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Federico Fellini è da ridimensionare? Federico Fellini è sopravvalutato?
È molto probabile che questa domanda non abbia nessun senso di essere posta.
È addirittura possibile che i termini sopravvalutato e/o sottovalutato non abbiano nessuna funzionalità all’interno di un’analisi di qualsivoglia genere.
Lemma
Sfruttiamo quello che considero l’espediente esplicativo più fastidioso che sia mai stato pensato (permettetemi fin da subito di essere sincero nei vostri confronti): definizione dal dizionario della parola sopravvalutare.
Sopravvalutare
Valutare una persona o una cosa più di quanto effettivamente valga
Treccani asserisce, io copio e incollo sincerandomi di togliere le pedanterie fonetiche e sillabiche per far capire quanto mi vergogno di aver inaugurato il mio primo articolo con una definizione del vocabolario.
“[…] effettivamente valga” sono due parole che mi fanno orrore.
Carmelo Bene, al quale invece la fonetica (o la phoné) interessava eccome, avrebbe detto “Andate a farmi un tè!”, purtroppo non è mai esistito.
Salvo che non stiamo parlando del mercato azionario e delle quotazioni della Disney mi sento in diritto di puntualizzare una cosa: né il Cinema né qualsiasi forma d’arte si può pesare sulla bilancia.
Fine dei giochi, giusto?
Giusto.
Eppure concedetemi la prima ritrattazione (di una lunga e prospera serie): questo articolo non ha un titolo ma un Titolo, com’è giusto che sia.
D’altronde anche Pier Paolo Pasolini faceva clickbait sul Corriere della Sera.
Federico Fellini Federico Fellini
Corollario
Il sentimento (attivista) che mi ha portato a proporre un articolo di questo tipo nasce da (storpiando François Truffaut) una certa tendenza del cinefilo.
Nelle prime cinque righe della grafica in alto ci sono gli “assiomi” del cinefilo medio, a seguire gli assiomi di Peano - che ho furbescamente googlato, non me ne vogliano gli studenti di matematica.
Riuscite a vedere la differenza tra i due gruppi di assiomi?
Il cinefilo medio non la vede.
Vi dirò: non solo non sono d’accordo con una sola sillaba delle prime righe, ma sono sicuro che non tutti coloro i quali esprimono questi pareri la pensino davvero così.
Questo cortocircuito nasce da un timore reverenziale contro il quale chiunque abbia deciso di approcciarsi alla Settima Arte in maniera approfondita è destinato a imbattersi.
Certe opere e certi autori non si toccano, non si discutono, non si criticano.
Siamo sicuri che questo sia il modo più sano (ma soprattutto libero) di affrontare la visione di un film? Io non lo credo.
Ogni opera che ricopre un'indiscutibile importanza storica non è esente da difetti, il film perfetto non esiste e io sono contento che sia così.
Non ho ancora finito i colpi in canna: è molto probabile che colui il quale pronuncia la fatidica formula “è in assoluto il migliore di…” non abbia minimamente presente neanche l’ombra di un soddisfacente quadro d’insieme.*1
Proprio per rifuggire da una visione semplicistica dell’argomento ho deciso di strutturare questo articolo come una piccola monografia stilizzata.
Quindi iniziamo: parliamo di Federico Fellini.
Nessuna pellicola sarà omessa, né maltrattata, a partire dal suo esordio alla regia per Luci del varietà per arrivare a La voce della luna.
Lo scopo, (D)io me ne scampi, non è spiegare perché ho ragione, ma spiegare le mie ragioni.
*1Postilla al corollario (piccola metafora sul cibo)
È doveroso fare una precisazione.
Fidarsi di chi ha mangiato più pietanze degli altri è normale se non addirittura fisiologico.
Statisticamente parlando: quanta attendibilità può avere un uomo che nella sua vita ha mangiato solo fagioli quando dice “I fagioli sono il cibo più gustoso”?
Domanda 2: ma se a dire la stessa cosa fosse un critico culinario, quanta attendibilità avrebbe?
In entrambi i casi la risposta è: nessuna attendibilità.
Ma arriviamo alla domanda 3: nel secondo caso proveresti a dare una seconda possibilità ai fagioli?
