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Il buono, il brutto, il cattivo - Un commento emozionale

Il terzo capitolo della Trilogia del Dollaro di Sergio Leone raccontato seguendo un flusso di coscienza e un punto di vista personale.

Lo spaghetti-western per antonomasia.

Una delle colonne sonore più famose della Storia del Cinema.

Un racconto epico che, per la prima volta nei lavori di Sergio Leone, entra di prepotenza in un contesto storico e arriva a toccare i temi politici e sociali degli Stati Uniti ai tempi della Guerra di Secessione.

 

Un finale fuori di testa, mastodontico, indescrivibile, il cui impatto nell’estetica del Cinema mondiale è stato immenso.

 

"Il mondo è diviso in due, amico mio: quelli che hanno la corda al collo e quelli che la tagliano."

"Solo che il collo dentro la corda è il mio, sono io che rischio, perciò la prossima volta voglio più della metà!"

"Sì, è vero che tu rischi, ma io taglio e se tu mi abbassi la percentuale, beh, potrei sbagliare la mira..."

"Ma se sbagli devi sbagliare sul serio perché chi mi frega e poi non mi ammazza, vuol dire che non ha capito niente di Tuco... Niente!"

 

 

Con Il buono, il brutto, il cattivo a mio avviso Sergio Leone ha realizzato un lavoro grandioso.

A differenza dei due film precedenti questa volta i mezzi e i soldi a disposizione c’erano eccome.

Nulla in confronto alle produzioni coeve ma, per quei tempi, il milione di dollari che United Artists sganciò sull’unghia al produttore Alberto Grimaldi poteva permettere una certa libertà creativa.

 

Il passo avanti rispetto ai primi due sudati western fu proprio questo: la possibilità di coinvolgere un gran numero di comparse, avere il via libera per la realizzazione di scene molto più impegnative (come grandi esplosioni o vere e proprie battaglie) e, soprattutto, la scelta di un cast di eccellenza senza doversi accontentare di ciò che offriva il mercato.

 

Nonostante questo, Leone confermò i due grandi protagonisti di Per qualche dollaro in più.

 

 

Clint Eastwood, all’inizio, dopo aver raggiunto un’immensa popolarità anche in patria, non era molto propenso a recitare in un altro film in Italia.

In particolare, dopo aver letto la sceneggiatura, si lamentò del fatto che il suo personaggio venisse messo in ombra dalla figura del co-protagonista.

Leone, con i suoi soliti metodi e con l’aiuto di un sostanzioso ritocco al compenso e alle percentuali di vendita, lo convinse a partecipare.    

 

Per quanto riguarda il ruolo del Cattivo, il regista romano confermò Lee Van Cleef, preferendolo a Gian Maria Volonté, che pure aveva insistito per avere una parte.

L’attore statunitense, secondo Leone, possedeva delle caratteristiche che lo rendevano perfetto come la freddezza, il suo ormai noto sguardo glaciale, l’eleganza nei movimenti e la sua grande raffinatezza, molto diversi dalla nevroticità di Volonté.

Mancava solo il terzo protagonista.

 

Leone fece qui probabilmente una delle scelte più azzeccate della sua vita, contattando Eli Wallach, attore famoso e conosciuto per molti cult western hollywoodiani, tra cui La conquista del West e I magnifici sette.

Wallach inizialmente non voleva accettare, ma dopo aver visto la prima scena di Per qualche dollaro in più, si dice che abbia subito chiesto a Leone: “Per quanto mi vuoi?”. 

 

Il trio era completo.

 

 

 

 

Clint Eastwood è il Buono, detto anche Biondo: una sorta di evoluzione dello Straniero e del Monco dei primi due film.

 

Un cacciatore di taglie silenzioso, lento, glaciale nelle battute, astuto e desideroso di ricchezza, doppiogiochista e vendicativo, ma con un proprio codice d’onore.

Leone lo riteneva perfetto per la parte anche in virtù delle sue caratteristiche caratteriali.

 

Il sigaro perennemente acceso, ormai divenuto un marchio di fabbrica e un segno distintivo, il solito poncho, i movimenti lentissimi che subito si infiammano durante le sparatorie e la precisione chirurgica, sono parte di uno dei personaggi simbolo del genere western.

 

Biondo ha elaborato una tattica infallibile per arricchirsi facilmente: mettersi d’accordo con un bandito, catturarlo, intascare la taglia, e, con un colpo ben assestato al cappio, salvarlo dall’impiccagione.

Dopo averlo fatto fuggire i due si dividono i soldi e si preparano a ripetere l’operazione in un altro paese.

Ma quando c’è la possibilità di arricchirsi veramente, la storia cambia.

