Alfred Hitchcock, ma è una sorta di evoluzione di quel concetto poiché la visione viene viziata dall’idea di scoprire come un personaggio arriverà in quella situazione di pericolo imminente, lasciandoci in tensione per tutta la visione.
In Zero questo espediente è utilizzato continuamente e con un discreto sprezzo del pericolo, ma risulta privo di qualsivoglia forma di tensione: quando arriviamo alla scena già vista le conseguenze non esistono o sono irrisorie.
Al tempo stesso la serie presenta più volte il classico errore dello scavalcamento di campo senza un senso nel racconto, poiché la regola può essere violata nel momento in cui esista un senso per lo spettatore e per la narrazione, ma molto spesso la regia dimentica di mostrare le conseguenze delle azioni e i punti di vista dei personaggi necessari a farci capire quando intuiscono qualcosa.
Le poche scene d’azione inoltre dimenticano completamente di avere a che fare con un protagonista invisibile, compromettendo la coerenza di quanto accade sullo schermo.
Nel primo episodio di Zero Omar scompare da una stanza chiusa mentre ha un inseguitore alle spalle che entra immediatamente nella stanza, una sorta di sgabuzzino piuttosto angusto.
La regia non ci mostra il punto di vista di Omar e non sappiamo che lui è diventato invisibile.
Vediamo solo il suo inseguitore entrare nello sgabuzzino e camminare verso il punto in cui Omar dovrebbe giacere rannicchiato.
Siamo quindi portati a pensare, non avendo altri elementi, che Omar non sia solo invisibile, ma anche incorporeo.
Eppure non lo è: questo ci viene svelato in seguito anche grazie a una scena dove una colluttazione è coreografata come se l’assalitore di Omar fosse conscio di combattere con una forza invisibile: nonostante venga preso alle spalle conosce perfettamente lo spazio occupato da Omar e lo ingaggia.
Zero è a mio avviso maldestra nel raccontare con le immagini e non ha nessuna idea di come gestire le coreografie rispetto alla presenza di un protagonista invisibile, rompendo continuamente la coerenza delle sue stesse regole di messa in scena.
Vi basti guardare il meraviglioso L'uomo invisibile di Leigh Whannell per capire come invece si sarebbe potuta trattare una colluttazione, che nel caso di Zero fallisce proprio per la mancanza di cura non solo in scrittura, ma anche nel momento in cui i registi non si rendono conto di dover ideare, con i reparti, una coreografia che dia senso alla scena.
Zero
Zero, assieme a Curon, diventa una delle occasioni mancate per le produzioni di Netflix Italia.
Il dispiacere è enorme, poiché il potenziale del cast e del concept di base poteva aprire a molte soluzioni narrative, portando il linguaggio pop del racconto da fumetto nella serialità italiana, sfruttando un veicolo e un vestito perfetto per parlare del nostro presente, di come la società stia evolvendo e di come per certi versi sia ancora vittima di una certa devoluzione.
La percezione e la mia terribile sensazione che nasce da queste produzioni è che i filmmaker appassionati, che sappiano anche prendersi gioco di sé e della propria arte, in Italia non esistano, a favore di artisti che non hanno alcuna voglia di volgere lo sguardo al mondo, alla loro stessa forma d'arte e all'evoluzione del linguaggio, sedendosi su uno status simbol dal quale non ascoltano, non imparano, non assorbono e non ricercano.
Rinchiusi in questa magnifica bolla che è la scena artistica italiana, questo Boris perenne dal quale non riusciamo a uscire, convinti che sia la realtà quando invece è un Matrix che va a nutrire una disillusione.
Mentre gli artisti veri, nel mondo, si divertono a giocare con il Cinema e lo storytelling per immagini, sfidando la loro mortalità e sperando di poter giocare in eterno.
Quante volte sei caduto in trappola per un titolo clickbait che poi ti ha portato a un articolo in cui non si diceva nulla? Da noi non succederà mai.