Federico Fellini Federico Fellini
Dimostrazione
Luci del varietà e Lo sceicco bianco (1950-1952)
Federico Fellini esordisce alla regia (?) nel 1950 con Luci del varietà: fin da subito mettere insieme i pezzi per dare un parere sul risultato finale risulta quantomeno gravoso.
Com’è noto la pellicola in questione è in realtà una co-regia con Alberto Lattuada, autore che nel ‘50 aveva già all’attivo la regia di sette lungometraggi.
Questo non è un dato rilevante di per sé, eppure è sicuramente un aspetto da prendere in considerazione per valutare la diatriba creatasi tra i due autori a proposito della paternità del film.
Negli anni le dichiarazioni di Fellini sulla realizzazione di Luci del varietà sono cambiate da “Il mio primo film fu Luci del varietà; la regia e il soggetto erano miei” a “per la verità fece tutto Lattuada, io mi limitai ad osservare”.
Forse piace crederlo a me, eppure mi sembra che quest’ultima dichiarazione possa avere maggiore attinenza con quella che a parer mio è la realtà più credibile.
Bianca Lattuada, sorella di Alberto e produttrice del film, si è espressa con queste parole a proposito dell’atteggiamento di Federico Fellini durante la produzione di Luci del varietà.
“[…] la presenza di Fellini sul set era stata piuttosto dimessa, in sala di montaggio neppure ci andò, si disinteressò completamente, dedicandosi ad altri impegni, con Pietrangeli, e abbandonando perfino il set alcuni giorni prima delle riprese.”
Non ho nessun astio nei confronti di Fellini né parto prevenuto, semplicemente cercherò di mettere questo suo primo lungometraggio a paragone con il successivo, Lo sceicco bianco, per fare chiarezza.
Questo dialogo tra opera prima e opera seconda potrebbe rivelarsi utile per discernere quanto merito possa essere attributo a Federico Fellini e quanto a Lattuada in quello che ritengo un film non eccezionale, ma parzialmente riuscito.
Luci del varietà vede la luce nel periodo in cui il Neorealismo è ormai concluso, all’alba del miracoloso boom economico.
L’Italia è stanca delle disgrazie e dei racconti di miseria, perciò vuole ritrovare il piacere della risata, come qualche tempo prima puntualizzava Giulio Andreotti.
Questo sentimento di rinascita si tradurrà pochi anni dopo con quella che è ormai popolare in tutto il mondo come la commedia all’italiana: inaugurata per molti da Luigi Comencini con Pane, amore e fantasia (1953), per altri invece da I soliti ignoti di Mario Monicelli (1958).
Probabile che se la pellicola di Lattuada e Fellini avesse avuto un’eco maggiore la nascita della commedia all’italiana avrebbe coinciso con la sua uscita nelle sale.
Luci del varietà è un’opera precorritrice delle atmosfere vaudevilliane del regista riminese che, a differenza del suo successore, presenta una modalità di racconto per immagini più espressiva e coraggiosa.
Punti macchina volutamente forzati, giochi di prospettive e un uso di luci e ombre sapientemente articolato differenziano questo film sia dalla naturalistica immediatezza visiva delle pellicole neorealiste, sia dalle immagini piatte e convenzionali del Cinema dei telefoni bianchi.
Il tema affrontato - la difficoltà di farsi notare nel mondo dell’arte, di fare grandi cose e di ottenere la propria rivalsa personale - rimanda a un certo tipo di commedia americana degli anni ‘50, non a caso il film è caratterizzato da scene, personaggi e immagini che fanno riferimento a un immaginario teatrale (direi anche tronfio, via) che ritroviamo in molti film di Billy Wilder.
Meno riuscito è invece l’equilibrio tra i pieni e i vuoti: il film presenta scene tanto caotiche da far venire il mal di testa e momenti invece di “silenzio” tra i personaggi riempiti da pomposi temi musicali che quasi ricordano il Cinema muto.
Questo horror vacui felliniano è una delle caratteristiche del suo Cinema che meno gradisco (dati i precedenti e i successivi di Lattuada mi sento di attribuirlo a lui).
