#AnimalinelCinema
Inutile girarci attorno: parlare di Pier Paolo Pasolini è difficile.
Il suo pensiero e la sua storia personale sono imprescindibili dalla sua opera artistica.
Figura eclettica quanto controversa il regista rappresenta un outsider tra gli intellettuali nostrani del Novecento, i suoi film sono il simbolo di un’Italia che pullula di spettri e di contraddizioni nonostante il boom economico.
Non saranno la maschera del grottesco o il velo del mito ad assottigliare la potenza dei suoi messaggi che invece traggono vantaggio dall’originalità del suo linguaggio.
Nemmeno il sesso perverso e l’ultra-violenza che lo rendono tuttora oggetto della morbosa curiosità di cinefili e meno cinefili – alzi la mano chi non è stato incuriosito dal suo nome letto in qualche articolo sui film più disturbanti della Storia del Cinema - sono riusciti a intorpidire la limpidezza delle sue idee.
Dopo questa piccolissima ma doverosa introduzione è tempo di approcciarsi a Uccellacci e Uccellini, opera del 1966, che rivela la propria indole giullaresca sin dai titoli di testa, cantati da Domenico Modugno.
Sono molti i nomi importanti in questa singolar tenzone: Ennio Morricone alle musiche, Dante Ferretti alla scenografia (tre volte premio Oscar e collaboratore di alcuni registi poco celebri come Martin Scorsese, Tim Burton, Federico Fellini, Elio Petri, Luigi Comencini, Marco Ferreri…) e Sergio Citti sono alcuni tra questi.
Quello che salta subito all’occhio e sorprende però è il nome di Totò.
Sarà che nonostante il rispetto e la riverenza verso questo simbolo della comicità nostrana, prima ancora che questa si evolvesse nella ben più impegnata commedia all’Italiana, non riesco inconsciamente a non associarlo ai film del pomeriggio su Rete4.
Certamente non viene naturale associarlo a Pasolini.
Nemmeno Totò avrebbe associato se stesso al regista probabilmente.
Da un lato un monarchico, tradizionalista, cattolico, dall’altro un omosessuale comunista.
Da un lato il cinema della maschera, dall’altro l’ermetica e stratificata poetica pasoliniana.
L’Italia degli opposti si realizza già in questo strambo sodalizio.
La scelta di Totò sembra bizzarra non solo per le ideologie contrapposte ma anche per quanto concerne le regole del regista per la scelta del cast; infatti solitamente prediligeva attori non professionisti in modo tale che questi si abbandonassero alla sua direzione e interpretassero nient’altro che un’altra versione di se stessi, con spontaneità e senza artefici.
Per lo più i grandi personaggi con cui ha collaborato, da Anna Magnani a Orson Welles, gli sono stati imposti dalla produzione.
Da questo punto di vista la contraddizione è solo apparente: l’obiettivo di Pasolini è decodificare la maschera di Totò, quella dell’infimo borghese italiano, dell’infima borghesia portata alle sue estreme espressioni di volgarità e aggressività.
La maschera clownesca e la napoletanissima bonarietà che hanno fatto della comicità di Totò una sorta di cliché vengono destrutturate ma non snaturate.
Pasolini offre all’attore la possibilità di riscattarsi di fronte a una critica che lo aveva sempre snobbato e del cinema d’autore a cui ha sempre guardato con reverenza.
Ninetto Davoli, il giovane attore con i capelli lunghi e i jeans, rende la strana coppia uno strano trio.
Dirigere due attori così diversi fu complesso ma anche motivo di soddisfazione, Totò e Ninetto erano uno stradivario e uno zuffoletto, ma che bel concertino.
Ninetto e Totò sono padre e figlio Innocenti, di nome e di fatto. Intraprendono un pellegrinaggio laico, un viaggio senza meta, accompagnati da un bizzarro corvo che proviene dal futuro, cittadino della capitale di un paese chiamato Ideologia, residente in via Karl Marx 70 volte 7.
Si susseguono discorsi disparati, dalle più infime necessità intestinali alle più disparate disquisizioni su vita, morte, natura e politica.
Anche i soggetti con cui i protagonisti interagiscono per strada sono dei più disparati e riflettono anche tutte le influenze: la comicità slapstick, i saltimbanchi felliniani, le ultime reminiscenze del neorealismo sono solo gli omaggi più evidenti in questo film in cui emerge però tutta l’originalità dell’opera di Pasolini.
Ci troviamo in una periferia, romana per il linguaggio, ma che potrebbe appartenere a qualsiasi posto ai limiti della Terra.
A conferma di ciò troviamo indicazioni stradali che indicano le distanze chilometriche dalle capitali del Terzo Mondo.
È tutto in costruzione, il mondo arcaico della campagna viene deturpato dal capitalismo, nemico al quale l’autore si ribellerà fino alla triste morte.
L’ultimo baluardo della resistenza rappresentata dal sottoproletariato inizia a crollare sotto il peso del senso di inferiorità di uomini e donne di borgata nei confronti della borghesia, i giovani popolani non cercano più di imporsi per quello che essi sono, ma cercano invece di mimetizzarsi nel modello dello studente.
I proletari diventano piccolo borghesi, macchine del consumismo con l’aumentare del potere d’acquisto.
In La religione del mio tempo una delle poesie recita a un tratto:
"È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno"
Anche l’intellettuale di sinistra subisce una crisi, profetica a dire il vero; nel loro peregrinaggio senza meta i protagonisti incorrono anche nel funerale di Palmiro Togliatti che rappresenta la fine di un’ideologia che ha dato i suoi frutti solo tendenziosamente.