 

Lee Van Cleef è il Cattivo, chiamato anche Sentenza, un sicario infallibile che farà carriera come Sergente nell’esercito nordista. Caratteristica fondamentale: una volta pagato, porta sempre a termine il lavoro. Lo si vede nelle primissime, terribili e meravigliose scene, quando arriva a uccidere un’intera famiglia e il suo stesso datore di lavoro. Spietato e crudele, arriverà a imporre la sua influenza nel campo di prigionia nordista dove, anche contro il volere del capitano suo superiore, renderà la vita dei prigionieri sudisti un vero inferno.

 

Il suo obiettivo sarà quello di mettere le mani su una cassa d’oro nascosta nella tomba di un cimitero da un certo Bill Carson, soldato delle schiere della Confederazione, l’unico a conoscere il nome del luogo dove è sepolta.

 

 

 


Eli Wallach è il Brutto, il cui vero nome (l’unico che lo spettatore conosce) è Tuco Benedicto Pacifico Juan Maria Ramirez.

Se in Per un pugno di dollari il grande protagonista è Clint Eastwood e in Per qualche dollaro in più è Lee Van Cleef, qui a emergere sopra tutti è proprio Wallach.

La caratterizzazione del personaggio, un goffo ma rapidissimo bandito complice di svariati crimini e ricercato in quindici contee, è incredibilmente complessa e profonda.

 

È l’unico di cui si conosce la storia, ed è l’unico su cui sia stata costruita una vera riflessione. Nell’incontro con il fratello Pablo, divenuto monaco gestore di un monastero che accoglie e cura i feriti di guerra, emergono tutte le contraddizioni di una categoria sociale presente tanto nell’America di allora quanto nella nostra modernità: gli emarginati, gli ultimi, coloro che sono costretti a condurre una vita di inferno per colpa di una società che ha deciso di prestare loro troppa poca attenzione.

 

“Tu ti credi meglio di me, ma dalle nostre parti se uno non vuole morire di fame o fa il prete o fa il bandito. Tu hai scelto la tua strada, io ho scelto la mia. È la mia la più dura!”

  

La grande complessità di questo personaggio è nascosta dietro una maschera di grande comicità e simpatia, a cui lo spettatore difficilmente riesce a non affezionarsi.

Un ruolo creato soprattutto grazie alle grandi abilità di caratterista di Wallach stesso, il quale ha dato un enorme contributo alla creazione di un personaggio da cui Leone non si è più staccato nel resto della sua carriera: basti pensare a Cheyenne in C’era una volta il West e Juan in Giù la testa.

 

I costumi sono stati personalmente scelti dall’attore, così come alcuni gesti ed espressioni che ormai sono divenuti icona: il ringhio nei confronti della donna che lo osservava mentre lo sceriffo leggeva le accuse nei suoi confronti (non presente in sceneggiatura) e il comico segno della croce in presenza di un morto.

 

Un po’ come nella Commedia dell’Arte italiana, nelle opere di Goldoni, Molière, nella satira latina e nelle commedie di Plauto e Terenzio, in Tuco coesistono la pura comicità e l’assurdità di certe situazioni (basti pensare ad alcune scene esilaranti, come il terribile malinteso della truppa nordista coperta di polvere e scambiata per sudista), insieme a un passato difficile e una chiara consapevolezza di ciò che significa sopravvivere.

  

Un cinismo e un attaccamento alla vita che mostrano il vero volto della società americana di fine ‘800.

 

 

 

 

L’inserimento di una trama abbastanza semplice in un contesto molto complesso e un tema delicato e difficile da affrontare rendono la costruzione narrativa di questo film a dir poco spettacolare. Leone gioca moltissimo sull’alternanza di scene molto diverse fra di loro per toni, ritmo e linguaggio, lasciando trascinare lo spettatore in una storia che riesce a divertire, intrattenere, commuovere, far riflettere e lasciare a bocca aperta.

 

Tra le scene da menzionare assolutamente c'è quella del deserto. 

Tuco orchestra una vendetta micidiale nei confronti del Biondo, che lo aveva lasciato a piedi, solo e legato a parecchie miglia dalla città più vicina: attraversare a piedi il deserto per chilometri e chilometri, senz’acqua e senza cappello. Mentre Tuco, comodamente seduto sul suo cavallo, con cibo, acqua e ombra a sufficienza, lo osserva disintegrarsi piano piano sotto i raggi impietosi del sole.

 

È sempre stata una scena che mi ha colpito moltissimo. I campi profondissimi, le ombre lunghe che anticipano i corpi, quell’ombrello rosa ricamato che spicca nella monotonia cromatica della sabbia. Un Biondo dal volto tumefatto - spesso ripreso in crudissimi primi piani - riuscirà a salvarsi solo grazie a un incontro quasi divino: Bill Carson, in punto di morte, gli rivelerà il nome della tomba dove aveva nascosto l’oro.