Federico Fellini Federico Fellini
Lo sceicco bianco, uscito solo due anni dopo, è invece un tentativo più timido di affrontare tematiche analoghe.
In questo caso la messa in scena di Fellini perde (magicamente) tutto il suo appeal e diventa più sussurrata, ma non rinuncia a trovate maccheroniche come la battuta finale “Sei tu il mio sceicco bianco!”, urlando in faccia allo spettatore (nel caso non lo avesse capito) di cosa tratta il film.
Nonostante forse il soggetto - scritto da Michelangelo Antonioni, che ne avrebbe dovuto fare il suo primo lungometraggio - ne offrisse la possibilità ancor più che in Luci del varietà, le inquadrature di Federico Fellini perdono la loro potenza visiva e narrativa, offrendo un punto di vista imparziale.
Il punto macchina giusto al momento giusto, il movimento di carrello a correggere, rare panoramiche che aggiustano la composizione. Tutti gli elementi espressivi della messa in scena sono spesso e volentieri funzionali e poco espressivi.
Certamente aver fatto l’aiuto regia a Roberto Rossellini non poteva aiutare Fellini nella ricerca di un’immagine pittorica, ma avrebbe potuto rendersi conto che esiste un linguaggio dell’inquadratura.
Lo stesso Fellini ha dichiarato che l’esperienza sul set di Paisà fu “memorabile non sul piano tecnico, dove non ho imparato niente anche perché non stavo attento, ma sul piano formativo”.
Per i motivi succitati mi sento di attribuire i meriti di Luci del varietà a Lattuada e i suoi demeriti a Federico Fellini, ma tengo a precisare una cosa: i punti di forza felliniani sono già presenti ne Lo sceicco bianco.
Seppur rade le rapide carrellate su Roma, che ritorneranno nei suoi film più celebrati, piantano i semi della poetica felliniana che più mi emoziona, ma approfondirò più avanti.
Federico Fellini Federico Fellini
I vitelloni (1953)
“C’è questo e c’è anche questo” dice il commendatore nel film, indicando il cervello e il cuore.
Diamine, questa battuta potrebbe benissimo bastare a riassumere quello che penso di questa terza pellicola di Federico Fellini!
Sarò diretto: I vitelloni è uno dei miei film preferiti del regista riminese.
Una piacevole coincidenza vuole che Stanley Kubrick avesse il mio stesso parere.
In primis I vitelloni è un’opera sincera, dove i (permettetemi) “filtri felliniani” non sono di troppo.
In questo caso l’animo giocherellone dell’autore diventa un valore aggiunto, ma soprattutto si fa collante necessario a raccontare l’abbandono dell’età giovanile per addentrarsi nella vita vera.
Le distanze con Lo sceicco bianco vengono prese fin dai titoli di testa, dove una panoramica che segue il gruppo dei cinque protagonisti ci svela il borgo di un’ipotetica Rimini ricostruita a Ostia.
I forti contrasti tra la luce dei lampioni e le ombre delle case antiche disegnano efficacemente un’atmosfera di desueto, di decadente. Gli espedienti visivi in questo caso sono virtuosi, espliciti, ma mai gratuiti.
Gran parte della teatralità dei primi due film di Fellini viene abbandonata in favore di un ritratto quanto più realistico del disagio della crescita.
Seppur in certa parte ridondante, anche il suono diventa parte integrante della narrazione, basti pensare alla meravigliosa scena del vento che fischia tra i vicoli del borgo, sovrastando i dialoghi tra i personaggi.
Anche i movimenti di macchina si fanno più articolati, dalla presentazione iniziale dei primi tre vitelloni (i cuccioli cresciuti, che non sono né vitelli né buoi) girata con un piccolo travelling che forse Martin Scorsese avrà studiato in dettaglio prima di girare i suoi film alla bellissima scena finale che, attraverso gli occhi di Moraldo, rincontra i protagonisti con delle velocissime carrellate laterali e in allontanamento, come se li vedessimo scorrere insieme a lui, come il paesaggio scorre dai finestrini del treno.
Federico Fellini si racconta in uno spietato autoritratto giovanile, riuscendo a cogliere però (in controtendenza rispetto ad un’autobiografia autoreferenziale) l’universalità del tema che indaga.