Il corvo è nelle mitologie greche e norrene e nel simbolismo cristiano è proprio presagio di morte e, in concomitanza con il funerale di Togliatti, è ben chiaro a che morte l’uccello faccia riferimento.
Il divario tra le masse e gli intellettuali diventa sempre più marcato.
I messaggi espressi dagli intellettuali hanno i connotati di una gara di dialettica e di moralismo e non fanno presa sul popolo.
Il logorroico corvo del film morirà proprio sotto tra le mani di Totò e Ninetto affamati.
La fame è il motore del proletariato, ma è anche il compito stesso degli intellettuali quello di venire assimilati, se non proprio metaforicamente divorati, riuscendo a trasmettere le proprie idee quanto più è possibile.
Ninetto, Totò e il Corvo camminano in quest’epoca di trasformazioni e incertezze catturandone allo stesso tempo l’ironia e le vie che percorrono citano i nomi dei sottoproletari destinati all’anonimato.
Il corvo parla molto cercando di coinvolgerli, vuole insinuare dubbi e risvegliare coscienze.
L’accento è squisitamente emiliano, in quanto regione di sinistra per antonomasia.
Uno dei momenti più emblematici e esplicativi del film è proprio un apologo duecentesco narrato dall’uccello.
Due frati giullari, Fra Ciccillo e Fra Ninetto, interpretati sempre da Totò e Ninetto, ricevono un incarico da San Francesco: predicare il Vangelo agli orgogliosi falchi e agli umili passerotti.
Il passero nella Bibbia, inteso spesso come un volatile di piccola dimensione, esprime la fragilità e l'incapacità a difendersi dai predatori, come i falchi, e dai cacciatori.
Veniva venduto nei mercati a un prezzo irrisorio rappresentando dunque i perseguitati, gli ultimi, gli indifesi.
Gesù dichiara che, seppur gli uccellini fossero considerati di così scarso valore, nemmeno uno di loro sarebbe stato dimenticato da Dio.
Il rapporto tra Pasolini e la religione è ambivalente: da un lato, sia in quanto omosessuale sia in quanto comunista, disprezza e viene disprezzato dalla Chiesa come istituzione, dall’altro vede in Gesù il fulcro originale del messaggio di sinistra di pace e uguaglianza tra gli uomini.
Inoltre un italiano porta nel suo bagaglio culturale un’immensa eredità cristiana, per quanto possa dichiararsi ateo o agnostico, dalla quale non può e non deve separarsi.
Seppur questa laicizzazione del messaggio cristiano trovi il suo picco ne Il vangelo secondo Matteo, è intuibile anche nel San Francesco di Uccellacci e Uccellini che infatti afferma che la disuguaglianza fra classe e classe è la peggior minaccia per la pace.
I due frati riescono, con caparbietà e un’invidiabile pazienza, a comunicare con gli uccelli; Fra Ciccillo comprende come comunicare con gli uni e con gli altri, i falchi infatti hanno un linguaggio tutto loro, mentre i passerotti non interagiscono con il cinguettio ma con i saltelli.
Il frate afferma che "con la fede ci si crede, e con la scienza ci si vede", sottolineando quanto sia insensato ritenere il metodo scientifico e la fede religiosa in contrasto.
In un primo momento sembra che gli uccelli abbiano recepito il messaggio d’amore.
Nell’episodio la perseveranza di Fra Ciccillo inoltre viene confusa per santità e intorno a lui sorge un vero e proprio culto, con annessi altarini e mercatini dei souvenir.
Dopo tutto quel lavoro d’altro canto i frati rimangono sconvolti nel vedere un falco divorare un passerotto.
San Francesco esorta i due frati a ricominciare daccapo.
Nella vita si è a volte falchi, a volte passerotti, si subisce violenza e la si esercita.
Lo vediamo bene nel proletariato rappresentato da Totò e Ninetto, destinato alla trasformazione in piccola borghesia, servile con i ricchi e prepotente con i poveri.
I due infatti minacciano una famiglia di contadini impossibilitati a pagare loro l’affitto.
La coppia di affittuari mangia nidi di rondine e non può sfamare i suoi bambini, trattenuti a letto come se fosse sempre notte, affinché non palesino i morsi della fame.
A loro volta si presenteranno a una festa di Dentisti Dantisti a casa di un ingegnere con cui loro stessi hanno contratto un debito.
L’ingegnere sarà poco clemente con loro così come loro lo sono stati con i contadini, in una catena di minacce.
L’assenza di pietà verso il prossimo è la pietra su cui si fonda la discordia, qualunque sia il nostro punto di vista, laico o cristiano, anticlericale o neocatecumenale.
Verranno inoltre truffati da dei saltimbanchi comprando una pomata inefficace, una truffa simbolo di un consumismo sfrenato all’alba della sua diffusione che spinge all’acquisto di ciò che non è necessario.
Nella periferia del mondo, le anime alla deriva in questa fiaba pessimista non giungono da nessuna parte.
In questo eccentrico “road movie” non vediamo la fine del viaggio.
Riusciamo a percepire però le fondamenta dei contrasti che oggi infervorano nel nostro Paese.
È giusto dunque concludere questa analisi proprio con la citazione di Mao Tse-Tung nell'incipit del film:
"Dove andrà l’umanità? Boh"