 

Tuco, che era riuscito a strappare a Carson soltanto il nome del cimitero, si troverà costretto a costituire una società e a salvare la vita dell’odiato nemico. Questo nuovo rapporto, costruito tra tradimenti e riconciliamenti, si trascinerà fino all’ultima scena, con una nuova coppia stranamente assortita che entra di diritto nel cuore di tutti noi cinefili.

 

Leone, volendo mostrare l'assurdità e la follia di una guerra di cui gli americani fanno ancora fatica a parlare, riesce ad mostrare allo spettatore le due diverse prospettive, ma senza far prevalere nettamente l’una o l’altra. Prima, in un campo sudista, con il morale sotto i tacchi, un pasto misero, ferite da leccare e l’incredulità di dover vendere la propria pelle per il nulla. Non vengono mostrati ideali, scelte politiche o questioni razziali.

Solo lo sconforto e il dolore.

 

Poi, il campo nordista. Un vero e proprio campo di concentramento, con evidenti richiami alla ferita ancora fresca del Nazismo. I “buoni” ci sono, ma ci sono anche gli animali. Questo per far capire che tra Nord e Sud non c’è poi tutta quella grande differenza che la retorica degli Stati Uniti ha voluto rimarcare.

 

La scena della tortura da parte del terribile Wallace (interpretato dal solito, immenso, Mario Brega), sottolineata dal coro dei prigionieri, è una delle più belle dell’intera Trilogia. La musica è mesta, lenta, quasi funebre, e accompagna l’inaudita violenza dei colpi di Wallace con un’ironia acuta e dolorosa.  

Vengono inquadrati i volti dei musicisti, volti cadaverici di chi ha già visto troppa ferocia e disperazione, e la melodia continua a risuonare nel campo, crescendo ogni qual volta la tortura diventa più intensa.

 

Infine, come non parlare della spettacolare scena del ponte: Tuco e il Biondo sono a un passo dal cimitero che li renderà ricchi.

A separarli da quella fortuna, un ponte conteso dalle due fazioni.

Un simbolo dell’assurdità di quella guerra.

 

Due schieramenti che si ammazzano tra di loro come mosche, il tutto perché i generali che conducono le operazioni hanno deciso che quello è una delle chiavi fondamentali delle operazioni. Tuco e il Biondo, pur di salvarsi, fingono di volersi arruolare come volontari. Conoscono così il Capitano che comanda le operazioni, un disilluso ufficiale alcolizzato che, con estremo cinismo, riporta tutto il pensiero di Leone sull’assurdità della guerra.

 

E, anche in questo caso la risoluzione è geniale: far saltare il ponte. Un concetto, ripreso ancora più approfonditamente in Giù la testa, che significa molto più di quanto sembra. È la risposta della disperazione alla disperazione.

 

La Dinamite, quasi come una dea greca, che interviene con il suo urlo straziante per porre fine alle morti insensate.

 

 

 

La scena del ponte, tra l’altro, richiama una delle storie più assurde e paradossali sulla produzione di questo film.

 

Il ponte venne costruito davvero: dopo aver realizzato una diga per portare l’acqua al punto giusto, in quindici giorni venne creata una struttura in pietra e legno, con l'aiuto una squadra di ingegneri militari del posto. Furono posizionate delle cariche di dinamite e una serie di macchine da presa per poterlo riprendere da più punti. Immaginate la babele di lingue che venivano parlate nel set: italiano da Leone e la troupe, inglese dai protagonisti, spagnolo dalle comparse e i militari, tedesco e francese da alcuni collaboratori.

 

A causa di un’incomprensione tra il responsabile degli effetti speciali e il capo della squadra di ingegneri che avrebbe dovuto avere l’onore di  innescare l’esplosione, il ponte saltò in aria quando molte cineprese non erano ancora in funzione.

Leone costrinse tutti a ricostruire il ponte da zero per replicare la scena, arrivando a minacciare di morte il capitano spagnolo.

La seconda esplosione andò a buon fine, anche se Clint Eastwood dichiarò più volte che se lui e Wallach si fossero posizionati dove aveva indicato loro Leone sarebbero probabilmente morti colpiti dai detriti.

 

E non fu l’unica occasione in cui Eli Wallach rischiò la vita!

Una volta bevve da una bottiglia di acido che era stata lasciata vicino alla sua soda. Poi, nella famosa scena in cui rimane appeso al collo prima che Eastwood spari alla corda, non solo andò pericolosamente vicino al soffocamento, ma il cavallo su cui era in sella si imbizzarrì a causa degli spari e si lanciò al galoppo mentre il povero Wallach aveva le mani legate, rischiando di finire sfracellato al suolo.