Il film non mostra l’immagine allo specchio del regista, ma è esso stesso lo specchio nel quale qualunque spettatore sopra i vent'anni, per questioni anagrafiche, può riflettersi.
Ma, ahimé, il titolo di questo articolo non promette elogi al regista, e laddove ci sia un pelo da trovare nell’uovo è bene rimboccarsi le maniche.
Io ho trovato un pelo gigante e fastidiosissimo.
Talvolta (purtroppo) questo lungometraggio viene meno al requisito minimo da adottare quando si gira un film: “non dirlo: mostralo”.
Non lo dico io, ma Alfred Hitchcock e la natura stessa del Cinema.
La voce narrante fa qualche comparsata rapida ma quando interviene, sistematicamente, descrive esattamente quello che stiamo guardando.
Vi faccio un esempio concreto.
I tre frame qui sopra sono estrapolati dalla scena in cui Leopoldo svita la penna stilografica, disegna un triangolo e guarda il soffitto.
Trascrivo testuali parole della voce narrante:
“[…] e siede al suo tavolo. Svita la stilografica, disegna un triangolino, insegue sul soffitto i suoi personaggi.”
Penso di aver reso l’idea, no?
Federico Fellini Federico Fellini
L’amore in città, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria (1953-1957)
L’amore in città, la cosiddetta rivista in pellicola, è un esperimento figlio del Neorealismo desichiano e viscontiano, non a caso preso in carico dallo stesso Cesare Zavattini.
Si tratta di un film collettivo diretto da Carlo Lizzani, Michelangelo Antonioni, Dino Risi, Federico Fellini, Francesco Maselli e Alberto Lattuada.
Il film racconta storie vere (reinterpretate dai veri protagonisti) di profonda depressione economica o psicologica legata alla difficoltà di amare qualcuno.
Purtroppo però ho sempre avuto dei problemi con questo tipo di film che cercano di restituire un’immagine edulcorata della realtà con la pretesa di essere più realistici possibili.
Operazioni come Lampi sull'acqua - Nick’s Movie (di Wim Wenders e Nicholas Ray, 1981) e To Stay Alive: A Method (Erik Lieshout, Arno Hagers, Reinier van Brummelen, 2016) mi lasciano interdetto.
Penso che qualsiasi film documentario (o presunto tale) che voglia fare un ritratto di una realtà disagevole, mortifera o di estrema miseria debba fare i conti con quella che è la morale dell’immagine.
Ricercare armonia nelle forme, nel suono, nelle luci, nelle ombre e nella composizione visiva è un metodo a parer mio fuorviante per raccontare (o mettere in scena) uno scorcio di vita vera.
L’episodio di Federico Fellini non è memorabile e ancora una volta fa i conti con il pericolosissimo espediente della voce narrante.
È interessante, seppur fine a se stessa, la premessa con la quale ha affrontato il progetto:
“Pensavo: “Cosa farebbero James Whale o Tod Browning se dovessero girare Frankenstein o Dracula in stile neorealista?”.
È così che nacque Un’agenzia matrimoniale.”
Io in questo breve episodio ho ravvisato in modo forse più marcato rispetto a I vitelloni l’estetica del caos, della fuggevolezza delle immagini, la quale caratterizzerà i prodotti felliniani a venire.
Federico Fellini Federico Fellini
A L’amore in città succede La strada nel 1954.
Questo è probabilmente il primo film del regista italiano ad aver lasciato la sua impronta indelebile nella Storia del Cinema.
Non fosse altro che nel 1957 fu il film che convinse l’Academy ad istituire ufficialmente la categoria Miglior Film in Lingua Straniera alla Cerimonia degli Oscar.
Doppio primato per l’Italia, che nel 1948 con Sciuscià di Vittorio De Sica ha persuaso Hollywood a conferirgli un premio speciale (lo stesso che sei anni dopo sarebbe diventato il Premio Oscar al Miglior Film in Lingua Straniera).
Vorrei spiegare perché invece io non amo questo film partendo da un piccolo scambio di idee tra Luchino Visconti e lo stesso Federico Fellini, riportato quasi con ironia ne L’avventurosa Storia del Cinema italiano - Vol. 2.
“La strada non è per nulla un film neorealistico.
Mi sembra piuttosto che i personaggi abbiano una natura di eccezione, e che si tratti di una vicenda campata più sull’astrazione che sulla realtà. […]”
Luchino Visconti
“[…] se Visconti usa “astrattismo” nel senso corrente della parola a proposito dell’operazione artistica, mi pare che ci sia una contraddizione in termini, poiché nulla è, per definizione, più ‘figurativo’ del cinema (mio e altrui). […]”
Federico Fellini
Prendo ovviamente le parti di Fellini, ma uso questa sua ultima dichiarazione per porre una questione: se non c’è nulla di più figurativo del Cinema, dov’è la strada ne La strada?
In un soggetto il cui tema è l’impervio percorso da seguire per trovare il proprio posto nel mondo, questa strada, che non è luogo di sedentarietà ma di pellegrinaggio, avremmo dovuto vederla un po’ di più.
Le bellissime (e rare) riprese, perlopiù presenti nel terzo atto, del paesaggio che scorre e viene lasciato dietro i nostri protagonisti assumono una funzione più pratica che narrativa, fungendo da collante visivo tra le varie tappe.
Lo stesso Tullio Pinelli ha avuto l’idea della sceneggiatura durante uno dei suoi viaggi tra Roma e Torino, dunque a parer mio sarebbe stato molto più potente indugiare su questo continuo abbandono del luogo.
Federico Fellini decide invece di dipanare il discorso tramite i dialoghi dei personaggi, che sfiorano il didascalico nella scena in cui Gelsomina si confessa con il Matto.
Anche la musica (seppur sublime) diventa invadente, andando costantemente a ribadire piuttosto che rinforzare le scene, come già succedeva nei due film precedenti. Dovremo aspettare ancora qualche film prima che la coppia Federico Fellini - Nino Rota raggiunga un equilibrio soddisfacente tra musica e immagini.
Non mi stupisce che le scene più potenti, come il drammatico finale, siano caratterizzate dall’assenza del tema principale e riempite solo dall’audio d’ambiente che circonda i personaggi.
Federico Fellini Federico Fellini
Nel 1955 è il turno dello sfortunato Il bidone.
La squadra vincente non è stata cambiata: Tullio Pinelli, Ennio Flaiano e Federico Fellini alla sceneggiatura, Nino Rota alle musiche e Franco Ferrara alla direzione d’orchestra.
Una troupe da Oscar, un protagonista da Oscar (il quale doveva essere Humphrey Bogart, ma si ripiegò su Broderick Crawford a causa della malattia del primo) e una sfortunata serie di eventi che hanno affossato quella che, al netto delle difficoltà produttive, rimane un’opera di tutto rispetto.
In questo film ho percepito un piccolo passo indietro (da me quantomeno auspicato) rispetto al successo de La strada.
Il bidone infatti è un film che evoca un immaginario felliniano più riconducibile a I vitelloni, tornando a riflettere sulla complessità di abbandonare la via più comoda e affrontare le proprie responsabilità.
Anche l’aspetto visivo del film si fa apice della maturazione dello sguardo felliniano, anticipando i chiaroscuri delle notti mondane de La dolce vita, il cui profumo permea Il bidone come una torta che cuoce in forno (o un peto prima della defecazione, dipende dai punti di vista).
La colonna sonora è caratterizzata da un continuo dialogo tra pieni e vuoti che culminano nello struggente finale, girato (e sonorizzato senza orpelli musicali) con un’attenzione al paesaggio che ricorda lo sguardo analitico dell’Antonioni architetto.
Federico Fellini Federico Fellini
E come procedendo a scacchiera Federico Fellini gira nel 1957 Le notti di Cabiria, questa volta ritornando su tematiche più affini a La strada.
Più di ogni suo altro lungometraggio precedente il regista indaga la miseria, imbastendo un confronto artistico con Pier Paolo Pasolini.
Pasolini ha tratteggiato nei dialoghi del film un ritratto credibile del sottoproletariato, Federico Fellini l’ha filtrato attraverso una visione spirituale dei fatti narrati.