 

Infine, nell’altrettanto celebre scena in cui doveva rompere le manette che lo legavano a Wallace sotto le ruote di un treno che stava passando, rischiò di essere decapitato dagli scalini di acciaio che sporgevano dai vagoni a tutta velocità.

 

La normalità in un set di Sergio Leone del 1966.

 

 

 

Arriviamo finalmente al finale. E qui sarà davvero difficile provare a parlarne.

Quentin Tarantino ha dichiarato che l’obiettivo della sua vita sarebbe quello di realizzare un finale perfetto come questo. Ma è lui stesso consapevole dell’impossibilità dell’impresa. 

Ci troviamo in un cimitero, anche questo costruito dal nulla a partire da un pascolo.

 

Lo scenografo Carlo Leva lo progettò in seguito a una serie di consulenze da parte di architetti e ingegneri, arrivando a scavare ottomila tombe disposte secondo una simmetria e un ordine che ancora vengono studiati nei corsi di scenografia di tutte le scuole di cinema più importanti d'America.

La corsa di Tuco in mezzo a tutte quelle tombe, alla ricerca del nome di Arch Stanton, è una delle sequenze più geniali mai viste. La camera traspone in soggettiva il suo sguardo, con movimenti sempre più rapidi e frenetici.

 

Addirittura, si racconta che per rendere più realistica la corsa scomposta di Wallach gli venne sguinzagliato un cane alle calcagna.

Finalmente la tomba.

A questo punto, con un uso incredibile del fuoricampo, entrano in scena prima il Biondo e poi Sentenza. La bara si rivelerà quella sbagliata, rivelando al suo interno uno scheletro (pare fossero le ossa di un’attrice defunta da molti anni che, in punto di morte, chiese di poter continuare a recitare anche dopo la sua dipartita: Leone la accontentò).

 

Nello spazio circolare al centro del cimitero, come in un circo popolato da spettatori in decomposizione, prende vita quella che rimarrà, probabilmente, una delle scene più epiche della storia del cinema: il triello. 

Montaggio alternato perfetto, sguardi intensissimi che si susseguono a raffica, le mani (con il particolare incredibile del dito mozzato di Lee Van Cleef), il tutto a una velocità sempre crescente, con la colonna sonora che diviene sempre più intensa. Un climax di perfezione tecnico-narrativa indescrivibile.

 

 

 

Sono lì, tutti e tre, uno di fronte all’altro.

Il Buono, che alla fine è uno sporco cacciatore di taglie doppiogiochista, un grande antieroe, il tramonto definitivo delle facce pulite e dei cuori senza macchia delle star hollywoodiane.

 

Il Brutto, che tuttavia nasconde una storia e un passato che lo rendono pienamente umano, nonché una sensibilità che emerge in più punti durante il corso del film: pieno di contraddizioni, ma totalmente coinvolto nel dolore e nella miseria di chi è costretto a morire per una guerra assurda.

 

Il Cattivo che nonostante tutto ha un suo codice d’onore, che rende una macchina perfetta e un robot infallibile molto più umano di quello che potrebbe sembrare. Come si può intuire da gesti quotidiani come mangiare e bere di fronte alla propria vittima, o alla bottiglia di vino offerta all’ufficiale del campo sudista.

  

Sono i tre protagonisti di un film che, come prima cosa, inganna lo spettatore a partire dal titolo. Non c’è un Buono, un Brutto e un Cattivo nell’America della guerra civile.

C’è soltanto una cosa, e si chiama umanità. Piena di contraddizioni e di complessità.

 

La stessa umanità che riesce a racchiudere tantissimi aggettivi in un solo concetto. Lo dimostra proprio l’immensa colonna sonora di Ennio Morricone: il tema del film è riproposto ogni volta in tre chiavi diverse, a seconda del personaggio a cui è accostato.

 

Per il Biondo è suonato da un flauto soprano.

Per Tuco dalle voci umane, che pronunciano contemporaneamente due vocali, la A e la E.

Per Sentenza dall’arghilofono.

Ed è proprio questo che sono il Buono, il Brutto e il Cattivo: la stessa melodia suonata da tre strumenti diversi.

 

Perché il bianco e il nero non esistono ma, se mischiati con tutti gli altri colori, si riesce a dare un’idea della tonalità ricca di sfumature con cui è dipinto l’essere umano.

L’uomo, secondo Leone, può essere tante cose.

Un raffinato e astuto doppiogiochista, una letale macchina da soldi, ma, soprattutto, un bastardo vagabondo come Tuco.

 

Anzi, per usare le sue stesse parole:

“LO SAI DI CHI SEI FIGLIO TU? SEI IL FIGLIO DI UNA GRANDISSIMA PUTTAAAAAAHHHH”

 

 

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