Visione che mi dona emozioni contrastanti: da una parte scene come quella del mago mi hanno sbalordito, dall’altra il pellegrinaggio al santuario e la banda del finale mi hanno lasciato interdetto.
Questa mia perplessità, in maniera analoga ai dubbi che nutro nei confronti della messa in scena de La strada, nasce da una personalissima aspettativa disattesa dal regista rispetto al come decide di costruire le scene più evocative (se non addirittura religiose) della pellicola.
A mio avviso il carattere trascendentale de Le notti di Cabiria viene tradito dal ritmo eccessivamente serrato e caotico (per non dire entropico) di alcune situazioni, più simili a riti (spiccatamente circensi) che a visioni mistiche.
Per riuscire a “vedere” al di là dell’immagine, personalmente, ho bisogno di più tempo, di dilatazione temporale, di limpidezza.
Questo mi permette in primis di conoscere a menadito tutti gli elementi del quadro e in un secondo momento, quando il mio cervello ha processato tutte le informazioni visive, sono pronto a percepire ciò che sta in un ipotetico altrove rispetto all’immagine, e in ultimo ad entrarci.
In questo senso ai miei occhi il pellegrinaggio di Fellini è “solo” un pellegrinaggio, la parata è “solo” una parata.
Non è un modo per banalizzare la visione del regista, lungi da me, eppure determinate situazioni mi appaiono al più come metafore o simboli (che non amo particolarmente), e non costituiscono un punctum.
Nonostante le mie riserve, Le notti di Cabiria rimane un film che apprezzo e riguardo volentieri, d’altra parte i suoi meriti commerciali e mediatici sono innegabili: valse il secondo Oscar a Federico Fellini, solo un anno dopo il primo.
Si chiude così, trionfalmente, il primo decennio felliniano.
Federico Fellini Federico Fellini
La dolce vita (1960)
Nel 1959 terminano le riprese de La dolce vita e il Cinema, volente o nolente, non sarà più lo stesso.
Non stiamo facendo un gioco al massacro ad ogni costo; questo articolo ha l’obiettivo di dare una visione d’insieme (personalissima) del regista, che come avrete capito non è la classica: non reputo Federico Fellini il miglior regista di sempre (neanche italiano, se è per questo) e come vi ho già ampiamente spiegato ho in generale delle riserve su quelli che sono alcuni suoi feticismi narrativi.
Ma la verità è che il mio parere su La dolce vita non ha niente di interessante, non stimola in nessun modo il dialogo (né la discussione accesa), perché nella maggior parte dei casi finiremmo per guardarci dritti negli occhi, pronunciare la maledetta parola “capolavoro” e il confronto avrebbe termine.
Ma sono pronto in ogni caso a tesserne le lodi, d’altronde sono il primo ad essersi “offeso” (permettete anche a me di essere un fan fag) quando Mark Cousins ha liquidato Kubrick in 5 minuti a fronte delle 15 ore della sua Storia del Cinema (The Story of Film: An Odyssey, 2011).
Il 1960 è un anno di rivoluzione culturale per la cinematografia italiana.
Il Nuovo Cinema si fa spazio (chiedendo permesso, a differenza dell’esempio francese della Nouvelle Vague) e stimola i Maestri del passato a reinterpretarsi.
Il critico René Prédal descrive così questo nuovo sentimento innovatore:
“[…] affermando la loro personalità [i giovani cineasti del nuovo cinema italiano], spingono i Maestri a superare se stessi sulla via del Neorealismo, e addirittura a cambiare radicalmente stile (La dolce vita o L’avventura).”
La dolce vita è probabilmente quello che reputo il testamento artistico di Federico Fellini.
È il suo C’era una volta in America, il suo Eyes Wide Shut, il suo Il cavallo di Torino, il suo Sacrificio.
L’unica differenza è che al contrario delle opere citate non è il suo ultimo film.
L’importanza de La dolce vita trascende ogni parere personale, non perché non si possano avere delle riserve, ma perché costituisce un preciso spartiacque culturale.
Scorsese asserisce che esiste un prima e un dopo La dolce vita nella Storia del Cinema, ma forse è anche vero che esiste un prima e un dopo La dolce vita nell’immaginario collettivo.
Poche altre opere (e probabilmente sempre di Federico Fellini) hanno avuto una eco mediatica talmente forte da creare un nuovo linguaggio e un nuovo ritratto dell’Italia in tutto il mondo. Spietato certo, pessimista per alcuni versi, ma talmente potente da battezzare termini inediti e delineare nuove categorie sociali.
Il realismo de La dolce vita è in qualche modo retroattivo: non importa quanto plausibili o quanto immaginifici siano i personaggi del film, se anche prima non fossero esistiti, oggi (come allora) sono una realtà.
Dieci anni prima Vittorio De Sica aveva messo in scena il sentimento di ricostruzione del secondo dopoguerra, anticipando il boom economico italiano con Miracolo a Milano, di contro con questo film Federico Fellini denuncia a tutto il mondo i mostri che questo miracolo - una volta avvenuto - ha creato.
Roma non è più eterna, anzi è già cadavere, deturpata in ogni parte da vermi che la consumano e la riducono a rudere, a simulacro decadente della miseria morale.
L’aspetto visuale si fa raffinato come mai prima d’ora nella filmografia del regista.
Il film si distingue a partire dal formato che viene usato, il 2.35:1 contro il classico 1.37:1: una scelta che preannuncia la composizione panoramica del lungometraggio.
Per la prima volta i personaggi sono visivamente fusi con il luogo, lo modellano come una statua di creta, lo compongono geometricamente.
La dolce vita non è una pellicola di carrelli ma di panoramiche, movimenti quasi bidimensionali che esplorano una superficie piana come quella di un dipinto, deformandola attraverso la distorsione ottica dell’anamorfico.
Federico Fellini svela ciò che c’è già fuori dal quadro, non si crea (ma si trasforma).
La Romagna, Milano, Torino, Firenze, Venezia: tutta l’Italia dei ricchi è Roma, contenitore, in senso epico, di etnie (dall’estremo Oriente al Far West, dal nord Europa all’Africa).
Per Marcello [Mastroianni] è un gineceo, uno spazio di tentazione e di debolezze: una città diabolica nel senso cattolico del termine.
Il sacro è dissacrato, il trascendente è scimmiottato, lo sforzo di restituire una visione estatica di scene misticheggianti (come ne La strada e Le notti di Cabiria) lascia spazio a una costruzione quasi satirica, irridendo (bonariamente e forse senza un vero scopo morale) la tensione spirituale di un mondo profondamente materiale e materialista, dove il contatto col divino è di vino, di ebbrezza.
La fuggevolezza è estetica (le grandi folle, i movimenti di macchina che abbandonano costantemente i luoghi, i flash dei paparazzi (ante litteram) “deturpano” l’immagine) e narrativa (il film è stato più volte, anche dallo stesso Federico Fellini, definito episodico per la sua frenesia nel rinunciare sistematicamente alle situazioni e i personaggi caduchi).
Infine il suono, come mai prima, assume un ruolo cruciale nell’epopea felliniana.
L’impossibilità di sentire ciò che l’altro dice, risolta nell’espediente (quasi sintomo di schizofrenia) di interpretare i gesti (espressione propria del Cinema nella sua forma più pura) si risolve nell’indimenticabile finale, enigmatico, misterioso, inspiegabile, dove a Marcello non importa più di interpretare, non comprende né con le orecchie né con gli occhi. Il candore di Valeria Ciangottini è una dimensione che non riconsoce più.
Cosa voleva dire Federico Fellini - in concreto - alla fine de La dolce vita?
Cosa voleva dire Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio?
E François Truffaut ne I 400 colpi?
David Lynch nel midpoint di Strade Perdute?
Rispondo a queste domande (insopportabili) con una citazione:
“Credo sia immorale (nel senso più autentico del termine) raccontare una storia che abbia una conclusione.
Infatti nel momento in cui si presenta sullo schermo una soluzione, ci si estrania dagli spettatori.
Non esistono ‘soluzioni’ nelle loro vite.
Credo sia più morale – e più importante - mostrar loro, diciamo così, la storia di un uomo.
Allora ognuno, secondo la sua sensibilità, e sulla base del suo sviluppo interiore, potrà trovare la propria soluzione.”
Federico Fellini
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